Ha il suolo arido e si estende tanto che lo sguardo ne scorge
solo frammenti; delle sue città si diceva splendessero,
ma sono di solito nascoste e appaiono, improvvise
e per caso, dietro una curva.
Abito vicino alle montagne in una valle
brulla disseminata di massi sferici e rossi.
Coltivo un campo che si offusca e scompare,
poi si volta indietro a salutarmi. Dopo il lavoro
spesso mi siedo nell'aria smeraldina della sera,
le gambe ben stese in avanti,
il collo del giaccone ben rialzato,
la sedia di vimini reclinata,
e provo a immaginare che fanno lassù
sulle colline di cristallo, così fredde, così colme
dell’assenza di tutto ciò che abbiamo qui.
Il rumore dei treni distanti, i loro protratti
fischi monotoni, plana dai passi ghiacciati.
E nel buio, sotto il peso della luce di stella,
sogno di essere altrove: sento il mare che si culla
sulla costa e il puro vento leggero
farsi strada tra macchie di pini stenti
e strati di aria fosca. E mentre mi sforzo
di tenere vicina quella veduta,
il giardinetto sul retro della casa
spande la sua fragrante carne illuminata dalla luna.
Quando arriva l’alba,
la pianura nuda oltre il mio prato
si fa rosagrigia e sparse nubi trascinano
falde di pioggia.
E nell'incrollabile vampa
di sole che si incurva
ad avvolgermi, tutto vortica
via, fuori dalla mia portata, come se l’esser qui
fosse uno sbaglio. Così il giorno comincia.
Il gran lago a occidente fa salire un muro di caligine,
le montagne a sud e a est un fregio
di vette innevate, e gli ariosi spazi
del nord un ammasso di freddo.
Malgrado gli antichi confini, l’impero è informe.
Lavoro il mio campo sotto le strida dei gabbiani
e lo sguardo profondo del cielo. Lavoro sodo
finché non sopporto più il mio lavoro.
È la dura verità di quel che faccio.
La mia ombra rabbrividisce nell'aria del mattino.
Mark Strand
Il futuro non è più quello di una volta
a cura di D. Abeni
Minimum fax 2006
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