La maggior parte dei giorni inizia con frasi scritte al computer su
un diario che nessuno ha mai visto. C’ è una libertà in questo: la libertà
di scrivere cose su cui non mi cimenterò mai. Le frasi sono per lo più
banali, servono per scaldare le dita e il cervello. Nei giorni in cui sono
preoccupata, in cui mi sento triste, in cui sono a corto di parole, la
meccanica del formulare frasi e metterle in uno scrigno è la sola cosa
che riesca a farmi concentrare di nuovo.
Costruire una frase è come scattare un’istantanea con una Polaroid:
premi il bottone e guardi cosa viene fuori. Scrivere una frase equivale a
documentare e sviluppare al tempo stesso. (...)
Il mio lavoro cresce frase dopo frase. Dopo una fase iniziale in cui
mi siedo pazientemente, non tanto pazientemente, e mi sforzo di inserirle
da qualche parte, di fissarle, le frasi iniziano ad arrivare al mio
cervello, già formate. Di solito le sento quando mi appisolo per dormire.
C’è qualcuno che me le suggerisce, ma non so bene chi sia. Sono io, lo so,
ma la fonte sembra indipendente, recondita, specialmente all’ inizio. La
luce si accende, scribacchio in fretta su un pezzo di carta una frase o due e
poi al mattino le riporto al piano superiore, sul manoscritto. Sento le
frasi quando guardo fisso fuori dalla finestra, quando affetto la verdura, o
quando aspetto da sola su un binario della metropolitana. Sono le tessere
di un puzzle, che mi vengono date senza un ordine particolare, senza una
logica apparente. Sento solo che fanno parte della cosa.
Col tempo, in pratica ogni frase che ricevo e registro a casaccio
viene ordinata, esaminata, organizzata e cambiata. La maggior parte le
elimino. Tutto il mio lavoro di revisione — ed è un processo che inizia
immediatamente e accompagna la gestazione — avviene al livello di frasi.
È arrovellandomi sulle frasi che si chiarisce un personaggio, che si
sviluppa una trama. Lavorare in modo tanto compulsivo sulle parole, magari
anche prima del necessario, è come vedere gli alberi prima della foresta.
Eppure sono incapace di immaginare la foresta in qualsiasi altro modo.
Quando sto per ultimare un libro o un racconto sviluppo una sensibilità
acuta e ossessiva per ogni frase del testo. Mi entrano nel sangue. Per un
attimo sembrano prenderne il posto. Quando c’ è qualche frase ancora in
prova, mi siedo in un solitario isolamento e comincio a lavorarci. Le
confronto, le esamino, inverto l’ ordine delle parole. E per ognuna emetto
una sentenza: decido se farà parte del testo oppure no. Questo esame così
minuzioso può portare alla cecità. A volte — e questo mi terrorizza — le
frasi smettono di avere un senso. Alla fine, quando ho ultimato un libro, mi
sento svuotata. È l’ assenza di tutte quelle frasi che erano circolate
dentro di me durante un periodo della mia vita, un complesso sistema di
radici che viene estirpato.
Jhumpa Lahiri
frammenti dell'articolo pubblicato su Repubblica del 29 luglio 2012
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