Un
naufragio immaginato, un approdo altrettanto immaginato su di un’isola
immaginaria. Bisogna movimentare un po’ le tiepide passeggiate nella città
silenziosa e abbandonarsi alla tempesta che travolge le strade e i giardini e
mi porta su quest’isola che non conosco, dove la sabbia è rosa e avorio e devo
addentrarmi per trovare ombra e ristoro. Mi tornano in mente le prime scene di
Robinson Crusoe e ritorno ai giochi dell’infanzia, dove l’isola era un angolo
dietro il palazzo, invisibile agli occhi di mia madre e dove portavamo coperte,
bambole, palloni, schettini, sacchetti di patatine, tavolette di cioccolata. Un
telo steso sui cespugli era la nostra capanna, sentivamo il mare che mugghiava,
ci stringevamo vicini vicini, così non avremmo avuto paura. L’isola veniva
smontata ogni sera e rimontata quando il sole era già alto. Poi qualcuno portò
proprio il romanzo di Robinson e allora iniziammo a cercare le tracce di Venerdì.
Pochi sapevano cosa potesse significare la solitudine, avevamo vite affollate
sia a casa che a scuola. Mi chiedo come avremmo reagito se fossimo stati
costretti a restare chiusi in casa senza andare a scuola, senza vedere gli
amici e le maestre. In quell’estate ognuno di noi trovò il suo Venerdì,
qualcuno fece notare che la mancanza di un Venerdì stava a indicare una persona
un po’ stramba, forse proprio un po’ matta. Per gli approvvigionamenti dipendevamo
sempre dalle mamme, qualche volta, però, riuscivamo a comprare le meravigliose
focacce nella panetteria del signor Paolo e della signora Elisa. Di rado si
parlava con gli adulti a quei tempi, il mondo bambino e il mondo dei grandi
avevano confini invisibili ma netti. Non ci si intrometteva nei loro discorsi,
si rispondeva se interrogati, si veniva premiati e puniti come graziosi
cagnolini e i tempi della vita erano dettati dalle esigenze della famiglia. Ma quando
eravamo in cortile, oh quando eravamo in cortile, con i pantaloni a zampa d’elefante,
le magliette a righe, le camicie con i colletti alati, diventavamo padroni del
tempo che si dilatava e ci rendeva invisibili, così credevamo, agli occhi di
quelli più vecchi di noi. A volte correvamo inseguiti dai selvaggi, a volte
nuotavamo come delfini per sfuggire agli squali. Più veloci delle aquile
scendevamo in picchiata dalle cime più alte della montagna.
Quando l’isola ti abbraccerà
Se sei
stato su di un’isola
deserta quando
eri bambino,
continuerai
a cercarla e se
sarai
fortunato la troverai
ancora,
ancora vedrai le tracce
del tuo
Venerdì che ti aspetta
proprio
in fondo all’isola. Sarai
delfino,
aquila o squalo, avrai
mani di corallo
e occhi di radici,
tutta l’isola
ti abbraccerà e tu
saprai
di non essertene mai
andato. Perché
le tue orme
bambine
hanno inciso il periplo
dell’isola
e le tue mani sono
scolpite
nella corteccia di
quell’albero
che chiamavi grande,
con
radici sicuro rifugio e sogni
dei
granchi e delle orchidee
che non
erano lì, ma bastava
anche
solo immaginarle.
È molto
più vasta l’isola di quanto non ricordassi. Cerco le mie tracce, sfoglio le pagine
e sorrido, quanto poco cambia un mondo che abbiamo già immaginato.
Oggi è
venerdì 30, l’ultimo giorno del secondo aprile vissuto con la pandemia. L’isola
è un porto sicuro, ci arrivo seguendo le tracce del mio naufragio e le sue
Cronache senza fine.