Ma il terrore vero e
proprio erano le letture di libri. Raffaele leggeva con grande facilità,
addirittura gli piaceva! In quinta elementare conosceva già tutti i classici
per l’infanzia, mi parlava affascinato di Salari, e io lo ascoltavo
affascinato, pensando chissà come ha fatto a leggerli tutti, è molto più comodo
stare qui ad ascoltare lui che ha fatto tutta la fatica!
Un giorno alla
cartolibreria Pacini di via Fauché – quella dove mi sono poi comprato l’Enciclopedia
dell’educazione sessuale – ho
scoperto la collana che faceva per me: dorso rosso, formato dieci centimetri
per dodici, foliazione, modesta, caratteri grossi, le avventure di Brains (che
io pronunciavo rigorosamente all’italiana), un bambino prodigio (un po’ come
Raffaele) che faceva l’agente segreto. Questa collana stupida per
semianalfabeti ha avuto il merito di farmi capire che leggere poteva anche non
essere una pura punizione. Così, nelle lunghe e noiosissime estati dell’adolescenza
riuscivo magari a leggere, nell’arco di tre mesi La certosa di Parma (c’era la collana Einaudi ragazzi, irresistibile
con il suo color mattone e i libri tutti uguali nel cofanetto, con quei
caratteri misteriosi, forse un po’ britannici, che al posto del numero 1
avevano la I maiuscola; avevo programmato di leggerli tutti, calcolando
esattamente quante pagine dovevo leggere al giorno per ultimare la lettura
entro cinque anni, ma, come tutti i miei progetti, non sono andato oltre il
primo volume). Dopo, quando un’amica di un’amica della mamma ha saputo che io
studiavo la lingua russa, mi ha detto di andare dal professor Vincenzo
Gibelli in via Pontaccio, che era vecchio e malato ma avrebbe avuto piacere di
darmi delle lezioni gratis, e io ci sono andato. Quando suonavo dovevo
aspettare tantissimo perché lui camminava piano piano, ma quando mi apriva
aveva un grande sorriso e mi faceva serere a un tavolo, e parlava solo russo,
che vergogna e che fatica!
Prima delle vacanze,
lui mi ha dato l’elenco dei cinque romanzi russi che dovevo leggere senza
fallo: Delitto e castigo, Padri
e figli, Guerra e pace, Oblomov, Le anime morte.
Sapevo che la letteratura russa era sterminata, e il fatto che lui, che era
così vecchio ed esperto, me ne mettesse lì cinque, e che in quel modo
suggerisse implicitamente (non è vero ma a me faceva comodo pensarlo) che c’era
una specie di ‘condono letterario’, che quei cinque mi avrebbero assolto
dall’obbligo di leggere tutti gli altri, mi ha invogliato enormemente. E poi come
si faceva a dire di no a uno che faceva tanta fatica a camminare per venirmi ad
aprire ogni volta che suonavo alla sua porta, aveva i capelli lunghi, bianchi,
il bastone, e parlava solo russo (con me)? E così, in soli due anni (un’impresa
per me), li ho letti tutti.
In realtà quello che
detestavo era percepire la lettura come tempo che passava mentre io stavo fermo
a non fare niente (ossia a leggere). Viaggiavo come la Millecento col freno a
mano tirato. Che non mi piacesse leggere, che non mi piacesse studiare, ho
scoperto poi che era una difesa, una barriera per evitare la vertigine prodotta
dall’abisso di tiepidità della lettura e dello studio per piacere, non per dovere. Di fatto avevo un blocco, un
collo di bottiglia, un ingorgo di libido libraria. Dopo i cinque libri russi,
come una maschio sessualmente sano che non ha mai scoperto il nesso tra
attività sessuale e beatitudine della scarica libidica, e che finalmente
s’innamora e coglie questo nesso, la lettura è diventata un’attività alla quale
mi sono sempre abbandonato con avidità, con ingordigia, al punto che se un
libro dopo un certo numero di pagine non mi dice più niente e lo trovo
prevedibile, lo abbandono senza sentirmi minimamente in colpa, perché non
riesco a guardare tranquillo la pila dei libri in lista d’attesa sul comodino
con la consapevolezza che sto perdendo tempo con un autore prolisso – dal mio
punto di vista naturalmente.
Diverso è con l’ebraico.
Non desidero imparare l’ebraico.
Desidero studiarlo. Il tempo
dedicato a capire la mia vita, a studiare l’ebraico, è sospeso, è di servizio,
non serve a comunicare, è fine a se stesso. Le parole studiate alle elementari
risuonano in me non tanto come parole, quanto come suoni odori sapori affetti;
speravo che, facendomele risuonare nella mente, l’eco potesse risvegliare
sensazioni, ricordi, momenti che ho vissuto in qugli anni cruciali per la mia
formazione di ebreo tra i non ebrei, di diversamente ebro tra gli ebrei, di
amico tra i nemici e nemico tra gli amici, a cui sono stato abituato da papà.
Bruno Osimo
Dizionario affettivo
della lingua ebraica
Marcosy y Marcos 2011
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