E.P.
Erano tre i regni dove Irène Némirovsky abitava e dove abitò per
tutta la vita, nonostante l’esilio: l’immaginazione, i libri, la lingua
francese. Nata Irma Irina a Kiev in una famiglia dell’alta borghesia ebraica,
sin dall’infanzia la futura scrittrice attraversò e sopravvisse ai più tragici
eventi della storia. Ben due volte la città fu sconvolta da pogrom,
come spesso accadeva a quell’epoca nell’impero Zarista. A tre anni si salvò
perché la cuoca le mise al collo la sua croce ortodossa e la nascose dietro un
letto.
La vita solitaria causata da una vita familiare poco regolare, dove Leonid il padre, diventato Léon dopo l’immigrazione definitiva in Francia, era occupato dai suoi affari, e dove la madre Anna - Fanny in onore della nuova patria - era occupata a mantenersi giovane e bella per non perdere il favore dei molteplici corteggiatori e amanti, favorì nella bambina lo sviluppo delle facoltà particolari che avrebbero poi sostenuto la sua vocazione di scrittrice. La solitudine sviluppò le sue inclinazioni verso il libero uso dell’immaginazione e le letture precocissime, ma la Francia e la sua lingua furono un dono involontario dei genitori. Era abitudine tra i russi ricchi e aristocratici trascorrere lunghi periodi dell’anno in Francia e il francese era la lingua della nobiltà e delle classi elevate. Durante i lunghi soggiorni invernali nelle città termali, in Costa Azzurra e a Parigi, lo spirito stesso della Francia e del suo dolce vivere, permearono l’anima di Irène, al punto che le venne riconosciuto già negli anni Venti di essere una delle più grandi scrittrici francesi; così scriveva di lei il critico Henri Régnier: «Némirovsky scrive il russo in francese».
Mentre i genitori seguivano i loro affari, la piccola era affidata alle cure della governante Marie detta Zézelle che profumava di sapone fine ed essenza di violetta e le insegnava canzoni e proverbi francesi, mentre lei languiva per la mancanza di attenzioni e di carezze paterne e materne. «La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana, anche se l’abbandono le procurava un piacere sconosciuto: quello di osservare la propria vita a distanza». Questa dote fu uno dei motivi che rendevano così speciale la creazione artistica della Némirovsky. Le sue capacità descrittive, con poche immagini e parole chiare, sono formidabili, i suoi libri trascinano subito il lettore nel luogo preciso, nel paesaggio della storia. Con la descrizione di gesti essenziali e scarni, i suoi personaggi rivelano l’essenza del carattere, le meschinerie, la cattiveria. La madre bella e distante, alta e ben fatta, non sfuggirà alle cronache e reinvenzioni filiali.
Tutte le madri dei romanzi e racconti della Némirovsky ritraggono Fanny, ma è in particolare in Jezabel, che la penna della scrittrice trova la sua vendetta. «Gli anni erano passati per Gladys con la rapidità dei sogni. E a mano a mano che invecchiava, sembravano ancora più lievi, le parevano essere volati via ancora più in fretta. Ma le giornate erano lunghe, e certe ore pesanti e amare. Non le piaceva stare sola: non appena intorno a lei cessava il cicaleccio delle donne, non appena si spegneva l’eco dei discorsi d’amore, sentiva in cuore una sorda inquietudine». Anche il padre non venne risparmiato dallo sguardo totale della Némirovsky. David Golder è il suo ritratto puntuale e svela che dietro la corazza sfavillante e spietata dell’affarista geniale, che comprava l’amore e il quieto vivere in famiglia con fiumi di denaro, viveva ancora l’impavido ragazzino ebreo “sognatore del ghetto” che era partito in cerca di fortuna. Una copia di ciascuno di questi romanzi fu l’eredità che Fanny lasciò alle figlie di Irène, Denise e Élisabeth. Glieli fece trovare chiusi in cassaforte, lei che aveva rifiutato di accoglierle, orfane e spaventate alla fine della guerra, arrivando a dichiarare che lei non aveva nipoti.
Ma siamo ancora Kiev, prima che il destino prendesse forma e costringesse i Némirovsky alla fuga in Francia. La dolcezza di Kiev stordita dalla primavera è eterna: «Com’è bella la primavera in quel paese! Le strade erano fiancheggiate da giardini, l’aria profumava di tiglio, di lillà, e un’umidità lieve saliva da tutte quelle aiuole, da quegli alberi stretti gli uni contro gli altri che spandevano nella sera il loro profumo zuccherino». Quel clima era pericoloso per la piccola Irocka che soffriva di asma. «Nei giorni caldi dell’estate, la campanella del venditore di gelati, le corolle schiacciate al passaggio o gualcite fra le mani, troppa erba, troppi fiori, un profumo troppo soave, che turba e intorpidisce la mente; troppa luce, uno splendore selvaggio, il canto degli uccelli nel cielo». La vita faticosa e impaurita degli ebrei del ghetto e quella noncurante e sfarzosa degli ebrei dei quartieri eleganti in collina, è raccontata con pari intensità. La scrittura di Irène è dunque prima di tutto una scrittura di testimonianza e di salvaguardia della memoria. Niente di quello che lei ha visto e vissuto è andato perduto e la vita avventurosa dei suoi libri è proseguita anche nel nuovo secolo. La precisione, la ricchezza di dettagli e informazioni, la consistenza dei personaggi, sono frutto di un lavoro preparatorio rigorosissimo. I suoi biografi scrivono che «Irène Némirovsky ha spiegato spesso che, prima di iniziare a scrivere, riempiva interi quaderni di dati biografici su ogni singolo personaggio - la fase che lei definiva la “vita anteriore del romanzo”. Poi rileggeva, censurando e commentando, ed esprimendo appassionanti riflessioni sul suo mestiere di scrittrice». La vita monotona, in cui i libri sostituivano la realtà, si interruppe bruscamente durante la Rivoluzione. Tra il 1917 e il 1919 la Russia cambiò volto, le città e i possedimenti imperiali furono saccheggiati, alla famiglia Némirovsky non restò che cercare riparo all’estero. Nel romanzo Il vino della solitudine è rievocata la fuga da San Pietroburgo che li portò, dopo varie peripezie e una lunga sosta in Finlandia, a stabilirsi a Parigi dove Irma Irina ebbe in dono il nome Irène e una nuova patria. Parigi era anche un ritorno all’infanzia. A Parigi l’attendevano il jazz, la scrittura e l’amore. Nel 1921 a diciotto anni appena compiuti, vendette a una rivista di dubbia fama i primi racconti e quando passò a ritirare il suo compenso stupì, per via della giovane età, l’editore. Quando Irène ebbe compiuto i venti anni, il padre la sistemò in un appartamento indipendente dove ella poté darsi davvero alla pazza gioia. Nonostante la libertà, gli amori, il senso di rivalsa nei confronti dell’odiatissima madre che invecchiando le faceva godere della vendetta, la gioventù della Némirovsky fu bruciata da uno stupro, raccontato nel Vino della solitudine e da pensieri molto seri di suicidio che la sfiorarono molto da vicino. Dopo quattro anni di vita sregolata nel 1924 completò gli studi alla Sorbona e incontrò l’uomo con il quale avrebbe diviso la vita, Michel Epstein, «un piccoletto bruno dalla carnagione scura» come Irène scrisse all’amica del cuore Madeleine nel 1925. Moscovita, nato nel 1896, figlio di un banchiere, Michel viveva a Parigi con la famiglia dal 1920. Prima di incontrarlo la scrittrice aveva già scritto, durante i soggiorni estivi sulla costa basca, Il bambino prodigio e Il malinteso. Quei luoghi le erano così cari che vi trascorse tutte le estati sino al 1939. Il malinteso uscì nel 1926 e il 31 luglio dello stesso anno Irène e Michel si sposarono. La casa dove andarono ad abitare era grande e confortevole, la giovane coppia aveva al suo servizio una cameriera e una cuoca. Irène poté dedicarsi alla scrittura e riscrittura di David Golder sino al 1929 conducendo al contempo una vita agiata e divertente. Durante tutti gli anni del matrimonio lei scriveva mentre Michel lavorava in banca. Il patto era che lei scrivesse solo durante il giorno e mezz’ora dopo cena, quando il marito l’aiutava copiando a macchina i suoi manoscritti. Durante la gestazione di David Golder, pubblicò sotto falso nome il romanzo La nemica dove regolava ancora e non una volta per tutte, i conti con sua madre. Un altro dei suoi racconti più spietati, Il ballo, venne scritto durante una pausa dell’altro libro. Una volta terminato, David Goldervenne spedito all’editore Bernard Grasset che lo lesse e decise di pubblicarlo immediatamente. Scrisse quindi allo scrittore Epstein, questo il nome che accompagnava il manoscritto, ma non ebbe risposta per diverse settimane. La spiegazione era semplice, anche se a lui rimase ignota per qualche tempo. Irène era impegnata a mettere al mondo Denise France Catherine. Quando Grasset, tre settimane dopo il parto, si vide comparire davanti quella giovane donna, quasi non credette possibile che lei fosse l’autrice di un libro di tale potenza. Mise in campo tutta la sua forza editoriale per creare un caso letterario e ci riuscì. Tutti i critici scrissero di questo libro, tutti i lettori lo volevano leggere e sia il cinema che il teatro se ne contesero la messa in scena. Dopo il grande successo seguirono tre anni di blocco anche se Grasset pubblicò il racconto Il balloche era già stato scritto. Il mondo letterario dovette aspettare sino al 1932 con L’affare Courilov, per avere conferma dello straordinario talento della giovane russa. Non le mancarono accuse di anti-semitismo per via della crudezza dei suoi personaggi, ma lei se ne stupiva e scherniva rivendicando sempre l’orgoglio di appartenenza a una cultura, una storia e una religione, anche se proprio alla dimensione spirituale dell’ebraismo non era mai davvero stata vicina. I romanzi successivi uscirono con regolarità e la fama si ingrandì. I motivi che la spingevano a scrivere erano anche di natura economica e non solo creativa, soprattutto dopo la morte di Léon avvenuta nel settembre del 1932, che le aveva lasciato un’eredità modesta rispetto al ricchissimo patrimonio che possedeva. Tutti i beni finirono nelle mani di Fanny che si guardò bene dal dividerli con la figlia. In quegli anni si sa che Irène leggeva e rileggeva i racconti di Katherine Mansfield Preludio e Alla baia. Il tema del romanzo La pedina sulla scacchiera sono i tremendi anni Trenta arrivati come una sorta di punizione dopo i dissoluti anni Venti. Anche per questo romanzo è stata tracciata la “vita anteriore” che accompagnava ogni suo scritto. L’ascesa al potere di Hitler viene raccontata nella corrispondenza della scrittrice che, all’amica Néné, si dice certa che ci sarà di nuovo la guerra e «vedrete che sarà la morte». Come ricordano i suoi biografi dal 1926 al 1940, la Némirovsky non ha fatto altro che scrivere un unico, immenso, lunghissimo romanzo, a partire da Il ballo per arrivare a I cani e i lupi. «Comincio a scrivere, in una minuta informe, il romanzo vero e proprio e nel contempo le riflessioni che esso mi suggerisce, il “diario del romanzo”, per usare l’espressione di André Gide. Poi lascio riposare il tutto, sforzandomi di non pensare più alla letteratura. Quando lo riprendo, tutto sembra organizzarsi, costruirsi da sé».
Nel 1933 passò all’editore Albin Michel che sarà il custode della mole dei suoi manoscritti, riportati alla luce solo di recente. Parigi è la cornice di molti dei suoi libri e allo stesso tempo anche il luogo che ne favorisce la scrittura. Tra Saint-Gérmain e le Tulieries si siederà con il quaderno in grembo e scriverà respirando la città e allo stesso tempo estraniandosene. Fatti i conti, tra il 1935 e il 1942, lei avrà scritto 9 romanzi, una biografia e 38 racconti. Le sue opere tradotte e portate in scena in tutto il mondo sono la fonte principale di entrate della sua famiglia. Nel 1935 la piccola Denise sarà la prima a ottenere la cittadinanza francese. Nel 1937 nasce Élisabeth, la sua futura biografa. Ma non bastarono né la fama letteraria, né le relazioni sociali, né tanto meno la conversione al cattolicesimo di tutta la famiglia nel febbraio del 1939, a costruire la rete di salvezza in cui lei e Michel speravano. Nessuno dei due riuscirà mai a ottenere la cittadinanza francese, anche se neppure questo avrebbe potuto salvarli. L’odio razziale si strinse sempre più intorno a loro come una rete cui è impossibile sfuggire. Quando scoppiò la guerra il 3 settembre 1939, era una giornata estiva ancora piena di promesse e la famiglia era in vacanza sulla costa basca. Il rifugio durante la guerra fu Issy-l’Évêque, un paesino della Borgogna dove il cibo e la quiete non mancavano. Alloggiata all’Hotel des Voyageurs, la famiglia riusciva a condurre una vita di quasi normalità, nonostante le notizie tremende che arrivavano da Parigi e dal fronte. L’ultimo quaderno da cui non si separava mai, era il manoscritto di Suite francese, il libro che ha restituito il suo nome alla fama che merita.
Nonostante il pericolo ormai evidente, Irène e Michel non riuscivano a risolversi di scappare o nascondersi. Il 16 luglio 1942 lei venne arrestata e il giorno dopo insieme ad altre decine di ebrei francesi mandata ad Auschwitz. Il 19 luglio all’arrivo le donne, dopo essere state private di abiti e gioielli, vennero rapate, vestite con i mesti abiti a righe che abbiamo imparato a conoscere e marchiate con i numeri dal 9550 al 9668. Gli uomini, per la maggior parte provenienti da Parigi, erano operai e artigiani, furono marchiati con i numeri dal 48.880 al 49.688. Irène sopravvisse solo un mese, nel certificato redatto ad Auschwitz, è scritto che il decesso avvenne alle 15 e 20 del 19 agosto 1942 a causa di un’influenza, molto più probabilmente di tifo. L’ultima lettera che riuscì a scrivere per la sua famiglia iniziava con le parole «Mio amato, mie piccole adorate». Di lei resta un’immagine netta e felice contenuta nel famoso quaderno di Suite francese, la nota è datata 11 luglio ’42, Bosco della Maie: «I pini intorno a me. Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo a un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di Katherine Mansfield e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde. Mi piacciono i toni bassi e gravi nelle voci e nella natura. Lo stridulo “cip cip” degli uccellini sui rami mi irrita… Tra poco cercherò di ritrovare quello stagno isolato».
La vita solitaria causata da una vita familiare poco regolare, dove Leonid il padre, diventato Léon dopo l’immigrazione definitiva in Francia, era occupato dai suoi affari, e dove la madre Anna - Fanny in onore della nuova patria - era occupata a mantenersi giovane e bella per non perdere il favore dei molteplici corteggiatori e amanti, favorì nella bambina lo sviluppo delle facoltà particolari che avrebbero poi sostenuto la sua vocazione di scrittrice. La solitudine sviluppò le sue inclinazioni verso il libero uso dell’immaginazione e le letture precocissime, ma la Francia e la sua lingua furono un dono involontario dei genitori. Era abitudine tra i russi ricchi e aristocratici trascorrere lunghi periodi dell’anno in Francia e il francese era la lingua della nobiltà e delle classi elevate. Durante i lunghi soggiorni invernali nelle città termali, in Costa Azzurra e a Parigi, lo spirito stesso della Francia e del suo dolce vivere, permearono l’anima di Irène, al punto che le venne riconosciuto già negli anni Venti di essere una delle più grandi scrittrici francesi; così scriveva di lei il critico Henri Régnier: «Némirovsky scrive il russo in francese».
Mentre i genitori seguivano i loro affari, la piccola era affidata alle cure della governante Marie detta Zézelle che profumava di sapone fine ed essenza di violetta e le insegnava canzoni e proverbi francesi, mentre lei languiva per la mancanza di attenzioni e di carezze paterne e materne. «La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana, anche se l’abbandono le procurava un piacere sconosciuto: quello di osservare la propria vita a distanza». Questa dote fu uno dei motivi che rendevano così speciale la creazione artistica della Némirovsky. Le sue capacità descrittive, con poche immagini e parole chiare, sono formidabili, i suoi libri trascinano subito il lettore nel luogo preciso, nel paesaggio della storia. Con la descrizione di gesti essenziali e scarni, i suoi personaggi rivelano l’essenza del carattere, le meschinerie, la cattiveria. La madre bella e distante, alta e ben fatta, non sfuggirà alle cronache e reinvenzioni filiali.
Tutte le madri dei romanzi e racconti della Némirovsky ritraggono Fanny, ma è in particolare in Jezabel, che la penna della scrittrice trova la sua vendetta. «Gli anni erano passati per Gladys con la rapidità dei sogni. E a mano a mano che invecchiava, sembravano ancora più lievi, le parevano essere volati via ancora più in fretta. Ma le giornate erano lunghe, e certe ore pesanti e amare. Non le piaceva stare sola: non appena intorno a lei cessava il cicaleccio delle donne, non appena si spegneva l’eco dei discorsi d’amore, sentiva in cuore una sorda inquietudine». Anche il padre non venne risparmiato dallo sguardo totale della Némirovsky. David Golder è il suo ritratto puntuale e svela che dietro la corazza sfavillante e spietata dell’affarista geniale, che comprava l’amore e il quieto vivere in famiglia con fiumi di denaro, viveva ancora l’impavido ragazzino ebreo “sognatore del ghetto” che era partito in cerca di fortuna. Una copia di ciascuno di questi romanzi fu l’eredità che Fanny lasciò alle figlie di Irène, Denise e Élisabeth. Glieli fece trovare chiusi in cassaforte, lei che aveva rifiutato di accoglierle, orfane e spaventate alla fine della guerra, arrivando a dichiarare che lei non aveva nipoti.
Ma siamo ancora Kiev, prima che il destino prendesse forma e costringesse i Némirovsky alla fuga in Francia. La dolcezza di Kiev stordita dalla primavera è eterna: «Com’è bella la primavera in quel paese! Le strade erano fiancheggiate da giardini, l’aria profumava di tiglio, di lillà, e un’umidità lieve saliva da tutte quelle aiuole, da quegli alberi stretti gli uni contro gli altri che spandevano nella sera il loro profumo zuccherino». Quel clima era pericoloso per la piccola Irocka che soffriva di asma. «Nei giorni caldi dell’estate, la campanella del venditore di gelati, le corolle schiacciate al passaggio o gualcite fra le mani, troppa erba, troppi fiori, un profumo troppo soave, che turba e intorpidisce la mente; troppa luce, uno splendore selvaggio, il canto degli uccelli nel cielo». La vita faticosa e impaurita degli ebrei del ghetto e quella noncurante e sfarzosa degli ebrei dei quartieri eleganti in collina, è raccontata con pari intensità. La scrittura di Irène è dunque prima di tutto una scrittura di testimonianza e di salvaguardia della memoria. Niente di quello che lei ha visto e vissuto è andato perduto e la vita avventurosa dei suoi libri è proseguita anche nel nuovo secolo. La precisione, la ricchezza di dettagli e informazioni, la consistenza dei personaggi, sono frutto di un lavoro preparatorio rigorosissimo. I suoi biografi scrivono che «Irène Némirovsky ha spiegato spesso che, prima di iniziare a scrivere, riempiva interi quaderni di dati biografici su ogni singolo personaggio - la fase che lei definiva la “vita anteriore del romanzo”. Poi rileggeva, censurando e commentando, ed esprimendo appassionanti riflessioni sul suo mestiere di scrittrice». La vita monotona, in cui i libri sostituivano la realtà, si interruppe bruscamente durante la Rivoluzione. Tra il 1917 e il 1919 la Russia cambiò volto, le città e i possedimenti imperiali furono saccheggiati, alla famiglia Némirovsky non restò che cercare riparo all’estero. Nel romanzo Il vino della solitudine è rievocata la fuga da San Pietroburgo che li portò, dopo varie peripezie e una lunga sosta in Finlandia, a stabilirsi a Parigi dove Irma Irina ebbe in dono il nome Irène e una nuova patria. Parigi era anche un ritorno all’infanzia. A Parigi l’attendevano il jazz, la scrittura e l’amore. Nel 1921 a diciotto anni appena compiuti, vendette a una rivista di dubbia fama i primi racconti e quando passò a ritirare il suo compenso stupì, per via della giovane età, l’editore. Quando Irène ebbe compiuto i venti anni, il padre la sistemò in un appartamento indipendente dove ella poté darsi davvero alla pazza gioia. Nonostante la libertà, gli amori, il senso di rivalsa nei confronti dell’odiatissima madre che invecchiando le faceva godere della vendetta, la gioventù della Némirovsky fu bruciata da uno stupro, raccontato nel Vino della solitudine e da pensieri molto seri di suicidio che la sfiorarono molto da vicino. Dopo quattro anni di vita sregolata nel 1924 completò gli studi alla Sorbona e incontrò l’uomo con il quale avrebbe diviso la vita, Michel Epstein, «un piccoletto bruno dalla carnagione scura» come Irène scrisse all’amica del cuore Madeleine nel 1925. Moscovita, nato nel 1896, figlio di un banchiere, Michel viveva a Parigi con la famiglia dal 1920. Prima di incontrarlo la scrittrice aveva già scritto, durante i soggiorni estivi sulla costa basca, Il bambino prodigio e Il malinteso. Quei luoghi le erano così cari che vi trascorse tutte le estati sino al 1939. Il malinteso uscì nel 1926 e il 31 luglio dello stesso anno Irène e Michel si sposarono. La casa dove andarono ad abitare era grande e confortevole, la giovane coppia aveva al suo servizio una cameriera e una cuoca. Irène poté dedicarsi alla scrittura e riscrittura di David Golder sino al 1929 conducendo al contempo una vita agiata e divertente. Durante tutti gli anni del matrimonio lei scriveva mentre Michel lavorava in banca. Il patto era che lei scrivesse solo durante il giorno e mezz’ora dopo cena, quando il marito l’aiutava copiando a macchina i suoi manoscritti. Durante la gestazione di David Golder, pubblicò sotto falso nome il romanzo La nemica dove regolava ancora e non una volta per tutte, i conti con sua madre. Un altro dei suoi racconti più spietati, Il ballo, venne scritto durante una pausa dell’altro libro. Una volta terminato, David Goldervenne spedito all’editore Bernard Grasset che lo lesse e decise di pubblicarlo immediatamente. Scrisse quindi allo scrittore Epstein, questo il nome che accompagnava il manoscritto, ma non ebbe risposta per diverse settimane. La spiegazione era semplice, anche se a lui rimase ignota per qualche tempo. Irène era impegnata a mettere al mondo Denise France Catherine. Quando Grasset, tre settimane dopo il parto, si vide comparire davanti quella giovane donna, quasi non credette possibile che lei fosse l’autrice di un libro di tale potenza. Mise in campo tutta la sua forza editoriale per creare un caso letterario e ci riuscì. Tutti i critici scrissero di questo libro, tutti i lettori lo volevano leggere e sia il cinema che il teatro se ne contesero la messa in scena. Dopo il grande successo seguirono tre anni di blocco anche se Grasset pubblicò il racconto Il balloche era già stato scritto. Il mondo letterario dovette aspettare sino al 1932 con L’affare Courilov, per avere conferma dello straordinario talento della giovane russa. Non le mancarono accuse di anti-semitismo per via della crudezza dei suoi personaggi, ma lei se ne stupiva e scherniva rivendicando sempre l’orgoglio di appartenenza a una cultura, una storia e una religione, anche se proprio alla dimensione spirituale dell’ebraismo non era mai davvero stata vicina. I romanzi successivi uscirono con regolarità e la fama si ingrandì. I motivi che la spingevano a scrivere erano anche di natura economica e non solo creativa, soprattutto dopo la morte di Léon avvenuta nel settembre del 1932, che le aveva lasciato un’eredità modesta rispetto al ricchissimo patrimonio che possedeva. Tutti i beni finirono nelle mani di Fanny che si guardò bene dal dividerli con la figlia. In quegli anni si sa che Irène leggeva e rileggeva i racconti di Katherine Mansfield Preludio e Alla baia. Il tema del romanzo La pedina sulla scacchiera sono i tremendi anni Trenta arrivati come una sorta di punizione dopo i dissoluti anni Venti. Anche per questo romanzo è stata tracciata la “vita anteriore” che accompagnava ogni suo scritto. L’ascesa al potere di Hitler viene raccontata nella corrispondenza della scrittrice che, all’amica Néné, si dice certa che ci sarà di nuovo la guerra e «vedrete che sarà la morte». Come ricordano i suoi biografi dal 1926 al 1940, la Némirovsky non ha fatto altro che scrivere un unico, immenso, lunghissimo romanzo, a partire da Il ballo per arrivare a I cani e i lupi. «Comincio a scrivere, in una minuta informe, il romanzo vero e proprio e nel contempo le riflessioni che esso mi suggerisce, il “diario del romanzo”, per usare l’espressione di André Gide. Poi lascio riposare il tutto, sforzandomi di non pensare più alla letteratura. Quando lo riprendo, tutto sembra organizzarsi, costruirsi da sé».
Nel 1933 passò all’editore Albin Michel che sarà il custode della mole dei suoi manoscritti, riportati alla luce solo di recente. Parigi è la cornice di molti dei suoi libri e allo stesso tempo anche il luogo che ne favorisce la scrittura. Tra Saint-Gérmain e le Tulieries si siederà con il quaderno in grembo e scriverà respirando la città e allo stesso tempo estraniandosene. Fatti i conti, tra il 1935 e il 1942, lei avrà scritto 9 romanzi, una biografia e 38 racconti. Le sue opere tradotte e portate in scena in tutto il mondo sono la fonte principale di entrate della sua famiglia. Nel 1935 la piccola Denise sarà la prima a ottenere la cittadinanza francese. Nel 1937 nasce Élisabeth, la sua futura biografa. Ma non bastarono né la fama letteraria, né le relazioni sociali, né tanto meno la conversione al cattolicesimo di tutta la famiglia nel febbraio del 1939, a costruire la rete di salvezza in cui lei e Michel speravano. Nessuno dei due riuscirà mai a ottenere la cittadinanza francese, anche se neppure questo avrebbe potuto salvarli. L’odio razziale si strinse sempre più intorno a loro come una rete cui è impossibile sfuggire. Quando scoppiò la guerra il 3 settembre 1939, era una giornata estiva ancora piena di promesse e la famiglia era in vacanza sulla costa basca. Il rifugio durante la guerra fu Issy-l’Évêque, un paesino della Borgogna dove il cibo e la quiete non mancavano. Alloggiata all’Hotel des Voyageurs, la famiglia riusciva a condurre una vita di quasi normalità, nonostante le notizie tremende che arrivavano da Parigi e dal fronte. L’ultimo quaderno da cui non si separava mai, era il manoscritto di Suite francese, il libro che ha restituito il suo nome alla fama che merita.
Nonostante il pericolo ormai evidente, Irène e Michel non riuscivano a risolversi di scappare o nascondersi. Il 16 luglio 1942 lei venne arrestata e il giorno dopo insieme ad altre decine di ebrei francesi mandata ad Auschwitz. Il 19 luglio all’arrivo le donne, dopo essere state private di abiti e gioielli, vennero rapate, vestite con i mesti abiti a righe che abbiamo imparato a conoscere e marchiate con i numeri dal 9550 al 9668. Gli uomini, per la maggior parte provenienti da Parigi, erano operai e artigiani, furono marchiati con i numeri dal 48.880 al 49.688. Irène sopravvisse solo un mese, nel certificato redatto ad Auschwitz, è scritto che il decesso avvenne alle 15 e 20 del 19 agosto 1942 a causa di un’influenza, molto più probabilmente di tifo. L’ultima lettera che riuscì a scrivere per la sua famiglia iniziava con le parole «Mio amato, mie piccole adorate». Di lei resta un’immagine netta e felice contenuta nel famoso quaderno di Suite francese, la nota è datata 11 luglio ’42, Bosco della Maie: «I pini intorno a me. Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo a un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di Katherine Mansfield e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde. Mi piacciono i toni bassi e gravi nelle voci e nella natura. Lo stridulo “cip cip” degli uccellini sui rami mi irrita… Tra poco cercherò di ritrovare quello stagno isolato».
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