martedì 5 maggio 2015

Un'attenzione non generica, una monacazione non palese, una scabrosa libertà, un cerchio di chiarità: la vocazione alla scrittura secondo Gianna Manzini e Virginia Woolf

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Forse ognuno di noi percepisce la richiesta di un'attenzione non generica, d'un amore non generico, da parte di quest'universo che è così imponente e tuttavia così bisognoso di parole nostre, di nomi, di colori, di forme, di voci, in cui, per merito nostro, essere, di continuo, diversamente vivo, più vivo.
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Sembra di correre un rischio. Ed effettivamente un rischio esiste: quello di diventare un po' stranieri, un po' sospetti per la maggior parte del nostro prossimo, ed anche quello di violare, non si sa con qual diritto, un'intimità, un silenzio geloso delle cose. È un'impressione in cui giuocano pudore, ansietà e orgoglio.
Ma nel momento in cui uno sta per rinunciare a questa specie di mandato, sempre avvertirà qualcosa che somiglia ad un'intimazione o a un gemito, per cui capisce che si tratta d'un appello speciale della vita, d'un suo chiamarci, quasi per nome, con un nome destinato esclusivamente a noi, e che ci appartiene, come non ci appartenne mai nessuno dei nomi che ci fermarono.
Ebbene, in me, il coraggio di non rinunciare si chiama precisamente Virginia Woolf. 
La leggevo e imparavo a raccogliermi l'anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori. Devo a lei questa specie di monacazione non palese: questa sottomissione ad un impegno che è tanto più rigoroso quanto meno precisato, dal quale deriva una scabrosa libertà.
Raccogliermi l'anima e tenerla in fronte come la lampada dei minatori: nient'altro che una particolare attenzione, in virtù della quale le cose escono da un'ombra che le preserva, un'ombra fermentante, faticosa, bruta, l'ombra dell'attimo che precede una nascita, per entrare in un cerchio di chiarità.

Gianna Manzini
Album di ritratti
La lezione della Woolf
Mondadori 1964

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