La routine attiva l’immaginazione.
È per così dire un esprimersi verso l’interno anziché verso l’esterno.
(...)
La parte di scrittura che mi diverte di
più è immancabilmente quella che non dovrei fare, tanto da dare a volte il
piacere del proibito.
Mi piace lavorare alla stessa cosa per molto tempo,
tornandoci ripetutamente, aggiungendo, sottraendo e modificando, ascoltando i
consigli di editor e amici, fino a quando non riesco più a guardarla, che è poi
il momento in cui capisco di aver concluso. Scrivere è un lavoro che richiede
molta manodopera.
Ci vuole tanto tempo – e una grande resistenza alla noia,
alla frustrazione e all’autoflagellazione – per arrivare a concludere qualcosa.
Dopodiché si tenta di venderla a un mondo che non sa di volerla.
George Orwell parla, tra il perplesso e il
divertito, di coloro che decidono semplicemente di scrivere senza sapere
esattamente di cosa.
Nessuno scrittore lo sa, né vorrebbe saperlo. Avverte
probabilmente un impulso a esprimersi e comincia a scrivere per esplorarlo,
scoprirlo. Per creare una personalità. È una modalità di gioco più dialettica
che programmatica.
Scrivere un saggio, per me, rappresenta l’opportunità di
passeggiare e pensare, oltre che di immergermi nella mia biblioteca.
È
un’occasione per continuare a fare lo studente – che è la cosa più bella del
mondo – tentando nel frattempo di scoprire se ho qualcosa da dire.
Hanif Kureishi
(frammenti dell'articolo The art of writing pubblicato su Internazionale il 18 novembre 2011)
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