domenica 2 giugno 2013

Il Grande Mah: sullo scrittore come emblema della decadenza del mondo occidentale


Di norma non scrivo di libri o film che non mi siano piaciuti. Di norma. 
Però dopo avere trascorso oltre due ore a chiedermi dove fosse nascosta la Grande Bellezza ho deciso di dedicare qualche riga al nuovo (?) film di Paolo Sorrentino da cui mi aspettavo moltissimo. Mi aspettavo, appunto.

Gep Gambardella, lo splendido (in altri film) Toni Servillo, è uno scrittore napoletano trapiantato a Roma. Famoso per essere stato famoso quaranta anni fa con il romanzo L’apparato umano (spero di non sbagliare il titolo del capolavoro) vive una vita notturna di feste dal sapore anni Ottanta, che dovrebbero essere l’emblema della decadenza romana e italiana, con gente semi-famosa che balla al ritmo di suoni quasi tribali, preoccupata dell’apparire giovane e desiderabile più di qualunque altra cosa. Non memorabile e non emblematico, a questo proposito, il chirurgo che fa le “punturine” in faccia agli un tempo-giovani-e-belli.
Se il lato profano e trasgressivo della sua vita sta nelle scorribande notturne e in frettolosi e noiosi rapporti amorosi – è la povera Isabella Ferrari/Orietta, milanese che di lavoro fa la ricca -  a fare le spese della decisione di Gep di non perdere altro tempo perché ormai ha compiuto 65 anni, il lato sacro dovrebbe essere rappresentato dalle suorine che raccolgono le arance, dai bambini in abito bianco che lo osservano rientrare a casa il mattino – le passeggiate di Gep sono però davvero belle: nessuno cammina come Servillo -  dal cardinale in odore di soglio pontificio ossessionato dalle ricette a cui Gep arriva persino a fare domande spirituali. E non avendo avuto soddisfacenti risposte, torna a cuore leggero a occuparsi del suo nulla quotidiano.

Ma perché Gep è uno scrittore? È vero che in realtà vive del suo lavoro di intervistatore di gente famosa per una improbabile rivista diretta dalla forse unica amica Dadina, disincantata e a suo modo saggia, che lo accudisce con piatti caldi condivisi sulla sua scrivania ed è l’unica che dopo secoli lo chiama Geppino e non se ne va dalla sua vita. L’amico Carlo Verdone/Dante – che ha trascorso in adorazione di Gep qualche decennio e scrive soprattutto per conquistare un’attrice fallita che è diventa scrittrice – se ne torna al paese sconfitto al punto da abbandonare a Roma tutte le sue cose. Sono almeno tre, poi, gli scrittori citati nel film: Céline scomodato per l’esergo, Proust perché l’attrice sta scrivendo un romanzo dal sapore proustiano e il suicida Andrea, vittima di una madre vecchio stile, ne ha paura, e infine Flaubert, che avrebbe voluto scrivere un romanzo sul nulla. Nella sua bella casa, vicino e dietro a un letto che sembra un gommone, una zattera di salvataggio, vediamo in file ordinate e ossessive una bella collezione di libri Einaudi del secolo scorso, dagli inconfondibili dorsi bianchi o bianchi e rossi. Gep è quindi stato un intellettuale organico, a un certo punto durante una conversazione in terrazza dove smaschera le velleità dell’amica scrittrice prolifica e modaiola, viene addirittura citato il Partito.

Le altre figure che dovrebbero essere emblematiche sono la bambina pittrice-performer che scaraventa i colori e se stessa sulla tela piangendo lacrime vere, l’artista che prende a “capate” il muro di un acquedotto, tutta nuda e urlante, Sabrina Ferilli, malinconica spogliarellista con la villetta, Suor Maria detta la Santa – ma l’attrice forse era un attore – che parla con i fenicotteri e dorme sul pavimento e si nutre di 40 grammi di radici al giorno perché le radici sono importanti, le principesse che giocano a carte e il giovane affidabile che ha le chiavi di tutti i portoni, la coppia di nobili Colonna-Reggio che costano 250 euro a persona e si spostano solo in limousine e interpretano un’altra coppia di nobili a una cena sulla terrazza di Gep. E non ultimo il vicino di casa silenzioso e tetro che sembra un finanziere milanese e si rivela poi uno dei dieci ricercati dalla polizia più pericolosi.

Ma tutte queste figura restano prigioniere della loro grottesca caricaturalità che vorrebbe essere felliniana, ma resta solo grottesca e non compiuta. Quando Gep è solo nella sua cameretta passa il tempo a guardare il mare sul soffitto e a ricordare l’amore perduto della sua gioventù che lo aveva lasciato senza spiegazioni sempre 40 anni prima. La sua innamorata Elisa, nel frattempo è morta e il vedovo scopre in un diario chiuso con il lucchetto che lei ha amato tutta la vita Gep e che lui, marito devoto, è stato solo un buon compagno che ha meritato solo due righe di citazione. Quando lo scrittore va a chiedergli di poter leggere il diario lui gli rivela di averlo gettato pochi giorni dopo il funerale e gli presenta la sua nuova compagna/badante con cui trascorre delle serene serate a guardare la televisione.

Il risultato finale è una Grande Sconnessione, dove sì Roma è bella, ma niente che non avessimo già visto e l’incantato turista giapponese che stramazza al suolo, non si capisce se a causa di un infarto o della Sindrome di Stendhal, forse in realtà era appena uscito dal cinema dopo avere visto il film di Sorrentino. Non che non ci siano buone cose, battute divertenti di Gep e dell’amico che esporta giocattoli anche ai Cinesi, la musica che irrompe spesso, bellissima, che però aumenta l’effetto generale di Maionese Impazzita.

Che dire alla fine? Un appello almeno lo voglio fare – anche perché l’altra grande delusione cinematografica recente (vedi post relativo) è stata il film Nella casa di Ozon: registi lasciate in pace gli scrittori!

È già così difficile interpretare la parte dello scrittore in un mondo dove tutti scrivono e si auto-pubblicano che vorrei cercare di mantenere intatta nella mia immaginazione la figura dello scrittore interiore che mi accompagna dalla più tenera gioventù: una persona sola e solitaria - uomo o una donna che sia -  seduta a un piccolo tavolo ingombro di carte scritte mano, di quaderni di appunti squadernati a pancia all’aria, di una risma di fogli intonsi – bianchi o azzurri – che aspettano il loro turno come condannati, di una vecchia macchina da scrivere Olivetti di metallo nero con i tasti avorio, di tazze di tè o caffé semi-vuote, di matite senza la punta e stilografiche essiccate, di dizionari consumati dall’uso, di portacenere pieni di cicche e un filo di fumo che sale verso il soffitto, di una luce che illumina il tavolo ma non la stanza che è in penombra, e dove si intravedono librerie piegate dal peso dei libri, che stanno anche sul pavimento in instabili torri che creano un paesaggio che è tutto il mondo di cui lo scrittore ha bisogno, perché la finestra è alle sue spalle e le imposte sono chiuse se è giorno, ma nella mia immaginazione è quasi sempre notte, come adesso, e le albe arrivano rotolando e ghermendo con dita rosate la notte che è la vera compagna di chi scrive. E per scrivere non serve altro che un mozzicone di matita, qualche foglio bianco, la capacità di stare seduto da solo per ore. E non pensiate che questo sia un sacrificio e la vita stia altrove, lo scrittore sta seduto solo a un piccolo tavolo per ore, riempiendo quaderni e fogli, ticchettando sulla macchina da scrivere o sul meno emblematico portatile, proprio perché non c’è niente di più che gli piaccia al mondo. E a Gep scrivere sembra proprio che gli piaccia poco.

E.P.

Nessun commento: