domenica 22 novembre 2015

L'impossibilità di non scrivere: Marina Cvetaeva e la poesia

La vita di una donna che per prima cosa ogni mattina, mettendo da parte tutte le faccende e le urgenze, a mente fresca, e pancia vuota, scrive. “Si versava una tazzina di caffè bollente e la posava sullo scrittoio, al quale andava ogni giorno della sua vita, come un operaio alla macchina: con lo stesso senso di responsabilità, ineluttabilità, impossibilità di fare altrimenti”.

L’impossibilità di non scrivere ha segnato la vita di Marina Cvetaeva, nella povertà, nell’esilio, nella mancata pubblicazione dei versi, durante la Rivoluzione, durante la morte della sua figlia più piccola, nella sparizione degli amici, degli amori, e nella solitudine più dolorosa. Anche nella giovinezza allegra, quando le serviva molto poco per essere felice: “A Dio io chiedo / una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – / un posto – per me! – / quattro pareti per / il silenzio”.

(...)

Marina Cvetaeva, che aveva pubblicato la prima raccolta di poesie a diciott’anni, scriveva come gli altri respirano, per restare viva. “Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra”. Osservare e descrivere, cercare la verità, contemplare, scolpire. Per fare questo aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (“trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi”), si innamorava di tutti, tendeva le braccia, inondava le persone e chiedeva loro di inondarla. Cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite.

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

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