domenica 14 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/371. Infanzia: quando le onde e le foglie parlavano la stessa lingua

 


Non c’era sabbia, solo ciottoli e sassi, mia nonna è seduta accanto a me con il suo fazzoletto tradizionale u ‘maccaturi, annodato dietro la nuca. Trotterello verso il mare, mi bagno i piedi, mi chino a toccare l’acqua, ritorno dalla nonna. La spiaggia è quella di Trebisacce, ci sono barche e pescatori. Un giorno portano a riva una testuggine. Corriamo tutti a guardarla da vicino, è un animale enorme, papà mi solleva e mi fa sedere sul guscio, la tartaruga avanza di qualche passo. Tutti i bambini sono incantati, papà mi riprende in braccio, i pescatori spingono piano la tartaruga per farla tornare in acqua e lei scivola via senza mai voltarsi. Forse mi aspettavo che lo facesse? In quelle estati a Trebisacce ho due/tre anni soltanto. Ho un costumino bianco e rosa e un cappellino di paglia rosa con l’elastico sotto il mento per tenerlo fermo. Mia mamma ha un costume a righe bianche e nere e papà un costume pesante di lana nera e zoccoli di legno. Mangiamo panini, beviamo acqua da un termos, mangiamo pomodori sani, cioè interi, pesche, anguria comprata in loco. C’è un po’ di vento, mi rifugio tra le braccia di nonna Mela e mi addormento. Un altro giorno arriviamo in spiaggia, papà gonfia il materassino, stende il grande telo da mare a righe bianche e rosse, mi piazza al centro del materassino, ma per poco. Ho un secchiello, una paletta, la mucca Carolina della Invernizzi. Non credo di averci giocato più di un’estate perché so di averla persa in mare, ricordo di averla vista allontanarsi tra le onde, portata dalla corrente. Forse sarebbe andata a giocare con un’altra bambina? Un’estate successiva giocavo in spiaggia con Susanna Tuttapanna, che adoravo. Non perché fosse bionda, ma perché rideva e mi era simpatica. Ho sempre la paletta e il secchiello rosso. Non siamo più a Trebisacce ma a Villapiana Lido. C’era solo sabbia, la pineta, prendiamo ombrellone lettini e sedie a sdraio al lido The Sea Horse, imparo così le mie prime parole inglesi. Il gestore è un britannico che si è fermato in Calabria per amore, ha i capelli rosso-biondi e gli occhi azzurri. Parla italiano con un accento pesantissimo, è simpatico e la sua spiaggia è bella. Al bar vendono, dopo le 10, pizzette buonissime. È bello quando restiamo tutto il giorno al mare anziché ritornare a casa subito prima o subito dopo pranzo. Quando restiamo mangiamo pizza, focaccia, soppressata, capocollo e anguria. Beviamo Coca-Cola nella classica bottiglietta di vetro. Giochiamo a bocce, a carte, a pallone, costruiamo castelli di sabbia. Non riesco a imparare a nuotare, ho paura, così metto sempre il salvagente. Adesso ho un costumino dello stesso colore del mare, i capelli più corti e il fratellino Alex e la cuginetta Maria, con la quale vivevo in simbiosi, chiamata da tutti Mariuccia per distinguerla da sua nonna Maria, sorella maggiore di mio padre. Suo padre Rodolfo non amava la spiaggia di Villapiana perché era piatta, il mare era basso e non poteva pescare. Così ogni tanto andavamo alla spiaggia di Bruscate, dove c’era un fiume e Rodolfo pescava a mani nude e il Lido Millepini, anche se andavamo quasi sempre alla spiaggia libera. L’acqua era profonda, mi sentivo meno a mio agio, ma il mare era mare e la sabbia, sabbia. Costruivo sempre castelli fatti come torte nuziali e pinnacoli lasciando scorrere sabbia e acqua tra le dita. La pizza non mancava mai, correvamo avanti e indietro, non c’erano domande da parte nostra, solo domande portate dal mare. Mia madre e mia cugina Vittoria chiacchieravano sedute all’ombra; Mariuccia, sua figlia, era la mia ombra e io ero la sua ombra. Giocavamo con mio fratello e con i cuginetti che, in numero variabile, venivano con noi. I cuginetti erano i figli di zio Giacomo, fratello maggiore di mio padre. Domenico, Luigi, Salvatore, Giancarlo e Mario, tutti nati tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta. Questo mare che ho avuto negli occhi e nelle orecchie tutto il giorno, è il mare dell’innocenza, il mare della gioia. Buona parte della mia infanzia felice è tutta racchiusa in quella manciata di estati infinite che nella memoria sono diventate eterne. Abbiamo conosciuto la felicità da bambini e la portiamo in noi. Quel mare, quel sole, il suono delle onde, il vento, la piana di Sibari, i fiumi Esaro, Follone e Crati, i fichi d’India, le angurie, u ‘melune a acqua e i meloni gialli, u’ melune i pani del capanno di Fragghiaco, la fonte di Spezzano Albanese, il forno dove compravamo le pagnotte di pane e la pitta, i pomodori dell’orto di nonna Mela e quelli dell’orto di Rodolfo che erano ancora più grossi e succulenti, le cipolle rosse di Tropea, il basilico, i peperoni verdi a cornetto, fritti nella padella di ferro, a volte soli a volte con le patate, il pollo, pure lui fritto, i maiali nella ‘zimma  a cui io e Mariuccia portavamo gli avanzi della tavola e soprattutto le bucce dell’anguria. Gli oleandri, la menta e i gigli selvatici, i fiori rossi di cui non ho mai saputo il nome, l’acquaro davanti a casa di nonna, la stalla, il tabacco appeso a essiccare, i campi di grano, gli ulivi, i fichi, la grande quercia, noi che andavamo tutti insieme a dormire alla sua ombra dopo pranzo.

L’infanzia è racchiusa tra il canto del mare e il canto della quercia: le onde e le foglie parlavano la stessa lingua.

La Cronaca 371 appartiene a domenica 14 marzo del secondo anno senza Carnevale e ultimo giorno prima dell’inizio di un nuovo confinamento in zona rossa. Il cielo è stato pulito dal vento e ha brillato luminoso e azzurro su tutta l’Italia per darci coraggio.

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