martedì 14 gennaio 2014

Il mondo in una frase

La mag­gior parte dei giorni ini­zia con frasi scritte al com­pu­ter su un dia­rio che nes­suno ha mai visto. C’ è una libertà in que­sto: la libertà di scri­vere cose su cui non mi cimen­terò mai. Le frasi sono per lo più banali, ser­vono per scal­dare le dita e il cer­vello. Nei giorni in cui sono pre­oc­cu­pata, in cui mi sento tri­ste, in cui sono a corto di parole, la mec­ca­nica del for­mu­lare frasi e met­terle in uno scri­gno è la sola cosa che rie­sca a farmi con­cen­trare di nuovo.

Costruire una frase è come scat­tare un’istan­ta­nea con una Pola­roid: premi il bot­tone e guardi cosa viene fuori. Scri­vere una frase equi­vale a docu­men­tare e svi­lup­pare al tempo stesso. (...)

Il mio lavoro cre­sce frase dopo frase. Dopo una fase ini­ziale in cui mi siedo pazien­te­mente, non tanto pazien­te­mente, e mi sforzo di inse­rirle da qual­che parte, di fis­sarle, le frasi ini­ziano ad arri­vare al mio cer­vello, già for­mate. Di solito le sento quando mi appi­solo per dor­mire. C’è qual­cuno che me le sug­ge­ri­sce, ma non so bene chi sia. Sono io, lo so, ma la fonte sem­bra indi­pen­dente, recon­dita, spe­cial­mente all’ ini­zio. La luce si accende, scri­bac­chio in fretta su un pezzo di carta una frase o due e poi al mat­tino le riporto al piano supe­riore, sul mano­scritto. Sento le frasi quando guardo fisso fuori dalla fine­stra, quando affetto la ver­dura, o quando aspetto da sola su un bina­rio della metro­po­li­tana. Sono le tes­sere di un puzzle, che mi ven­gono date senza un ordine par­ti­co­lare, senza una logica appa­rente. Sento solo che fanno parte della cosa.

Col tempo, in pra­tica ogni frase che ricevo e regi­stro a casac­cio viene ordi­nata, esa­mi­nata, orga­niz­zata e cam­biata. La mag­gior parte le eli­mino. Tutto il mio lavoro di revi­sione — ed è un pro­cesso che ini­zia imme­dia­ta­mente e accom­pa­gna la gesta­zione — avviene al livello di frasi. È arro­vel­lan­domi sulle frasi che si chia­ri­sce un per­so­nag­gio, che si svi­luppa una trama. Lavo­rare in modo tanto com­pul­sivo sulle parole, magari anche prima del neces­sa­rio, è come vedere gli alberi prima della fore­sta. Eppure sono inca­pace di imma­gi­nare la fore­sta in qual­siasi altro modo.

Quando sto per ulti­mare un libro o un rac­conto svi­luppo una sen­si­bi­lità acuta e osses­siva per ogni frase del testo. Mi entrano nel san­gue. Per un attimo sem­brano pren­derne il posto. Quando c’ è qual­che frase ancora in prova, mi siedo in un soli­ta­rio iso­la­mento e comin­cio a lavo­rarci. Le con­fronto, le esa­mino, inverto l’ ordine delle parole. E per ognuna emetto una sen­tenza: decido se farà parte del testo oppure no. Que­sto esame così minu­zioso può por­tare alla cecità. A volte — e que­sto mi ter­ro­rizza — le frasi smet­tono di avere un senso. Alla fine, quando ho ulti­mato un libro, mi sento svuo­tata. È l’ assenza di tutte quelle frasi che erano cir­co­late den­tro di me durante un periodo della mia vita, un com­plesso sistema di radici che viene estirpato.

Jhumpa Lahiri

frammenti dell'articolo pubblicato su Repubblica del 29 luglio 2012

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