sabato 4 agosto 2012

Il grande esodo che non c'è più

Sul quotidiano La Stampa di oggi leggo due articoli dedicati alle vacanze dei tempi andati. Il pensionato Fiat Francesco Anrò, in posa davanti alla sua Fiat 850 bianca in una vecchia foto in bianco e nero, ricorda le partenze di massa quando la fabbrica chiudeva e la famiglia poteva permettersi tre settimane di vacanza al mare in Liguria. Anche la mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, cui eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scrive Massimo Gramellini nel secondo articolo di cui dicevo all'inizio. 
"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia,le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo. L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'autostrada del sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verde buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, aglio e cipolle rosse di Tropea. Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere a mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre è pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. Ma questa è un'altra storia.

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