giovedì 14 novembre 2013

Scrivere è lasciare come traccia una parola non detta fra tante parole inutili

Anna Banti combattè a lungo contro il proprio talento narrativo. Al principio usava strappare le pagine di racconto appena scritte, altro gesto che ne prefigurava il destino: che anticipava la notte dell'agosto 1944 in cui l'esercito nazista in fuga da Firenze fece saltare in aria la casa dove aveva lasciato il manoscritto di Artemisia, tutt'ora la sua opera più nota. Dedicare i tre anni successivi a rifare il romanzo distrutto significò indagare la propria sorte per adempierne il senso invece che subirla. Con Artemisia la Banti rivendicava, per una donna, il "diritto al lavoro congeniale"; congeniale, cioè in "armonia col proprio genio". E pare che una volta Bernard Berenson abbia chiesto al suo collega (Roberto Longhi, marito della Banti) con sedata perfidia, "Che cosa si prova, Longhi, a vivere con un genio?". 
La narrativa non fu per Anna Banti un giocattolo di ripiego dalla critica, abbandonata per impossibilità di tenersi alla pari con Longhi.
La verità è più semplice e però più profonda. Narrare significò intonare per tutta la vita la domanda che pungola ogni scrittore autentico:
"E io chi sono?". 
(...)
Da Lavinia fuggita a La Camicia bruciata, da Noi credevamo ad Artemisia, Anna Banti ha manovrato l'io narrante e il punto di vista con un acume sperimentale che ha pochi paragoni nel Novecento italiano. La sua mente logica, sistematrice, non faceva che ribellarsi a qualsivoglia ordine, primo fra tutti quello cronologico. Benché disponesse di un serbatoio culturale immenso, ricercò «l'essenza più sottile della storia: l'eterna scommessa su quel che non ha lasciato altra traccia che una parola non detta fra tante parole inutili»

frammento della recensione di Domenico Scarpa 
al Meridiano dedicato ad  Anna Banti
Il sole24ore domenica 15 settembre 2013

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