venerdì 20 novembre 2015

Essere poeta significa incendiarsi per un verso, per l'albero al bordo della strada

Da bambina lesse di nascosto dai grandi Eugenio Onegin, il poema di Aleksandr Puškin  (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell'amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.

Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

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