Robertino (1953-2003)
Veniva con noi in spiaggia, o meglio ci raggiungeva a notte fonda, chiudendo la cosiddetta discoteca.
Aveva qualche anno più di noi, cioè di me e Marco. Come tutti i giovani, ci nascondevamo dalla milicia. Non parlava quasi mai di politica, ma di diritti civili. Non parlava del Cile, sua terra natia, non poteva, e non appariva nostalgico, aveva interesse per la vita, la sua e quella di tutti i popoli e il suo era un sorriso sempre disponibile, e tutto ciò che parlava spagnolo era abitato solo da giovani.
Con i baschi spesso uscivamo a bere melocotones, ovvero pesche immerse nella grappa, bruciate nei loro pentolini di latta, e, distesi con le braccia sotto la nuca, sognavamo di costruire il futuro, che non era proprio il nostro, ma quello di tutti i giovani. Eravamo noi l'unico popolo, tra il mare e il sole. I quattro colpi alla porta del destino dello Straniero, l'attesa di Roquentin, il valore chiassoso di Fuentes, il labirinto portegno.
Eravamo a Castelldefels, a una ventina di chilometri da Barcellona, un camping per il popolo, Estrella de mar, e sapevamo come sopravvivere a noi stessi. La letteratura era la via d'uscita. Per ore parlavo di Azorìn con Roberto che sempre giocava con il mio nome: Darìo, diceva, come il poeta Rubén Darìo. E per ore parlavamo di Ernesto Sabato, del Tunnel e di Sobre heroes y tumbas e, soprattutto, dell'ultimo, Abàdon el exterminadòr... la Terra sembrava tramutarsi nel rosso del sole al mattino, in un'alba senza tregua.
Qualcuno, attraversando la carrettera nacionàl, lasciava la vita per raggiungere il mare, non so come ma tutti noi interpretavamo questo come un'eredità di Franco.
Nell'oltre, nel mediterraneo a perdifiato, col sole calante, sapevamo che Roberto si era allora svegliato e organizzava la serata per qualche famiglia catalana. Girava sempre il disco La fiesta di Raffaella Carrà che, come Colombo, i catalani consideravano una loro connazionale. Nel suo mestiere del tempo era costretto a mettere i dischi per il ballo.
Poi nella notte veniva il mare e là toccavamo il cielo, in un rivoltarci continuo tra le onde e la corrente, nella pioggia di stelle.
Roberto non amava giocare al calcio, ma quando ci battemmo in Espana-Resto del mondo, portò la risata che ci permise di sconfiggere gli avversari, distraendoli.
Era l'estate del 1977.
lo scrittore Dario Arkel
ha scritto apposta per questo blog un ricordo di
Roberto Bolaño