venerdì 27 maggio 2011

Aprile, la chiusa di via San Marco

Mese d’acqua, terra di nessuno nel mezzo della primavera. Gli austeri palazzi grigi si rilassano un poco, come se la pioggia tiepida sciogliesse le loro giunture tese dai difficili mesi invernali. Ora le foglie nuove sugli alberi sono più salde, i cuccioli stanno per nascere, le giornate si stendono pigre tra un’alba e un tramonto dai colori soffusi. Sembra quasi che una grande
pace sia scesa sulle cose e sugli uomini. Questi fanno capolino fuori dalle tane, qualcuno si guarda intorno con un po’ di sconcerto, ma è vero, l’inverno è finito.
Pure sono in pochi a crederci sul serio. Questo è il mese dell’incertezza, arriverà l’estate, riusciranno a lasciarmi i miei abitanti almeno nei fine settimana. Le risposte vagano nell’aria, portate da brezze capricciose. Sì è vero, ogni futuro è incerto, ma perché darsi pena per il domani? Ogni giorno porta con sé il peso della propria inquietudine, inutile affannarsi per quella del domani. Dunque è nell'incertezza che bisogna imparare a muoversi in questa città, tra le mie mura, quasi alla fine di questo secolo breve ma pesante come piombo.
Incertezza di ogni cosa, del lavoro, mutato nelle forme e diventato quasi più una regalia che un diritto. Incertezza di ogni scelta, non c’è nessun tipo di strada che porterà a un lavoro sicuro. Incertezza delle cose chiuse su se stesse e avare dei propri tesori. Ma la certezza è stata un dono beffardo di questo secolo davvero breve, lo spazio di due generazioni e tutto è di nuovo cambiato. Nessun timore per chi nell’incertezza è nato, paura per chi aveva la solida certa tristezza delle otto ore in fabbrica o in ufficio e una casa in periferia. Ora l’unica certezza è questo costante mutamento e un senso di impotenza difficile da controllare. In molti non si arrendono, nonostante la fatica, ancora in molti non volgono lo sguardo di fronte al portatore di lontananze che viene con la sua pelle scura e mercanzie, feticcio dell’inutilità di questa società alla fine del tempo. Aprile sembra tinteggiare con colori, acquatici e ariosi a un tempo, questi tristi abitanti che stiamo imparando a conoscere. Ecco, ora possono tirare il respiro fino in fondo e gioire dell’aria di nuovo luminosa, del sollievo che porta con sé il sole tiepido, della sensazione di tregua. Sì, l’inverno è proprio finito, camminano di nuovo aggiustando il loro passo a quello della primavera, camminano come gemelli, con la loro ombra che gli scivola accanto e gioca sui muri di pietra, muri comunque più teneri di quelli invisibili che tengono in scacco me e tutti i miei abitanti. Ma nella furia dell’andare attraversando i Navigli con passo di speranza, vedendo l’acqua sparire sotto l’asfalto compatto, ecco un’evidenza talmente grande che non l’abbiamo veduta mai. Guardatemi, io non ho un fiume, ecco perché le case soffrono, ecco perché gli abitanti si trascinano anziché camminare. Un fiume intorno al quale io fossi cresciuta nei secoli, un fiume sul quale far scivolare i pensieri tristi e quelli cattivi, un fiume che portasse con sé echi di montagne poco distanti e desideri di acque aperte da raggiungere solo facendosi trasportare. Una città nel mezzo della pianura e due mari tra cui scegliere.
Quello della parte orientale avvezzo ai mercanti dalla pelle più scura, ai turchi, ai barbari delle steppe. L’altro, quello d’occidente, aperto sulle bocche di cantori di tempi passati e naviganti genovesi, lingue salate e parole d’azzurro portate dal vento. Ma nell’incertezza, lo confesso, ho scelto la rinuncia, nessun fiume, nessun mare. È vero, si sono pentiti subito i loro antenati. Così hanno scavato per portare in città l’acqua di un fiume minore che scende verso il mare
d’oriente. Un fiume inventato è sempre meglio di nessun fiume. Pietra su pietra hanno costruito il Duomo, troppo orgogliosi per portare pazienza e riconoscenza ai maestri venuti da fuori. L’unica sapienza dei milanesi sembra essere quella delle mani: la città del fare. Dunque terra di artigiani, quando il fiume inventato è sembrato superfluo, niente di meglio che chiuderlo, coprirlo, soffocarlo e farne strade circolari, concentriche all’unico nucleo della città che è il Duomo. Ma un fiume, seppure finto non si lascia cancellare. Ora è un fiume fantasma, ma nelle profondità sconosciute del suo letto d’argilla, scorre tutt’altro che pacificato. Ulula l’asfalto, a volte ne abbiamo l’impressione, ma è il fiume a gridare sotto di esso. Barconi fantasma si aggirano con i loro carichi di sabbia mai consegnati, marinai stanno al timone, insensibili al buio e alla mancanza di una mèta. In superficie gradini di pietra, che scendevano nell’acqua, si perdono sul selciato, fontane giacciono dimenticate in magazzini polverosi o decorano giardini di amici degli amici. Ponti da fiaba si sporgono sul niente, sirene fuori luogo cercano l’acqua ma trovano solo prati. Una chiusa divide l’aria dall’aria, ma se si tende l’orecchio si sente ancora il fiume inseguire se stesso tra le fondamenta della case, nei sotterranei della metropolitana. Questo fiume avrà la sua vendetta, giorno dopo giorno la falda acquifera sale. Le fabbriche delle periferie sono chiuse, nessuno utilizza l’acqua, così cantine si trasformano in acquari, giardini in piccole paludi. Un giorno tutti i pianterreni saranno impraticabili e gli abitanti, ancora ciechi e sordi, si limiteranno ad abitare solo dal primo piano in su. Cammineranno nell’acqua e nemmeno se ne accorgeranno. I fantasmi sguazzeranno così senza più timore di essere scacciati. L’acqua continuerà a salire e annegheremo nella nostra indifferenza, io sarò presto dimenticata perché dimenticabile. Qualche bambino chiederà a una nonna un po’ svagata di raccontare ancora la storia della città fantasma e la nonna inizierà a inventare: - Dicono che un tempo, dove ora c’è questo grande lago, sorgesse una città dove di giorno vivevano e lavoravano milioni di persone. Ma dato che erano abituati solo a lavorare, il dio del fiume che scorreva sotto la terra, decise di punire la loro mancanza di giocosità e allegria facendo sprofondare la città nelle sue acque oscure. Ma nessuno se ne accorse, perché quegli abitanti pensavano solo alle scadenze, ai piani da rispettare e agli obiettivi da raggiungere. Così perirono tutti, e neppure se accorsero morti lo erano già in vita e nessuno li pianse, perché nessuno aveva gioito del loro passaggio sulla terra. Erano davvero creature un poco strane gli abitanti della città sottomarina. Nei giorni di bel tempo, se guardi proprio al centro del lago, puoi vedere un bagliore d’oro. È la dea che vegliava sulla
città che cerca di raggiungere la superficie ma, come tutti gli altri, è condannata a lavorare nell’acqua scura fino alla fine del tempo. Sulle rive di quel lago i bambini raccoglieranno oggetti dall’uso perduto, un campanello, una stilografica dalla cima bianca, lo schermo di una televisione, una spilla di metallo dalla quale un uomo sorride con un sorriso dai troppi denti. Giocheranno un poco con quei tesori sconosciuti, ma li getteranno nel lago prima che a qualche adulto venga la voglia di scoprire se davvero ci sono rovine nei fondali profondissimi.
Meglio giocare e chiedere alla nonna di raccontare di nuovo la storia della città senz’anima che, a causa della sua tristezza, era stata punita dagli dèi. Ora la pioggia ricomincia a scendere leggera, il futuro possibile si ripiega su se stesso ed è solo primavera e silenzio, tra le mie braccia pacificate, almeno per un poco. Caterina non è chiusa nel suo ufficio a lavorare,
in molti la cercano, in molti la pensano, vorrebbero sapere dov’è. Ma lei gira quasi di nascosto a cercare le tracce del fiume che non c’è. Segna su una mappa i gradini delle darsene, immagina barche scivolare lungo le strade, decide di andare a trovare Nino, un collega che la corteggia e che ha la passione delle mappe antiche. Vuole chiedergli consiglio, vuole condividere con lui questa piccola, segreta passione. Dai Bastioni scende verso la chiusa di San Marco, infila il portone e si ferma in portineria a chiedere il piano, sale le scale. Io la precedo, sono già nella casa dove lei sta per arrivare.

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