venerdì 27 maggio 2011

Maggio, il chiostro di Sant’Ambrogio

Ecco, abbiamo quasi finito. Non c’è strada di Milano che non porti le impronte dei nostri piedi, non c’è casa dove non abbiamo posato il nostro sguardo, non c’è portone che non abbiamo tentato di varcare. Abbiamo toccato ogni albero e ritratto le mani sporche di nero.
Abbiamo incontrato impiegati all’uscita delle banche, operai davanti alle fabbriche, studenti che hanno bigiato in Piazza Duomo la mattina presto. Abbiamo incontrato vecchi vagabondi che frugano nei cestini della spazzatura, zingari con le mani tese, polacchi ai semafori, marocchini che vendono sigarette, senegalesi che vendono di tutto, coreani che vendono foulard di seta,
brasiliani che vendono se stessi. Vecchi soli che si trascinano tra i prati spelacchiati e i pochi giardini, madri stanche dallo sguardo distratto, bambini capricciosi e pallidi come il cielo, uomini frustrati da lavori noiosi, avventurieri politici che amano il colore verde e inventano
miti seduti all’osteria e altri politicanti padroni dell’etere. Non solo, abbiamo anche incontrato i fantasmi di coloro che in questa città hanno abitato o semplicemente almeno per un giorno ci sono passati. Era un ventinove maggio quando un ragazzo dal nome straniero baciava una ragazza con i capelli neri in ogni sala della galleria Il Diaframma. Poi con lei per mano
se ne andava per il quartiere di Brera cercando una città di artisti perduti nel tempo, ancora più fantasmi dei fantasmi veri. Ma di ognuno in questa città è rimasto un poco, fosse solo il ricordo di un sorriso riflesso nel metrò di mattina o l’eco di una voce che grida il tuo nome proprio
fuori da scuola. Alla fine, però, quel che resta di me è un mosaico venuto male. I pezzi non combaciano mai, anzi ne manca sempre qualcuno e non ci saranno disegni comprensibili, ma solo frammenti di quel che avrebbe potuto essere e invece non sarà mai.
Una cosa più di tutte in questa città hanno perduto: non tanto la capacità, quanto la necessità di immaginare. La capacità rende le cose possibile, la necessità le rende probabili.
Ora senza il senso della necessità nessuno di questi abitanti che ora conosciamo un po’ meglio, avrà mai davvero la voglia di cambiare. Si deve averne bisogno, non essersi rassegnati alla immobilità delle cose. Perché qui da me le cose non vengono progettate, semplicemente
accadono. Quel che io e i miei abitanti abbiamo di più vero è di essere inconsci. Ci svegliamo
ogni mattina, agiamo, ci agitiamo, costruiamo cose amate più dagli altri abitanti del mondo che da noi stessi, abiti e oggetti per lo più. I miei poeti se ne stanno chiusi nelle soffitte a scrivere
poesie che mi ritraggono sempre nella mia grigia immobilità, condannata in un quadro di Sironi in eterno, i pittori cercano rifugio verso i laghi come folaghe in autunno, gli scrittori scrivono di storie accadute in altre città, sotto altri cieli. Da una strada all’altra, da un cortile all’altro entrando a ogni passo nel sogno di qualcun altro. Camminare in un sogno, questo è possibile nelle sere di maggio. La città intera è avvolta in una nuvola di polline, la fioritura annuale dei pioppi, portata dal vento di periferia. Passare dai chiostri della Statale e ascoltare il suono
di un sax solitario alzarsi verso il cielo. Ma perché sta suonando neanche quell’uomo lo sa. Avventurarsi di notte per il Parco Sempione, cercando avventure e trovare solo disperati così inebetiti da essere ognuno l’incubo di se stesso. Dalle parti dei Bastioni fermarsi a guardare i visi lisci e imbronciati dei ragazzini che si prostituiscono. Vicino al Monumentale osservare i
corpi statuari delle brasiliane alte due metri. Scivolare lungo la circonvallazione e sbirciare nelle finestre dove le luci sono tutte accese. Perdersi in Brera tra lettori di tarocchi e vaticini a buon mercato. Stordirsi in discoteche dove la musica inghiotte ogni cosa viva, guardare i ragazzi che amoreggiano e ricordarsi com’era. Passeggiare lungo i Navigli ascoltando jazz & blues,
scintillare sull’acqua con le luci artificiali dei lampioni, sedersi a un tavolo e fingendo di sfogliare il giornale, origliare le conversazioni dei vicini. Ristrutturare case vecchie e scoprire nei muri nicchie e archi di mattoni, dare feste per centinaia di persone e non sapere più a chi lo si è detto e chi si è dimenticato. Essere una brava madre, portare i bambini a scuola, preparare la cena per tutta la famiglia. Essere di nuovo single a oltre trent’anni e non sapere come affrontare la cosa. Ora gli uomini ti danno il loro numero di telefono anziché chiederti il tuo.
Cercando un linguaggio comune le mie creature hanno smarrito la ricchezza di ogni singola parola. Per esprimere la sfumatura di ogni sentimento, per raccontare le vite sempre uguali che lasciano trascorrere come se la cosa non li riguardasse. Essi sono vissuti dalla vita più che vivere, non per scelta ma per incapacità di fare scelte. Eppure non c’è nessuno di coloro i quali abbiamo incontrato che non si sia scelto nella solitudine e poi perduto. Sarebbe bello di ogni storia poter narrare non solo quel che è accaduto ma anche quel che sarebbe accaduto se.
Modificare gli ingredienti, togliere gli anni, cambiare i nomi. Se Carlo, Nino, Roberto e Sofia non fossero Carlo, Nino, Roberto e Sofia e Caterina solo un nome da loro inventato? In questo flusso di storie interrotte, altre storie a decine avremmo da narrare. Iniziando magari dalle storie della metropolitana. Perché là sotto la mancanza di luce cambia molto la dimensione dello spazio e quella del tempo. Un bar, un’edicola, un noleggio di videocassette, un negozio di bigiotteria. Ma queste sono storie che, al momento, necessitano di altri narratori. Così Isa e la sua bambina continueranno a giocare tra i peluche, Giuliano a noleggiare videocassette di film che avrebbe voluto interpretare, nonna Lucia a infilare collane e leggere Novella 2000. Io sono un immenso labirinto a forma di spirale dove si finisce sempre per calpestare di nuovo i propri passi. Finire così una sera di maggio, seduti su un muretto a raccontare altre storie, perché sono le storie a farli umani e sono le storie a far vibrare l’intero universo di un’unica vibrazione. Ecco che cosa gli invidio, potersi mettere lì e iniziare a raccontare. Che importa stasera, se vivo e respiro non sapendo di essere solo il sogno di qualcuno che sta dormendo sotto altri cieli. Qualcuno che, proprio grazie al fatto di essersene andato, riesce a immaginare una città che esiste solo nella sua fantasia. Dunque io non esisto più, Milano non esiste più, questa è la conclusione. Chiamano Milano città che si intersecano e si sovrappongono. Chiamano milanesi persone che vorrebbero sempre essere altrove o magari solo essere. Sparite le nebbie di un tempo, cancellato il fiume artificiale, rimodernati i vecchi palazzi, chiuse le fabbriche delle periferie, offerta al mondo solo la bellezza sfacciata dei giovani che lavorano per la moda e politicanti malinconici di non abitare in una metropoli americana, così da poter giustificare ogni nefandezza e la necessità di vivere in uno stato di polizia, dove l’oblio generato dalla televisione, estende i suoi tentacoli ben oltre i confini esigui della città. Se Milano non esiste, quel che chiamano Milano, allora, è solo un luogo mentale.
E loro che ci abitano, se io non esisto? Loro, allora chi sono?

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