Di norma non scrivo di
libri o film che non mi siano piaciuti. Di norma.
Però dopo avere trascorso
oltre due ore a chiedermi dove fosse nascosta la Grande Bellezza ho deciso di
dedicare qualche riga al nuovo (?) film di Paolo Sorrentino da cui mi aspettavo
moltissimo. Mi aspettavo, appunto.
Gep Gambardella, lo
splendido (in altri film) Toni Servillo, è uno scrittore napoletano trapiantato
a Roma. Famoso per essere stato famoso quaranta anni fa con il romanzo
L’apparato umano (spero di non sbagliare il titolo del capolavoro) vive una
vita notturna di feste dal sapore anni Ottanta, che dovrebbero essere l’emblema
della decadenza romana e italiana, con gente semi-famosa che balla al ritmo di
suoni quasi tribali, preoccupata dell’apparire giovane e desiderabile più di
qualunque altra cosa. Non memorabile e non emblematico, a questo proposito, il
chirurgo che fa le “punturine” in faccia agli un tempo-giovani-e-belli.
Se il lato profano e
trasgressivo della sua vita sta nelle scorribande notturne e in frettolosi e
noiosi rapporti amorosi – è la povera Isabella Ferrari/Orietta, milanese che di
lavoro fa la ricca - a fare le
spese della decisione di Gep di non perdere altro tempo perché ormai ha
compiuto 65 anni, il lato sacro dovrebbe essere rappresentato dalle suorine che
raccolgono le arance, dai bambini in abito bianco che lo osservano rientrare a
casa il mattino – le passeggiate di Gep sono però davvero belle: nessuno
cammina come Servillo - dal
cardinale in odore di soglio pontificio ossessionato dalle ricette a cui Gep
arriva persino a fare domande spirituali. E non avendo avuto soddisfacenti
risposte, torna a cuore leggero a occuparsi del suo nulla quotidiano.
Ma perché Gep è uno
scrittore? È vero che in realtà vive del suo lavoro di intervistatore di gente
famosa per una improbabile rivista diretta dalla forse unica amica Dadina,
disincantata e a suo modo saggia, che lo accudisce con piatti caldi condivisi
sulla sua scrivania ed è l’unica che dopo secoli lo chiama Geppino e non se ne
va dalla sua vita. L’amico Carlo Verdone/Dante – che ha trascorso in adorazione
di Gep qualche decennio e scrive soprattutto per conquistare un’attrice fallita
che è diventa scrittrice – se ne torna al paese sconfitto al punto da
abbandonare a Roma tutte le sue cose. Sono almeno tre, poi, gli scrittori
citati nel film: Céline scomodato per l’esergo, Proust perché l’attrice sta
scrivendo un romanzo dal sapore proustiano e il suicida Andrea, vittima di una
madre vecchio stile, ne ha paura, e infine Flaubert, che avrebbe voluto
scrivere un romanzo sul nulla. Nella sua bella casa, vicino e dietro a un letto
che sembra un gommone, una zattera di salvataggio, vediamo in file ordinate e
ossessive una bella collezione di libri Einaudi del secolo scorso, dagli
inconfondibili dorsi bianchi o bianchi e rossi. Gep è quindi stato un
intellettuale organico, a un certo punto durante una conversazione in terrazza
dove smaschera le velleità dell’amica scrittrice prolifica e modaiola, viene
addirittura citato il Partito.
Le altre figure che
dovrebbero essere emblematiche sono la bambina pittrice-performer che
scaraventa i colori e se stessa sulla tela piangendo lacrime vere, l’artista
che prende a “capate” il muro di un acquedotto, tutta nuda e urlante, Sabrina
Ferilli, malinconica spogliarellista con la villetta, Suor Maria detta la Santa
– ma l’attrice forse era un attore – che parla con i fenicotteri e dorme sul
pavimento e si nutre di 40 grammi di radici al giorno perché le radici sono
importanti, le principesse che giocano a carte e il giovane affidabile che ha
le chiavi di tutti i portoni, la coppia di nobili Colonna-Reggio che costano
250 euro a persona e si spostano solo in limousine e interpretano un’altra coppia
di nobili a una cena sulla terrazza di Gep. E non ultimo il vicino di casa
silenzioso e tetro che sembra un finanziere milanese e si rivela poi uno dei
dieci ricercati dalla polizia più pericolosi.
Ma tutte queste figura
restano prigioniere della loro grottesca caricaturalità che vorrebbe essere
felliniana, ma resta solo grottesca e non compiuta. Quando Gep è solo nella sua
cameretta passa il tempo a guardare il mare sul soffitto e a ricordare l’amore
perduto della sua gioventù che lo aveva lasciato senza spiegazioni sempre 40
anni prima. La sua innamorata Elisa, nel frattempo è morta e il vedovo scopre
in un diario chiuso con il lucchetto che lei ha amato tutta la vita Gep e che
lui, marito devoto, è stato solo un buon compagno che ha meritato solo due
righe di citazione. Quando lo scrittore va a chiedergli di poter leggere il
diario lui gli rivela di averlo gettato pochi giorni dopo il funerale e gli
presenta la sua nuova compagna/badante con cui trascorre delle serene serate a
guardare la televisione.
Il risultato finale è una
Grande Sconnessione, dove sì Roma è bella, ma niente che non avessimo già visto
e l’incantato turista giapponese che stramazza al suolo, non si capisce se a
causa di un infarto o della Sindrome di Stendhal, forse in realtà era appena
uscito dal cinema dopo avere visto il film di Sorrentino. Non che non ci siano
buone cose, battute divertenti di Gep e dell’amico che esporta giocattoli anche
ai Cinesi, la musica che irrompe spesso, bellissima, che però aumenta l’effetto
generale di Maionese Impazzita.
Che dire alla fine? Un
appello almeno lo voglio fare – anche perché l’altra grande delusione
cinematografica recente (vedi post relativo) è stata il film Nella casa di
Ozon: registi lasciate in pace gli scrittori!
È già così difficile
interpretare la parte dello scrittore in un mondo dove tutti scrivono e si
auto-pubblicano che vorrei cercare di mantenere intatta nella mia immaginazione
la figura dello scrittore interiore che mi accompagna dalla più tenera
gioventù: una persona sola e solitaria - uomo o una donna che sia - seduta a un piccolo tavolo ingombro di
carte scritte mano, di quaderni di appunti squadernati a pancia all’aria, di
una risma di fogli intonsi – bianchi o azzurri – che aspettano il loro turno
come condannati, di una vecchia macchina da scrivere Olivetti di metallo nero
con i tasti avorio, di tazze di tè o caffé semi-vuote, di matite senza la punta
e stilografiche essiccate, di dizionari consumati dall’uso, di portacenere
pieni di cicche e un filo di fumo che sale verso il soffitto, di una luce che
illumina il tavolo ma non la stanza che è in penombra, e dove si intravedono
librerie piegate dal peso dei libri, che stanno anche sul pavimento in
instabili torri che creano un paesaggio che è tutto il mondo di cui lo
scrittore ha bisogno, perché la finestra è alle sue spalle e le imposte sono
chiuse se è giorno, ma nella mia immaginazione è quasi sempre notte, come
adesso, e le albe arrivano rotolando e ghermendo con dita rosate la notte che è
la vera compagna di chi scrive. E per scrivere non serve altro che un mozzicone di
matita, qualche foglio bianco, la capacità di stare seduto da solo per ore. E
non pensiate che questo sia un sacrificio e la vita stia altrove, lo scrittore
sta seduto solo a un piccolo tavolo per ore, riempiendo quaderni e fogli,
ticchettando sulla macchina da scrivere o sul meno emblematico portatile,
proprio perché non c’è niente di più che gli piaccia al mondo. E a Gep scrivere
sembra proprio che gli piaccia poco.
E.P.
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