sabato 21 novembre 2015

I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme

Gli scrittori egocentrici ed egolimitati hanno un potere negato a quelli più ecumenici e di larghe vedute. Le loro impressioni, benché tra mura ristrette, sono densissime e ben marcate. Niente esce dalla loro mente che non sia segnato dalla loro impronta. Imparano poco dagli altri scrittori e ciò che adottano non riescono ad assimilarlo. Sia Hardy che Charlotte Brontë sembra che abbiano fondato il loro stile su un rigido e decoroso giornalismo. La materia prima della loro prosa è ingrata e inelastica. Ma con fatica, e integrità la più ostinata, pensando ogni pensiero finché questo non si sia arreso alle parole, hanno entrambi forgiato ognuno da sé una prosa che interamente si modella secondo la forma della loro mente; che ha, in aggiunta, una bellezza, una potenza, una velocità tutta sua. Charlotte Brontë almeno non doveva niente alla lettura di molti libri. Non imparò mai la scioltezza dello scrittore professionista, né acquisì l’abilità di rimpinzare e signoreggiare il linguaggio a suo piacere. «Non sono mai riuscita a sostenere la comunicazione con delle menti forti, discrete, raffinate, sia maschili che femminili» scrive, come avrebbe potuto scrivere qualsiasi editorialista in un giornale di provincia; poi acquistando vigore e velocità prosegue con la sua voce più autentica «finché non avessi oltrepassato le fortificazioni del riserbo convenzionale e superato la soglia dell’intimità, e non avessi vinto un posto nel focolare del loro cuore». È qui che lei si trova al suo posto, è la luce rossa e intermittente della fiamma del cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë non per la squisita osservazione del personaggio – i suoi personaggi sono vigorosi ed elementari; non per la commedia – la sua è truce e rozza; non per una concezione filosofica della vita – la sua è quella della figlia di un parroco di campagna; ma per la sua poesia. È probabile che sia sempre così con quegli scrittori che come lei abbiano una personalità travolgente, i quali, come diciamo nella vita vera, non hanno che da aprire la porta per farsi sentire. C’è in loro una specie di indomita ferocia perpetuamente in lotta con l’ordine accettato delle cose, che fa loro desiderare di creare all’istante piuttosto che osservare pazientemente. Proprio questo ardore, che rifiuta le mezze ombre e altri impedimenti minori, sorvola sul comportamento quotidiano della gente normale e si allea con le loro passioni più inarticolate. Li fa poeti o, se scelgono di scrivere in prosa, li rende intolleranti delle sue restrizioni. Ecco perché sia Emily che Charlotte invocano sempre l’aiuto della natura. Entrambe sentono il bisogno di un simbolo delle vaste e sopite passioni della natura umana più potente di quanto le parole e le azioni possano comunicare. È con la descrizione di una tempesta che Charlotte conclude il suo più bel romanzo, Villette. «I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme.» Chiama qui la natura a descrivere uno stato della mente che non poteva venire espresso altrimenti. Ma nessuna delle due sorelle osservò la natura con l’accuratezza di Dorothy Wordsworth, o la dipinse con la minuzia di Tennyson. Colsero quegli aspetti della terra che erano più affini a ciò che sentivano loro o attribuivano ai loro personaggi, e così le loro tempeste, le loro brughiere, i loro incantevoli spazi di clima estivo non sono ornamenti lì a decorare una pagina noiosa o esibire i poteri di osservazione dello scrittore – traducono l’emozione e illuminano il significato del libro.

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

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