martedì 22 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/471. Le lacrime invisibili della luna che amava le storie calabresi

 


Quando arrivava la notte più corta dell’anno, Maria “la pisana” era pronta per andare a raccogliere le erbe nei campi e nei prati, anche se per trovarle bisognava salire verso la montagna. Come ogni estate preparava il suo asinello e il cesto per le erbe e non appena il sole era calato si avviava ripercorrendo i suoi stessi passi anno dopo anno. La prima volta che era andata a fare la raccolta di San Giovanni, di anni ne aveva meno di dieci e nonna le aveva detto che era importante che lei imparasse prima di diventare una signorina. Le disse anche che nella notte di Natale le avrebbe insegnato il rito per togliere l’affascino, che non era solo il malocchio provocato dagli invidiosi, ma qualcosa di più profondo e sottile che poteva anche turbare le menti più impressionabili e fiaccare la volontà di chi già era messo a dura prova dalla vita. Ma ancora peggio era per quelli a cui le cose della vita andavano bene. Ci fu il caso del pastore Alfiero cui iniziarono a morire tutti gli agnellini appena nati, oppure di Filomena delle vacche, le cui vacche, appunto, avevano smesso di fare il latte e i vitelli non svezzati furono portati al macello mentre le madri si disperavano. E poi c’era stata la disgrazia delle sorelle Selvaggi, ma di uno dei rami minori, le povere Rosaria e Serafina che allevavano bachi da seta e in una notte morirono tutti. Ma loro non era andate a raccogliere le erbe la notte del solstizio e non lo aveva fatto neanche il piccolo possidente Michele Sammarco, le cui coltivazioni di tabacco erano andate in fumo a causa della disattenzione del suo fattore. Sì, a ben pensarci, le disgrazie misteriose che colpivano i beni delle famiglie erano frequenti, così come erano frequenti dalle loro parti, i bambini che nascevano nelle famiglie sbagliate, quelli che, anziché assomigliare al padre, assomigliavano a uno zio, o al barone, o alla mamma del mezzadro. Insomma, gli spiritelli dei boschi erano sempre pronti a fare dispetti, soprattutto, se non si stava bene attenti quando si passeggiava sotto le querce, perché quelli delle querce erano i più dispettosi di tutti e avevano anche il potere di rubarti il nome e di tenerlo imprigionato sino a che non tornavi con cesti e cesti colmi di salsicce, peperoni, pane fresco, pomodori maturi, cipolle rosse e un fiasco di olio buono e almeno un paio di vino. Chi aveva provato a rifilare loro vino che era andato in aceto oppure olio di semi di girasole, che pure era buono, non certo un veleno, ebbene questi disgraziati riuscivano a ritornare a casa dopo giorni ma non riuscivano a parlare che dopo un mese dal loro ritorno in paese. Nonna Rosa conosceva tutte queste storie e gliele raccontava perché voleva che lei sapesse tutte le vicende del paese per poterle tramandare poi alle figlie e alle nipoti. Fece un unico errore nonna Rosa, di insegnare alla nipote anche la formula per non sembrare bella, formula che lei usò sin da ragazzina per tenere lontani i maschi, che non aveva nessuna voglia di diventare grossa come una giovenca e poi di dovere badare al nugolo dei suoi pargoli come se fosse state la guardiana dei niani. Quando spiegò a Maria cosa bisognasse dire e fare, la reazione della sua amica fu proprio il contrario della sua. A lei i maschi piacevano, e le piacevano forti e ben piantati. Per questo si era fidanzata ennemila volte prima di trovare quello giusto che era stato capace di domarla, cioè di tenerla in camera da letto, e in qualunque altro posto capitasse, per giorni e giorni. Fu proprio lui, Luigi Maria, a farle fare il primo dei suoi figli e anche il secondo e il terzo. Poi quando lui si distrasse con Caterina, la figlia del barone Randone, Maria si consolò molto in fretta con uno dei giovani mezzadri col quale fece una bambina che portava però il nome di suo marito. Non è che in paese queste cose non si sapessero, tutti sapevano e le mogli di paese accettavano quelle di campagna e viceversa, i bambini di paese giocavano con i fratelli di campagna e tutti andavano d’accordo. Il vescovo, l’arcivescovo e i parroci di San Nicola e di San Giovanni Battista, sembravano molto duri in pubblico, ma tra loro gioivano per il tasso di peccaminosità del paese e di tutte le sue contrade. Molti peccatori significavano molte confessioni e molte prebende, grandi donazioni ai santi e alla curia, ex-voto d’argento e oro per ringraziare della grazia ricevuta e tutte le messe, le orazioni e i vespri seguiti non solo dalle donne, ma anche da molti uomini. Seppure tanti si fossero fatti ammaliare dalla bandiera rossa del socialismo e in chiesa ci andavano per far contente le madri.

A tutte queste storie pensava Maria “la pisana” mentre andava a passo lento nei suoi campi. Ci mise meno di un’ora ad arrivare e poi lasciò il somarello a brucare l’erba e a lume di candela, ne aveva una sacca piena, andò a scegliere le erbe che le servivano. Lì nei campi cercava soprattutto l’artemisia, la verbena, il ribes e l’iperico, perché salvia, rosmarino, ruta, aglio e lavanda li aveva già raccolti nell’orto e preparati sul tavolo. Non ci mise molto e se ne tornò verso casa respirando i profumi che arrivavano dal cesto. Dopo aver governato il somarello nella stalla, andò a raccogliere l’acqua fresca nel pozzo. Sulle colline tutt’intorno si vedevano i bagliori dei fuochi e lei immaginava i giovani inseguirsi tra prati e boschi, come aveva fatto la sua amica Maria quando era ragazza. Tornata in casa, diede una sciacquata alle piantine e ai fiori e poi mise tutto nel bacile di terracotta che mise sul davanzale esterno della sua camera a prendere l’aria della notte e le lacrime invisibili della luna che era attratta da tutti quegli aromi. A lume di candela gli oggetti prendevano vita nella cucina, e lei si mise a un angolo del tavolo per ascoltare le storie che avrebbero raccontato.

Maria “la pisana” è già tornata a mostrarmi la sua storia, me l’ha sussurrata in un orecchio insieme alla voce del camino e quella del tavolo. Per questo, anche la Cronaca 471 di martedì 22 giugno del secondo anno senza Carnevale è una storia calabrese, forse vera, forse inventata, forse un po’ tutte e due le cose.

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