Discendendo il colle
I
A quest’ora al tramonto se a occidente
il cielo nuvoloso si piagava e diveniva celeste
a oriente il campo mietuto e saccheggiato
ardeva di tanti fuochi: era la città di Roma
nel tardo autunno e qui il Tasso a occidente
del mio cammino in Sant’Onofrio e a oriente Gramsci
in Regina Coeli patirono la bellezza di cieli
similmente piagati un tale ardere di fuochi
poi che un altro anno finiva assai
amaramente della loro vita entrambi
da reclusione e castità sorrisi mentre
più giù più giù nell’ombra che infittisce
e palpita di corpi abbracciati un commercio
prospera per cui non moriranno i borghi
da queste alture ancora ocra e rosa
prima della notte e di un lume di luna
tiepido come latte e portatore d’insonnia.
II
Splendi ottone risuona legno poi che
dicembre ha disperso la nuvolaglia e viene
Natale tutto il cielo è celeste
chiara la città come una rosa.
O pomeriggio trasmutato in sera o baci
nell’illuminarsi e perdurare scuro
di vicoli e piazzette, petali
umidi di una polluzione notturna:
questa notte sveglia, la rosa
e le cornamuse dolcemente nasali
che seguirono il sereno e i suoi
lampi, lontane. E fu
il marasma o la sua prova
generale: doveva accadere qui in un
inverno corruttore e languido
così che il sudore improvviso sembrasse naturale.
III
Lo stesso amaro profumo del sempreverde
e sapore di fumo in bocca per
sarmenti bruciati – è il lavoro d’ogni giorno
da metà gennaio per questi
giardinieri avventizi, uomini
di grandi vizi e d’una media miseria,
adulteri stempiati per cui
i minorenni s’equivalgono, amati
più della vita.
Qui dove ormai, e sempre,
la bellezza soltanto dà suono
sincero, metallo che corrusca
non si consuma alla saliva dei baci.
Ne riceve ferite discendendo
il colle inebbriante di sereni lontani –
l’orizzonte aperto perché le giornate s’allungano –
chi si credette temprato dai rigori
d’un’infanzia ostinata
nell’Italia e nell’Europa che ancora
avvolge notte e nebbia e stringe gelo delirante d’inverno.
Ma lascia che al braccio piegato
(piagato) d’una curva sbianchi
la facciata d’un ospedale
dove soffrono bambini, senti
gemere il sempreverde nel piccolo
falò terminale: non disperare.
Attilio Bertolucci
da Viaggio d’invernoGarzanti 1971
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