sabato 10 gennaio 2015

Scrivere poesia nella povertà di una cucina

Accade che una luce filtrando fredda da una vetrata italiana getti un arco fino ai padiglioni pietroburghesi, fino all'immagine di una dacia dove un bicchiere gelato tintinna.
Può accadere che le forme del nostro mondo, ciò che accompagna con gli uccelli il mattino: la tazza, il latte, la fiamma, i suoni confusi oltre le piante e le pareti, siano illuminati davvero solo dalla distanza e resi concreti solo dall'eco di una voce.
Ci sono versi che si possono immaginare scritti solo nella povertà di una cucina, accanto a una minestra che bolle, a una sedia intiepidita dal fuoco.
Capiamo che fino alla fine gli oggetti saranno mischiati al linguaggio: terracotta e luce, pesantezza della materia e grazia della conoscenza. 
Così è in Pasternak e in Anna Achmatova, per i quali i dettagli: la brocca e l'icona, il tappeto e il lenzuolo, sono le fessure attraverso cui accogliere l'universale. Così è per Bella Achmadulina e per la solitudine con cui ha raccontato un'esistenza fatta di poche cose: l'anello di ghiaccio, il grammofono, la candela sul tavolo e Peredelkino*, l'Arbat**, luoghi evocati dal breve cenno delle stagioni, dalla nuova neve, dalla caduta delle mele.

Antonella Anedda
Cosa sono gli anni
Saggi e racconti
Sui pavimenti di pietra
Fazi editore 1997

* è il luogo dove si trovano la casa e la tomba di Pasternak, un complesso edilizio di dacie assegnato all'Unione degli scrittori sovietici nell'epoca staliniana Babel e Bachtin.
** quartiere moscovita

Nessun commento: