venerdì 24 maggio 2013

Sul mio balcone, nel buio: Milano

Rigiro questi pensieri seduta sul mio balcone, nel buio. La partenza è per domani. Intanto bevo un bicchiere di vino ghiacciato, fra tralci d'edera, sperando che nessuno mi chiami al telefono. Desidero starmene nascosta, nel silenzio delle cose che m'attorniano. Solo il silenzio produce equilibrio, per me. Temo ogni repentinità, ho paura di essere distolta. Siccome abito a un quindicesimo piano, la città mi sta attorno, ammansita e notturna. La grande città! Ora posso osservarla, in piena calma. Di fronte a me il lume verde d'un ascensore percorre l'armatura di ferro di una torre. È lontano abbastanza per apparirmi oscillante come la stella di un presepe. Ci deve essere una terrazza, all'ultimo piano, là dove l'ascensore si arresta a lungo, affinché i turisti contemplino il paesaggio in una illusione di dominio, mentre il vento del parco irrompe tutt'attorno.
La città, vista dall'alto, è bella. So d'averla amata al tempo in cui, vari anni fa, decisi di stabilirmici. E so d'averla vivificata, gettando su di essa tutte le mie aspettative ansiose di prorompere. Era, ai miei occhi, la capitale del nord, sbiancata da migliaia di luci al neon, protesa a inventare una vita adatta alla misura nuova dell'uomo, intenta a convertire ogni sforzo in strumenti efficiente e in comfort. La sua profonda potenzialità arrivava al mio orecchio con un fremito. I sobborghi, ad esempio, stavano divorando giorno per giorno la pianura, mentre il centro, in slanci di rinnovata potenza, non faceva che fiorire verticalmente: grattacieli, torri, ciminiere.
Accadde molti anni fa e ora osservo tutto questo, senza ritrovare il sentimento d'allora. Sento che la città ha esaurito da tempo il suo slancio. Una volta attuate le sue progettazioni in cemento-vetro, perforato il suo grembo coi cunicoli della metropolitana, drizzati ai margini i suoi casamenti- baluardo impietriti nella ripetizione di sé, ecco che la tensione fantastica, in lei, si è esaurita assai presto. Oggi la città è muta, nella sua compattezza. Qua e là restano le punte di una bellezza antica o ipermoderna, apprezzabile solamente dall'alto: le lontane guglie del Duomo, la merlatura del castello medievale che i fari avvampano di rosa-arancio, la superficie di certi edifici lucenti e piatti (la mostruosa utopia di un architetto d'avanguardia li ideò senza finestre) e in alto in mezzo al cielo, la luna che è salita adagio ed è ferma lassù, sul pennone slanciato della notte.

Grazia Livi
L'approdo invisibile
Garzanti 1980

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