venerdì 27 marzo 2015

Per dipingere una nuvola bisogna aspettare come se si fosse noi stessi una nuvola

La mattina presto, o poco prima del tramonto, esce dalla sua casetta bianca a due piani. Porta con sé la scatola, il cui coperchio funge da cavalletto; la tavolozza è ridotta al minimo: polvere blu di Prussia, bianco e nerofumo, carminio e vermiglio per ravvivare i colori. In un primo momento, non dipinge. Non basta guardare quell'oggetto, il cielo, come qualunque altro. Il cielo non è un oggetto, è un ambiente, e un ambiente selvatico. Si sottrae se lo si affronta subito, se si cerca di superarlo in velocità, e il risultato è brillante come può esserlo, per esempio, una tempesta di Turner; ma se si aspetta troppo a lungo, il risultato è freddo, infedele: un cielo in stile accademico. Bisogna rimanere in piedi nel posto scelto, di fronte al paesaggio, e aspettare. Per ore Carmichael aspetta. E' ovvio che non aspetta stupidamente, l'ispirazione; non aspetta neppure una bella disposizione delle nuvole, perché tutte le disposizioni di nuvole sono interessanti in ugual misura per chi sa contemplarle. Aspetta semplicemente che la pittura sorga in lui come una turbolenza, che si formi impercettibilmente, proprio come fanno le nuvole, aspetta che si aggreghi attraverso tutto il suo corpo, affinché la bellezza del cielo impregni la carta. Carmichael aspetta, come se fosse lui stesso una nuvola. E soltanto allora dipinge.

Stéphane Audeguy
La teoria delle nuvole
traduzione di Maurizio Ferrara
Fazi editore 2009

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