venerdì 27 maggio 2011

Novembre, via dell’Orso

Interno con donna che legge. La grande stanza colma di libri è immersa nell’oscurità. Solo una piccola luce illumina il libro. Tutto tace intorno e dentro di lei. La nebbia è l’unica padrona di questa domenica già invernale. Farà buio presto, non c’è nessun motivo, buono o cattivo, per uscire. Come in un gioco di specchi, in altre case, altre donne leggono e sognano in silenzio. Pare che gli uomini siano scomparsi da questa città, come ci fosse una guerra lontana. Ma l’unica guerra che si combatte tra queste mura, è quella contro l’insensatezza di questi giorni sempre uguali. Mese delle ripetizioni, di litanie penitenziali, sospeso tra due estati, lontane come la meta più agognata. Ah novembre, mese delle foglie morte degli ippocastani,
del primo ghiaccio sul selciato, tintore di grigi artefatti, rapitore di quiete, mese dei silenzi.
Incontrare fantasmi per strada non è inusuale, camminano confusi tra folle distratte, calate dalle periferie. Nessuno li vede, non vedono nessuno. L’asfalto ulula come un cane ferito, troppo rischioso avventurarsi oltre i confini di case simili a rifugi. Case nate per stratificazioni successive, quelle degli stranieri poveri e malpagati, sono cataste di letti e di fredda desolazione, un fornello incrostato per trenta persone, un bagno sempre occupato per tutti quanti. Migliorano un poco le cose per gli studenti immigrati, mobili vecchi degli anni settanta, materassi sfondati, muti testimoni di amori di tempi finiti. Libri di studio accatastati sui pavimenti, le tazze del caffè di ieri, cenere di sigaretta sui tavoli unti, fumo sempre appeso nell’aria. E un via vai di amici, che portano tracce di sole nelle loro lingue natali. Lavori più che mai flessibili per pagarsi il cinema e la pizza il sabato sera, essere convinti che dopo tanta fatica, quel pezzo di carta, sogno di altre generazioni, porti un lavoro degno di tale nome.
Case di famiglia, desolanti quelle delle periferie, nessun albero a dividere i palazzi pesanti, incubi di architetti democristiani, televisori sempre accesi, madri sempre stanche, padri pensierosi che sorridono poco. Case di famiglia oltre la circonvallazione, i soldi levano la patina di tristezza, bei quadri alle pareti, tripudi di foto in bianco e nero, televisioni sempre accese,
madri sempre stanche, padri pensierosi che sorridono poco e tornano a casa ogni sera più tardi.
Solo di sera, casa per casa, l’odore di cibo cucinato di fresco, mangiato con poco gusto, l’oppio della televisione sempre in agguato, lo stesso stordimento dopo cena, i bambini senza Carosello a letto presto ogni sera. Più oltre ancora, dove le case non sono tali, ma custodiscono montagne di scartoffie fino al soffitto e l’ombra di vite impiegatizie senza passioni, se non una promozione o lo sguardo ammiccante di una collega. Inoltratevi ancora più nel cuore di questa città e non troverete nulla, cercate rifugio in una chiesa, tra le poche che sono aperte, aspirate l’odore di incenso, scrutate di nascosto la gente che va al Vespro e chiedetevi com’era, quando da bambini credevate ancora. Rivedetevi presi dall’entusiasmo della prima comunione, battezzatevi di nuovo con l’acqua benedetta all’ingresso della chiesa, sentitevi puliti dentro e fuori, come rinati. Sapendo di dovere tornare a casa per giustificare la testa bagnata, correte sotto la pioggia con l’ombrello chiuso stretto tra le mani. E saltate nelle pozzanghere,
cadete sulle ginocchia e non abbiate paura del raffreddore. A casa sottraetevi alle domande della mamma e scivolate in bagno nell’acqua calda, ricominciate il gioco da capo. Cercate rifugio in un grande magazzino, quasi impossibile camminare, sfiorate le stoffe dei vestiti appesi per
sentirvi vivi, provate un profumo nuovo che prenda alla testa e fuggite di nuovo a vagare nella nebbia. Comprate un cartoccio di castagne arrosto, un cono di panna montata, restate poco nei bar inospitali, passate per i Navigli e li troverete in secca per la pulizia semestrale.
Cercate rifugio in un cinema, quindi andate per forza in centro, perdetevi tra la folla e dimenticate da cosa stavate fuggendo: dalla vostre case vuote, dalla vostra vita colma di desolazione. Nel calore del cinema sentite l’ansia che si acquieta, lasciatevi trascinare dalla storia filmata. Dopo due ore sarete di nuovo per strada, chiedetevi quando si è perduto il bandolo, quando è iniziata quest’onda di tormento che vi divora. Scrutate con ansia il cielo per vedere se almeno arriva la pioggia, se i negozianti decideranno, anche quest’anno,
di accendere prima le luci di Natale. Incontratevi più volte per strada senza trovarvi mai.
Perdete ogni attenzione per il mondo intorno, pensate solo alla casa, solo a come tornarci il più presto possibile. In questo mese dove sembra non accada mai nulla, succedono invece troppe cose. Ma non inizia mai nulla. L’ultima volta in cui avete fatto l’amore con il vostro amante che viene dall’estate. Era novembre. L’ultima volta in cui avete parlato con vostro padre, prima che egli smarrisse il senno per le vie della città sempre più in rovina. Era novembre. L’ultima volta in cui vostra madre vi ha abbracciato come un tenero bambino, di certo è stato di novembre.
Che il signore del tempo ti frantumi e ti trascini via, mese di spine e buio senza consolazione, mese senza frutti, le cui notti divorano le menti degli incauti sognatori. Mese che confonde il cammino ai virtuosi e incita i malvagi al nuovo delitto. Mese dei deliri, delle armi disseppellite dal giardino, mese delle vendette e degli abbandoni, che il tuo tempo passi come un respiro,
come le pagine di un libro letto male. Così che la donna deponga il volume e, sola, se ne vada a dormire.




Elena Petrassi
Frammenti del tredicesimo mese
Atì editore 2007

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