Il romanzo I Fratelli Karamazov è l’ultima opera
di Dostoevskij. Doveva essere il
primo di una serie. Dostoevskij aveva allora cinquantanove anni; egli scriveva «Constato
spesso con dolore che non ho espresso, letteralmente, la ventesima parte di
quello che avrei voluto, e, forse anche, potuto esprimere. Quello che mi salva è
la speranza abituale che un giorno Dio mi manderà tanta forza e ispirazione,
che mi esprimerò più completamente: in breve, che potrò esporre tutto quello
che racchiudo nel mio cuore e nella mia fantasia».
Era uno di
quei rari geni che avanzano, d’opera in opera, per una sorta di progressione
continua, fino a che la morte non li venga bruscamente a interrompere. Nessun
ripiegamento in quella sua focosa vecchiaia, non più che in quella di Rembrandt
o di Beethoven, al quale mi piace paragonarlo: un sicuro e violento
approfondirsi del suo pensiero.
Senza alcuna
compiacenza verso di sé, continuamente insoddisfatto, esigente fino all’impossibile,
- e tuttavia pienamente cosciente del suo valore, - prima di abbordare i
Karamazov un segreto trasalimento di gioia l’avverte: possiede, finalmente, un
soggetto della sua statura, della statura del suo genio. «Mi è raramente
capitato», scrive, «di aver da dire qualcosa di più nuovo, di più completo e
originale». E questo libro fu quello che accompagnò Tolstoj sul suo letto di
morte.
André Gide
Dostoevskij
Medusa 2013
anticipazione su Repubblica di oggi
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