venerdì 10 agosto 2012

Jonah che scriveva, Alex che correva


 “La debolezza del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è l'ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l'anima con i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado”
Così Michele Serra chiudeva un suo articolo sulla vicenda di Alex Schwazer  su Repubblica di mercoledì 8 agosto.
Condivido le parole di Serra e nella mia testa continuo a sovrapporre la vicenda del marciatore con quella di Jonah Lehrer, il giornalista statunitense che nel giro di due mesi è stato schiacciato prima dalla scoperta di diversi casi di plagio e auto-plagio, perché ha riciclato brani di articoli già pubblicati sia per nuove collaborazioni giornalistiche che per il suo ultimo libro Imagine. How creativity works, e infine perché è stato rivelato che alcune affermazioni lì attribuite a Bob Dylan,  le ha inventate lui.  Dunque il marciatore si drogava e lo scrittore copiava, rendendo così le altrui parole la sua droga. La paura di non farcela è di sicuro la molla principale di simili comportamenti, la competitività sfrenata di questa società ne è l’humus. Tralascio le motivazioni economiche che non sono da escludere a priori, ma voglio aggiungere due altri elementi per completare la mia riflessione: il tempo e la fatica.
Correre e scrivere richiedono tempo e fatica e quando ti muovi non hai nessuna garanzia di arrivare fino alla fine. Per correre e scrivere ci vogliono pazienza e costanza. Anche il centometrista deve ripetere decine e decine di volte gli stessi movimenti, il marciatore per un tempo ancora più lungo. 
Si corre e si marcia un passo dopo l’altro e solo così si arriva al traguardo; si scrive una parola dietro l’altra, poi le parole diventano frasi, periodi, pagine, articoli, libri interi. Nessuno corre e scrive mai solo per se stesso, l’ebbrezza della corsa e della parola ben riuscita sono già di per sé un premio, ma si corre e si scrive per lanciare verso il mondo un frammento di bellezza. 
Con la corsa vinciamo la forza di gravità e la resistenza dell’aria, con la parola vinciamo la forza del tempo che passa e la resistenza della carta. Correre e scrivere sono due pratiche della solitudine, ogni passo, ogni gesto della mano sono la sfida che chi li compie lancia contro sé stesso. Se il desiderio di essere il primo disintegra la correttezza del proprio agire, significa che si è smarrito il senso di eternità che questi gesti racchiudono.  Il riconoscimento immediato, la fama, il successo ci costringono a vivere un eterno presente, perché non basta avere vinto una volta, bisogna continuare a vincere ogni giorno per non essere dimenticati. Ricordate com’era quando da bambini correvamo solo per il gusto di farlo? Se avete mai corso con il sole in faccia capirete di cosa sto parlando. Se avete mai preso un foglio bianco in mano e avete scritto la prima parola senza sapere dove vi avrebbe condotto, pure. Ho tanta pena per questi due giovani uomini che hanno bruciato il talento e la fatica di anni per un istante di fama. L’oscuro anonimato che li attende sarà forse per loro la punizione più atroce. Cosa faranno delle loro vite? Come si riscatteranno? Meglio correre e scrivere ogni giorno godendo della fatica, ritornando sui propri passi, rileggendo e sapendo che il compimento di un’opera ha bisogno di tempo, fatica, solitudine e silenzio.

P.S. L’arte di correre di Haruki Murakami ancora non l’ho letto, ma vista questa riflessione credo sia giunto il momento

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