Una città è un sogno di cemento e pietra sognato da centinaia di anni: io sono il sogno.
Una generazione dopo l’altra il mio corpo è stato costruito da un passaggio di pietre e mattoni, desideri e speranze che hanno giustificato ogni esistenza.
Le strade hanno cambiato direzione cercando, per prime, vie di fuga che io non ho avuto mai. Dalla terra battuta, ai ciottoli di fiume, ai cubetti di porfido, al comodo asfalto che tutto copre e tutto cela, la mia pelle è mutata nei secoli. Così che tutto si è stratificato e questo è l’unico dono che il tempo mi ha concesso. Ma non è possibile per chi mi abita ora scavare tra queste mura cercando radici che affondano altrove.
Lingue si sono mescolate a lingue negli ultimi cinquanta anni ed è vero che solo pochi anziani si ostinano a parlare la mie parole antiche. E non è solo la lingua ad allontanarli uno dall’altro. Non si incontrano mai davvero gli abitanti di Milano, i miei abitanti. Affondano i piedi nell’asfalto, sciamano dentro e fuori fabbriche e uffici senza mai sapere dove sono e quel che stanno facendo. Si chiederanno mai chi sono? Io non smetto di chiedermelo, li osservo, li racconto, li immagino muoversi su un grande palcoscenico, tra le mie braccia, li avvicino e cerco di capire: ma sono così annoiati! Eppure eravamo pronti a una vita nuova nel dopoguerra e giù fino agli anni sessanta. Questa tardiva adolescenza non mi ha portato a una vera maturità. Lo so, la mia fragile facciata di città cosmopolita tiene grazie alle illusioni, è come una magia, è solo un gioco. Perché siamo implosi io e i miei abitanti, tutti aspettiamo un risveglio, una fiamma nuova. Accadrà qualcosa alla fine? Oggi mi sento come una bella addormentata che, nell’attesa del principe, ha perduto ogni attrattiva. A volte credo sia colpa della mancanza di vento, perché quando il vento scende dalle montagne come un lupo, tutto si scompiglia e diventa evidente. Scuoto il setaccio dei tetti e vedo attraverso i muri come vivono queste mie creature. Perché quando una città sbaglia a radicarsi, accadono eventi colmi di misteri per strada e nessuno può perdere nulla perché si è perso il poeta, mi sono persa io pure dentro tutto quel vento e mi sono lasciata parlare. Oggi è una giornata di tale silenzio che voglio raccontare io anche se ancora non ho deciso se iniziare dai cortili o dai balconi a dirvi queste vite.
Scelgo di portare un respiro diverso tra l’ansia dei balconi. Non si ritrovano i nidi abbandonati dell’anno prima, niente rifugi tra il muro di mattoni e le auto parcheggiate, questa è la sfida: declinare con sapienza il mio cielo immobile, quando immobile è soprattutto il pensiero. Non hanno sguardo i portoni, non scocca mai l’ora meridiana, l’ora di rimpiazzo tra il desiderio e il sonno. Qui lavoro un giorno dopo l’altro, porto il cesto mai colmo, la pagina mai piena. Io sono assenza e forse un’illusione, non lascio impronte, spezzo il ghiaccio coi denti, nella notte scrivo di pensieri mai pensati. O forse vi dirò dei cortili, del silenzio ineguagliabile dei miei cortili dove è necessario intrufolarsi e sedersi a guardare e ad ascoltare. Quel che non vi dirò per le strade, lo sussurrerò nella quiete di un androne. Niente è più silenzioso di un cortile d’inverno nel mese più freddo e più lungo. Non una poesia per l'anno nuovo e neppure un vero saluto. È solo un’abitudine iniziare da gennaio, solo un vecchio rito.
Non ho scelto la mia veste di prigione, le celle le hanno costruite altri, complice il cielo, acuminato e grigio, complice la tristezza di chi cerca senso dove invece è il vento a portare la ragione.
Sognano ancora i miei abitanti? E io come divento sognata da loro? A qualcuno ogni tanto lo chiedo, nei modi oscuri che hanno le città di rivelarsi. Ogni tanto mi accompagno a uno di loro e lo seguo, mi piace raccontare le loro storie ai miei vecchi palazzi che non si muovono mai.
2 settimane fa
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