venerdì 3 maggio 2013

Il poeta vede più lontano: Alvaro Mutis e Maqroll il gabbiere


Da più di mezzo secolo Alvaro Mutis è il padre di una figura letteraria che lo accompagna prima nella poesia, poi nella prosa: il suo nome è Maqroll, detto El Gaviero per la sua professione giovanile di vedetta sul mare. Già nel primo disegno che l’autore traccia di lui, porta i tratti distintivi di un carattere cui non verrà mai meno: «un’ardente vocazione di felicità costantemente tradita», sacrificata a missioni impossibili, votate al fallimento sicuro. E poi «la familiarità con l’andar morendo come compito essenziale di ogni giorno», una certa ostinazione all’«errar stordito, sempre contro corrente, sempre dannoso, sempre estraneo alla mia vera vocazione»
(…)

Come ma ha scelto di attribuire a Maqroll il ruolo del gabbiere, ossia del marinaio che sta di vedetta sull’albero più alto della nave: è per dargli la possibilità di additare agli altri il destino che li attende all’orizzonte?

Quando ho inventato il personaggio avevo diciassette anni, e allora non avevo pensato a questa immegine. Però è vera, me ne sono reso conto solo molto più tardi. Inoltre, poco a poco la figura del gabbiere mi è sembrata precisarsi come una rappresentazione del poeta, che vede più lontano e trasmette questa visione agli altri.
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Come descriverebbe la morale d Maqroll?
È molto difficile, anche se l’ho tentato nelle mie poesie. Direi che la sua morale sta nell’amore l’uomo come un fratello, ma senza pensare di potersi riposare sulle sue spalle, affidandogli la soluzione dei suoi problemi: perché nessuno può risolvere le questioni degli altri. Inoltre Maqroll sa che nella vita non siamo destinati a grandi cose, tutto va visto in proporzione. E prima o poi finiamo tutto a Sant’Elena, come Napoleone.

La sua opera sembra portare in sé molti elementi del «desengaño», un tema ricorrente nel dramma barocco spagnolo.
Senz’altro. I miei libri sono imparentati con la letteratura spagnola innanzi tutto per il tramite della lingua, anche se la mia formazione è piuttosto francese. Gli autori che preferisco sono Proust, Colette, Céline, scrivo sempre all’ombra di questi grandi classici. E ho un’ammirazione sconfinata per Cervantes e per un grandissimo romanziere pressoché dimenticato in Europa, Pérez Galdós, il massimo protagonista del realismo spagnolo, grande quanto, se non più di Balzac. Io sono americano, ma mi sento di cultura europea e del mio sentimento di disinganno fa parte, tra l’altro, la convinzione che con la formazione delle nazionalità abbiamo perso l’Europa.

Nonostante la sua devozione per la poesia, lei ha scritto che essa è una «moneta inutile che paga i peccati altrui con le false intenzioni di offrire agli uomini la speranza». Cosa intendeva dire?
Ho per la poesia il massimo rispetto e ho sempre detto che per me un poema è una forma di preghiera. Ma, alla fine, bisogna pur rendersi conto che non ha il potere di cambiare l’uomo. Ho visto persone che amano la poesia e la coltivano senza trarne nessuna morale, guerriglieri che leggono versi sulle montagne e quello stesso giorno riescono a uccidere.
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Tra le immagini più belle della sua narrativa c’è quella del pittore descritto nel Trittico di mare e di terra il cui sogno è dipingere il vento «che non lascia traccia…quello che non ha nome e che ci sfugge dalle mani senza sapere come». Dove si origina questa visione?
È tutto vero sa? Uno dei miei migliori amici, morto poco tempo, aveva un rapporto così intenso con la pittura che arrivava a questi estremi. E mi diceva: «Alvaro, mi piacerebbe dipingere il vento». Allora io gli rispondevo: «Sì, capisco, le onde, gli alberi piegati…». «No - mi diceva lui -, voglio dipingere il vento, solo il vento». Era una aspirazione alla totalità che si esplicitava così… naturalmente non ci è mai riuscito.

Alvaro Mutis
La mia più profonda fedeltà è per i vinti
Frammenti dall’intervista nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005

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