domenica 9 giugno 2013

Andare a capo prima di fine riga non significa scrivere versi

Ogni qual volta leggo un titolo di giornale che preannuncia versi e poesia mi dispongo in uno stato d'animo di lieta attesa, anche perché ciò accade sempre più di rado. Ogni giorno spero di scoprire versi sorprendenti, pieni di forza, metafore e passione. 
Sul Corriere della Sera di oggi a pagina 23 un bel titolone bluette preannuncia "il racconto in versi",  dedicato al padre Mario, famoso analista junghiano,che lo scrittore e critico, notevole critico e buon scrittore, Emanuele Trevi leggerà mercoledì prossimo al Festival delle letterature nella Basilica di Massenzio a Roma.
Dunque leggo:

La scena è poco allegra.
Era la metà di marzo.
Stavo con mio padre, una notte di pioggia,
un paio di settimane prima che morisse.
Ero contento di tenergli compagnia, fare
qualche servizio, ma a un certo punto
lo avevo perduto. Da un giorno all'altro
aveva smesso di parlare. Letteralmente,
non sapevo più dove era. Immaginavo
l'anima, il soffio, la forza vitale
- chiamatela come credete - 
impegnata in un tentativo
lento e laborioso di distacco
dalla vecchia carcassa.

Le righe totali, non i versi perché versi non sono, ammontano - se nella furia non ho sbagliato la conta - a 176. 
Confesso anche che leggere la descrizione del declino fisico e mentale di un uomo brillante e creativo - anche se scritta con la piana semplicità e anche l'affetto mostrati - che Trevi ha fatto di suo padre, mi ha causato un disagio più che percettibile.
Non intendo mettere in discussione la libertà assoluta che ogni artista ha rispetto alla materia dell'arte che gli è propria, né del diritto di fare di ogni cosa pasto per i lettori. Nella nostra epoca voyeuristica tutto passa dall'esperienza del reale alla parola scritta con la velocità e la concisione di un tweet.
Ma avrei preferito leggere il racconto di un personaggio anziano e morente che il figlio cerca di comprendere e ricordare vivo con la fiamma delle parole.
Se riprovate a leggere il racconto eliminando gli "a capo" vedrete che così funziona decisamente meglio e le ultime righe possono lasciare libere quelle tre parole di innalzarsi in una guizzante, e subito spenta, fiammella poetica:

... E credo
che il sorriso di mio padre
rappresenti il grado più alto
della consapevolezza
la coincidenza dell'umanità
e dell'idiozia che fa di noi,
quando viene ammessa ed onorata,
creature sacre e vere,
sacre 
e vere.

La poesia, gentile Trevi, vive di parole, immagini, ritmo, contenuto, che stanno tutti insieme indissolubili e fittamente intrecciati, andare a capo prima di fine riga proprio non basta.

E siccome non basta, trascrivo i primi versi del Requiem, nell'edizione einaudiana curata da Giacomo Cacciapaglia nel 1992, che Rainer Maria Rilke scrisse in soli tre giorni fra il 31 ottobre e il 2 novembre 1908,  e che dedicò all'amica pittrice Paula Modersohn-Becker morta a soli 31 anni nel 1907:

Ho morti  ed a se stessi li ho lasciati,
stupito di vederli così in pace,
a casa loro nella morte, giusti,
così diversi dalla loro fama. Tu sola
torni, mi sfiori, qui t'aggiri, vuoi
urtarti a cosa che di te risuoni
e ti riveli. Oh, non togliermi quello
che lentamente imparo. Io ho ragione, tu erri
se cosa alcuna a nostalgia ti muove.
Perché le cose noi le trasformiamo;
non sono qui, appena riconosciute
noi ne facciamo specchi della nostra sostanza. 

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