Forse tutti gli scrittori hanno in comune soprattutto una memoria esorbitante e feroce che li costringe a ritornare sulle storie, gli avvenimenti, le immaginazioni per raccontarle ancora e ancora, cesellando, molando, raffinando.
Forse un’altra caratteristica degli scrittori è di “non essere mai guariti dall’infanzia”.
La memoria implacabile e l’infanzia inguaribile sono state due peculiarità di Marguerite Duras, una scrittrice capace di trasformare la vita vissuta e la vita ricordata in materia incandescente della creazione e a scrivere così alcuni tra i romanzi più intriganti e poetici del Novecento. Chissà se le sarà mai venuto in mente che un giorno, oltre a essere soggetto di monumentali biografie, sarebbe state la protagonista di un romanzo bellissimo che narra la sue molteplici vite.
Autrice di “Marguerite” uscito la scorsa primavera per Neri Pozza, in occasione del centenario della nascita della Duras, è Sandra Petrignani una delle migliori scrittrici italiane contemporanee che già avevo amato moltissimo nei suoi libri precedenti come “La scrittrice abita qui”, “Care presenze” e “Addio a Roma”.
Questo nuovo romanzo nasce sulla scia di una passione cresciuta nel corso degli anni e credo anche dalla curiosità di cogliere il segreto della Duras scrittrice, intenzione che dichiara utilizzando come epigrafe del libro una citazione di Philip Roth: “Quando ammiri uno scrittore, t’incuriosisci. Cerchi di carpire il suo segreto. Gli indizi per risolvere l’enigma che rappresenta”.
È Duras stessa che all’inizio di questo libro pensa: “Si sente uno scroscio d’acqua, cade una foglia con un rumore lieve. La luce cambia in continuazione. Ora una nuvola ha gettato un’ombra nella stanza. Nei libri invece si procede per successione, come se le cose accadessero in sequenza, ordinatamente e non insieme; mentre dentro e fuori le persone le cose si affastellano, i pensieri si mescolano. Io voglio scrivere così: non voglio più raccontare una storia, ma il suo segreto.”
Sandra Petrignani ci guida così nel segreto e nella vita di Duras seguendone le due direttrici principali, le due vocazioni: l’amore e la scrittura. Una donna innamorata della scrittura e innamorata dell’amore, sempre alla ricerca dell’eccitazione dell’innamoramento e che scriveva meglio soprattutto se amava.
La piccola Marguerite/Nené ebbe un’infanzia selvaggia in Indocina, figlia di due insegnanti emigrati nelle colonie, Marie e Henri, alla ricerca di ricchezza e stima sociale. Hanoi, il Mekong, le piantagioni di riso, le strade sterrate, i contadini, una diga sul Pacifico sono tra le figure che popoleranno i futuri libri. Anche la storia d’amore con il ricco e giovane cinese, sarebbe stata immortalata nel romanzo “L’amante” che consegnò la Duras alla fama presso il grande pubblico e alla ricchezza, ma la privò della sua invisibilità perché tutti iniziarono a fermarla per strada. Nené vive giovane per l’eternità in questa narrazione, così come anche il suo amante, ormai anziano, le dice al telefono dopo la pubblicazione della loro storia. Lei si stupì di quella telefonata perché dopo avere scritto, ogni volta, temeva sempre di essersi immaginata ogni cosa. L’infanzia indocinese è irriducibilmente altra, l’Indocina resterà il sogno infranto della Francia, Ma Duras continuava a vivere in quel sogno la sua infanzia libera. La tensione tra immaginazione, inconscio e memoria e sempre fortissima in Duras. Non diede ascolto, all’inizio della sua carriera letteraria, a chi le suggeriva di entrare in analisi, conobbe Lacan che dedicò uno dei suoi scritti a Lol V. Stein, lesse Freud ma restò folgorata solo da Jung, e quando decise di andare da un analista lo avrebbe fatto in segreto.
“C’è un “essere-pilota” dentro di noi che lavora costantemente all’integrazione dell’esperienza attraverso il racconto della nostra esistenza. Non si tratta di prendere coscienza, ma di integrare, interpretare, modificare i fatti della vita”, scrive Petrignani ricordando che è in una zona d’ombra interna che questo “essere-pilota” agisce e pesca le sue storie.
La bambina selvaggia diventerà una giovane donna borghese bellissima e inconsapevole al suo ritorno in Francia e poi una combattente della Resistenza, una militante comunista espulsa dal PCF, una scrittrice adorata dai critici, una moglie infedele, una madre ansiosa, un’amante appassionata, una regista d’avanguardia, una rivoluzionaria del maggio ‘68: Nené aveva lasciato il passo a Margot. Se queste molteplici vesti si sovrappongono nel corso di tutta la vita, oltre alla scrittrice, due sono i ruoli che non l’abbandonano mai: l’amica, e tra le sue amicizie famose vanno ricordati almeno l’attrice Jeanne Moreau e lo scrittore Elio Vittorini, ma più ancora la figlia che mai ha sentito su di sé lo sguardo amoroso della madre. Forse ogni libro scritto non è altro che una lunga lettera alla madre che non l’ammirava e che, anzi, si arrabbiava e vergognava di quei libri che riteneva offensivi per la famiglia. Non poteva capire le distorsioni letterarie alle loro vite che rendono le vite materia letteraria Marie Donnadieu. Non poteva capire che la scrittrice sarebbe stata la maschera unificante di una personalità complessa e incandescente.
Lo scrittore Raymond Quenau la esortava a scrivere comunque “Scriva! Solo questo deve fare”.
E scrivere è entrare nelle ombre e nelle tenebre dell’anima, perché, come ci ricorda Petrignani “Non si possono conoscere le tenebre partendo dal giorno”.
Duras conobbe le tenebre della malattia e dell’alcolismo che la portò diverse volte in punto di morte. “A volte l’acqua si dimentica di gelare. Le hanno raccontato di questo fenomeno naturale, l’acqua non gela sempre a zero gradi. Se è perfettamente immobile, se è molto pulita, la temperatura deve scendere sotto lo zero, prima che geli. Come acqua che ha dimenticato di gelare, Marguerite si è dimenticata di soffrire, si è dimenticata di morire. Era stata respinta in fondo all’abisso, a contorcersi inascoltata, a urlare senza far rumore. Non aveva detto tante volte che proprio questo si fa quando si scrive? Si urla senza produrre suono”. L’eco di queste urla attraversa tutta l’opera di Duras che, a differenza della maggior parte degli scrittori, poté vedere incarnati a teatro e al cinema i suoi personaggi. Il buio del cinema, come evoca in un passaggio poetico Petrignani, è come lo spazio bianco tra le parole. Duras fu maestra nell’uso di quel bianco e di quel nero perché le sua scrittura e il suo sguardo hanno ritagliato, cesellato la parola necessaria, l’immagine indispensabile facendo sì che i due colori opposti diventassero una cornice e non il centro della sua espressività.
Chi scrive vive tutti i tempi allo stesso tempo, vive tutte le vite che non vivrà mai nella realtà. Ma cosa è mai la realtà se non un riflesso in un vetro che la scrittura coglie e ordina?
I frammenti vengono ricomposti, ma dietro il vetro il caos e la passione, i segreti e i misteri restano intatti, intoccati.
Questo romanzo magico di Sandra Petrignani ci porta in dono una vita straordinaria che è romanzo e biografia e aggiunge un prezioso tassello al mosaico della sua scrittura che si specchia e si intreccia con quella di Duras, perché anche lei ha una sua voce unica e inconfondibile che in questo romanzo ho ritrovato
Se anche delle nostre vite non “resta che il ricordo di una solitudine vista in sogno” possiamo continuare a credere nella forza della letteratura e dei libri non solo per salvare noi stessi e il mondo dall’oblio, ma per continuare il dialogo silenzioso con i lettori vicini e lontani e con gli scrittori che ci hanno preceduto.
La mia copia di “Marguerite” è un libro tradizionale di carta, non riesco a leggere gli eBook e neanche ho voglia di provarci ancora, è pieno di appunti e sottolineature, di rimandi, di spunti e di indicazioni. Ora è nella libreria dei miei libri preferiti, quelli che voglio rileggere in futuro, ma non l’ho messo di costa ma girato, per poter guardare la bellissima foto in copertina dove Duras giovanissima non guarda il fotografo, già assorta in quel mondo dove sostavano i suoi libri futuri in attesa di essere scritti.
1 commento:
Molto bella questa recensione, Marina
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