L'inconscio è fondamentale nella scrittura?
"Ne sono convinto".
È una relazione rischiosa?
"Scrivere è anche nascondersi. Julien Gracq ha detto che dentro a un libro che leggiamo ci sono le tracce di più testi fantasmi che sono stati rifiutati o scartati. Un buon critico si mette alla ricerca di quei fantasmi".
Viene in mente Flaubert.
"È un punto di svolta interessante per il nostro discorso. Penso allo straordinario controcanto alla sua opera che è l'Epistolario, in cui butta fuori tutto quello che viceversa nei romanzi trattiene. Lui paga qualsiasi parola scriva".
Nel senso?
"Deve costruire virgola per virgola il suo edificio letterario. Una fatica e una sofferenza terribile. È una figura cruciale della modernità. Un altro autore dell'800 che amo moltissimo è Balzac. Ma è uno scrittore diverso, meno problematico".
Più di superficie?
"Non proprio. C'è tutta una zona oscura che lievita nei suoi romanzi. Fa da sottofondo".
Cosa l'affascina del sottofondo?
"L'oscurità può diventare una risorsa narrativa. Non è un caso che mi sia laureato su Dino Campana. La sua follia mi incuriosiva. Impiegai alcuni strumenti analitici derivati, però, più da Jung che da Freud".
Una preferenza che giustificherebbe come?
"La psicoanalisi di Freud applicata alla letteratura mi risulta meccanica e prevedibile. Jung opera una discesa agli inferi. Provò a spiegare anche Joyce, che pure non amava la psicoanalisi".
(...)
Gli anni di Parma?
"Più esattamente gli anni in cui, durante la guerra, sfollammo nella campagna del parmense. Ricordo certe sere in cui un vecchio si fermava da noi, chiedendo alla mamma un piatto di minestra. In cambio adunava in una stalla noi bambini e quelli delle case coloniche vicine e raccontava delle storie meravigliose. Fu un'esperienza straordinaria che mi fece capire che la lettura anche quando è un fatto individuale, riflette un mondo di legami collettivi".
È il meccanismo dell'ascolto della fiaba.
"Quasi tutto parte da lì. È vero. Walter Benjamin disse che quando il narratore raccoglie attorno al fuoco un po' di gente produce una specie di miracolo. Ognuno di coloro che ascolta diventa lui stesso narratore. Si crea una catena emotiva fortissima".
Mi pare difficile che oggi si legga ancora in quel modo.
"Si pensi al Processo: un uomo passa quasi l'intera vita davanti a una porta, si sente dire che non può varcarla e poi scopre che quella è la sua porta. Nel racconto Nella colonia penale la scrittura stessa è una forma di tortura che pian piano incide sulla schiena del condannato la sentenza. Cosa c'è di più crudele?".
E Proust?
"È sufficiente seguire il destino dei personaggi della Recherche, vedere come sono spiati dal narratore, che non concede loro né tregua né clemenza, per capire che Proust ha bisogno di quel sentimento per raccontare che un certo mondo, il suo, era finito".
(...)
l mestiere del critico sta morendo?
"C'è sempre una certa enfasi quando si tirano fuori i certificati di morte. Anche del romanzo si diceva che fosse defunto".
E invece?
"È ancora qui".
Però nel Novecento accade qualcosa di decisivo.
"Saltano i tempi narrativi. L'ultimo romanzo in cui ancora il calendario funziona perfettamente è I Buddenbrook di Thomas Mann. Anche un romanzo complesso come I fratelli Karamazov, fatto di piani narrativi molteplici e complicati, è una specie di orologio perfettamente regolato. Se invece si va alla Recherche di Proust si nota che i tempi epici non sono più misurabili con strumenti oggettivi".
Non corrispondono alla vita biologica dei personaggi?
"Proust se ne disinteressa".
Perché il tempo narrativo deflagra?
"È difficile da spiegare. Certamente all'inizio del Novecento accade qualcosa nei vari ambiti: dall'arte figurativa, alla poesia alla musica, alla letteratura e naturalmente nella scienza, basti pensare alle rivoluzioni di Einstein".
E alla psicoanalisi.
"Ovviamente. Non c'è più un tempo oggettivo misurabile".
Tranne che in economia.
"Il tempo lì diventa ferreo. La letteratura e l'arte in genere si sottraggono a questa tirannia".
Meglio smarriti ma liberi?
"In un certo senso. Anche se lo "smarrimento" non è una condizione che viene scelta ma subita".
I quattro grandi dinamitardi della letteratura del Novecento sono considerati Proust, Musil, Kafka e Joyce. La convince?
"Direi di sì. Ci sono altri grandissimi come Faulkner per esempio, o Bulgakov. Ma la statura non è lo stessa di quelli che ha citato".
E tra questi lei predilige Proust.
"Non è un segreto. Ho scritto tantissimo su di lui. Ma ho anche letto moltissimo Kafka, che amo enormemente".
Proust e Kafka sono due mondi opposti.
"Senza dubbio. E tuttavia sia l'occhio dell'uno che dell'altro sono precisi e crudeli".
Crudeli?
"Quel modo di raccontare si chiude con la morte di Tolstoj. Per quanto raffinato, straordinario e in perfetta solitudine, Tolstoj è l'ultimo narratore della tribù. Poi tutto cambia. Il romanzo muta pelle. Va in mille pezzi".
frammenti della conversazione di Antonio Gnoli con Mario Lavagetto
Repubblica 16 marzo 2014
2 settimane fa
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