Una finestra è un punto di osservazione da cui guardare il mondo esterno, che fluisce sbadato e insondabile, ed è insieme uno squarcio attraverso il quale spiare la vita, sempre misteriosa e inafferrabile, che scorre e si consuma in stanze sconosciute, ma è anche uno specchio in cui il flâneur, l'uomo che vagabonda per la strada cercando di cogliere il segreto e l'essenza di una città, scorge insieme l'interno di una casa e il riflesso del suo volto, scopre se stesso immerso nel fluire delle cose e indistinguibile, nel suo essere più profondo e ignoto, da esse. Così accade ad Antonio Muñoz Molina, famoso scrittore che camminando per New York diviene un passante anonimo e sconosciuto non solo agli altri ma pure a se stesso, in quel vero capolavoro che è il suo libro Finestre di Manhattan, uscito alcuni anni fa e splendidamente tradotto da Maria Nicola. Pochi libri dimostrano con altrettanta forza poetica la verità di quella parabola di Borges che narra di un pittore, il quale dipinge paesaggi - alberi, città, montagne, fiumi - e alla fine si accorge di aver dipinto il proprio autoritratto, non perché abbia alterato soggettivamente la realtà, ma perché la sua identità - come quella di ognuno di noi - consiste nel modo in cui vede, sente, coglie, ama o respinge il mondo, le persone e le cose.
Pietro Citati
incipit della recensione pubblicata sul Corriere della Sera il 27 maggio 2013
2 settimane fa
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