L’alter ego. Una straordinaria definizione
di personaggio l’ha data Giacomo Debenedetti: “Chiamo
personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia
di esemplari, tutti diversi fra loro, ci viene incontro dai romanzi”
per dirci “si tratta anche di te”. “Si può affermare”, scrive David
Lodge, “che il personaggio è la più importante componente del romanzo”.
Ecco perché, chiuso un grande libro, ci resta per sempre in mente
una figura, come una persona
davvero conosciuta.
Elizabeth Strout ha il dono di trasformare donne normali, donne qualsiasi, in personaggi eccezionali. In Olive Kitteridge la
protagonista è un’insegnante di provincia. In Amy e Isabelle, Isabelle è una segretaria qualunque e Amy un’adolescente piena di paure come tante. In Resta con me, Tyler è un reverendo di un piccolo paese del Maine e Connie una domestica. Anche
I ragazzi Burgess è la storia di gente comune, Susan e Helen sono madri che hanno vissuto per i figli e basta, Bob e Jim due fratelli in competizione come migliaia di altri. Eppure è proprio da questo nucleo di normalità che la Strout tira fuori grandi storie e figure potenti, indimenticabili. Qual è il segreto?
I ragazzi Burgess è la storia di gente comune, Susan e Helen sono madri che hanno vissuto per i figli e basta, Bob e Jim due fratelli in competizione come migliaia di altri. Eppure è proprio da questo nucleo di normalità che la Strout tira fuori grandi storie e figure potenti, indimenticabili. Qual è il segreto?
Elizabeth Strout risponde, gentile e disponibile, lei per prima si considera una persona normale e ci tiene a farlo capire. Dopo aver vinto il Pulitzer, quando la gente la guardava in mondo diverso, era persino preoccupata. Continuava a dire a tutti “Ma sono sempre io… Non è cambiato niente”.
Cominciamo
da qui. Come si fa a trasformare una persona qualunque
in
un grande personaggio?
Quando ero al college, discutevo con un amico tutta la notte: lui diceva che esistono delle persone veramente noiose e io rispondevo di no, che nessuno è noioso se lo conosci. Eravamo giovani, quindi litigavamo. Ogni tanto penso che forse aveva ragione lui, ma in realtà sono ancora abbastanza convinta di questa idea. Una persona può fare la vita più normale del mondo, ma per lei la sua vita è
importante, quindi lo è anche per me come
scrittrice.
(…)
Come
lavora? Vede qualcuno e le viene un’idea? Mescola nella testa
pezzi
di persone reali? Dimentica tutto e tutti e lascia che sia
l’immaginazione
a fare questa sintesi?
A volte, quando sono nella metro, mi capita di osservare una faccia per quaranta minuti e di dirmi: Ah, che faccia interessante. Poi però queste persone le mescolo, le costruisco. I personaggi sono un’unione di tante persone reali.
frammento della conversazione di Caterina Bonvicini con Elizabeth Strout
seconda delle Lezioni di scrittura sul Fatto quotidiano del 9 dicembre 2013
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