“La debolezza
del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di
non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è
l'ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia
della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l'anima con
i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado”
Così Michele
Serra chiudeva un suo articolo sulla vicenda di Alex Schwazer su Repubblica di mercoledì 8 agosto.
Condivido le parole di Serra e nella mia testa continuo a sovrapporre
la vicenda del marciatore con quella di Jonah Lehrer, il
giornalista statunitense che nel giro di due mesi è stato schiacciato prima
dalla scoperta di diversi casi di plagio e auto-plagio, perché ha
riciclato brani di articoli già pubblicati sia per nuove collaborazioni
giornalistiche che per il suo ultimo libro
Imagine. How creativity works, e infine perché è stato rivelato che alcune
affermazioni lì attribuite a Bob Dylan, le ha inventate lui. Dunque il marciatore si drogava e lo scrittore
copiava, rendendo così le altrui parole la sua droga. La paura di non farcela è
di sicuro la molla principale di simili comportamenti, la competitività
sfrenata di questa società ne è l’humus. Tralascio le motivazioni economiche
che non sono da escludere a priori, ma voglio aggiungere due altri elementi per
completare la mia riflessione: il tempo e la fatica.
Correre e scrivere richiedono
tempo e fatica e quando ti muovi non hai nessuna garanzia di arrivare fino alla
fine. Per correre e scrivere ci vogliono pazienza e costanza. Anche il
centometrista deve ripetere decine e decine di volte gli stessi movimenti, il marciatore per un tempo ancora più lungo.
Si
corre e si marcia un passo dopo l’altro e solo così si arriva al traguardo; si
scrive una parola dietro l’altra, poi le parole diventano frasi, periodi,
pagine, articoli, libri interi. Nessuno corre e scrive mai solo per se stesso,
l’ebbrezza della corsa e della parola ben riuscita sono già di per sé un
premio, ma si corre e si scrive per lanciare verso il mondo un frammento di
bellezza.
Con la corsa vinciamo la forza di gravità e la resistenza dell’aria,
con la parola vinciamo la forza del tempo che passa e la resistenza della
carta. Correre e scrivere sono due pratiche della solitudine, ogni passo, ogni
gesto della mano sono la sfida che chi li compie lancia contro sé stesso. Se il
desiderio di essere il primo disintegra la correttezza del proprio agire,
significa che si è smarrito il senso di eternità che questi gesti
racchiudono. Il riconoscimento
immediato, la fama, il successo ci costringono a vivere un eterno presente,
perché non basta avere vinto una volta, bisogna continuare a vincere ogni
giorno per non essere dimenticati. Ricordate com’era quando da bambini
correvamo solo per il gusto di farlo? Se avete mai corso con il sole in faccia
capirete di cosa sto parlando. Se avete mai preso un foglio bianco in mano e
avete scritto la prima parola senza sapere dove vi avrebbe condotto, pure. Ho
tanta pena per questi due giovani uomini che hanno bruciato il talento e la
fatica di anni per un istante di fama. L’oscuro anonimato che li attende sarà
forse per loro la punizione più atroce. Cosa faranno delle loro vite? Come si
riscatteranno? Meglio correre e scrivere ogni giorno godendo della fatica,
ritornando sui propri passi, rileggendo e sapendo che il compimento di un’opera
ha bisogno di tempo, fatica, solitudine e silenzio.
P.S. L’arte di correre di Haruki Murakami ancora
non l’ho letto, ma vista questa riflessione credo sia giunto il momento
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