mercoledì 6 maggio 2015

scrivere è diventare un setaccio che vagli un luminoso delirio, per dare alla vita ciò che ad essa manca di luce per essere più vera

Il garofano rosso di Elio Vittorini ha il fascino dei libri della prima giovinezza, quando il talento è una specie di follia e vivere è come viaggiare in incognito con se stessi. Allora uno non fa che registrare ciò che il suo ospite misterioso gli sussurra all'orecchio. Uno a dettare, l'altro a scrivere: è una corsa gioiosa per tenersi dietro. Da ciò, un Vittorini ansante, trafelato, con i suoi "altro che" come spallate, il suo interrogare tra sbalordito e ossessivo, la sua furiosa vivezza.
E un altro Vittorini attento, attentissimo, alla sospetta naturalezza del suo dettato; a quel flusso di vita incontrollata, eppure dipendente da ragioni d'armonia, da ragioni matematiche e poetiche. Un Vittorini cauto di fronte all'incanto di quella sua immobilità segretamente attiva. 
Fra tanta finta inerzia e tanta focosa attività, Vittorini imparava che scrivere è diventare un setaccio che vagli un luminoso delirio, per dare alla vita ciò che ad essa manca di luce per essere più vera. Imparava che scrivere è essenzialmente non scrivere. Cose, più che parole. E che sfuggano alla prigionia della denominazione esatta, la quale le fisserebbe in un senso avventizio e obbligato al vivere sociale. Per cui "la cava", nel linguaggio dei ragazzi del Garofano rosso, non è soltanto la bottega del fabbro tipografo; è anche "quell'ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso in quell'ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci dentro, rosicchiando castagne secche, di donne, di terre, di bastonate, d'aeroplani e d'automobili, di gioco di calcio e libri d'avventure"
(continua)

Gianna Manzini
Album di ritratti
Vittorini e il Garofano rosso
Mondadori 1964

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