venerdì 27 maggio 2011

Dicembre, Vicolo dei Lavandai

Arriva con sapore di nebbia e luce indecisa. Come riconoscere una nuova stagione, un nuovo mese in una città abitata da palazzi e strade? Guardare gli alberi a volte serve. Ci sono alberi inaspettati nelle mie strade, qualcuno dice ci siano anche aceri canadesi e magnolie giapponesi. La nudità dei rami è un buon indizio di stagione invernale. Gli alberi sono neri e si protendono verso il cielo come invocazioni. Ma questi segnali della natura passano inosservati.
Le stagioni a Milano si riconoscono dalle vetrine dei negozi, dalle verdure esposte sui banconi dei mercati rionali. Dicembre è forse il mese più facile da intuire. File di luci natalizie vengono sulle strade principali, anche se, a dire il vero, ora l’usanza arriva sino alle periferie più lontane. Archi di luce, girandole di luce, pioggia di luce. I negozi lussuosi del centro si vestono
di fiocchi e nastri dorati, babbi natale smagriti distribuiscono depliant, grandi magazzini in stile New England, danno un assaggio di natali bostoniani. Impossibile resistere, non importa quel che si pensi del Natale, del consumismo, dei rituali di fine anno. Il traffico si fa ogni giorno più congestionato, inutili réclame quelle dell’ATM. Nelle vetrine delle pasticcerie è facile capire il mese. Ci sono veneziane e panettoni avvolti in carta d’oro, centri tavola con rami di pino, noci, candele e cioccolatini, lussuosi pacchi natalizi che non restano invenduti. Ma più di ogni cosa sono belle le luci. Andare sul Naviglio e guardare gli archi di luce tesi da una riva all’altra, poi salire sul ponte di pietra rotondo all’angolo tra l’Alzaia e Via Corsico a guardare le piste di luce
che si perdono verso le periferie e le case che, nel riverbero, sembrano fondali dipinti. Se poi piove le gocce d’acqua si moltiplicheranno l’una nell’altra e non ci saranno che gocce di splendore. Il tempo smetterà di esistere, anche se non sarà come essere tornati bambini,
perché i bambini non sognano se stessi fermi sul ponte di pietra, incantati dalla luce.
Una bambina correva di nascosto da una parte all’altra del ponte negli anni sessanta e andava a vedere le lavandaie che ancora lavavano sulle pietre del vicolo un po’ più indietro. Oppure andava con il nonno fino all’edicola che sembra una pagoda cinese proprio in cima alla strada e poi dal tabacchino a comprare cinque sigarette sfuse e un toscano. Oggi camminando in dicembre per le mie strade, si possono incrociare cortei del Leonka mischiati con la folla pre-natalizia e file serrate di carabinieri che pare giochino alla guerra. Si può vedere in Via Mazzini un uomo arrivare alla fermata del 24, sedersi su un panettone di cemento, estrarre una chitarra dalla sua custodia e iniziare a cantare. Una canzone senza parole e senza voce, con la chitarra che ha due sole corde ed è stonata più di lui. Accanto al Duomo ci sono ancora gli zampognari in dicembre, che forse sono gli stessi da trent’anni, sono piccoli di statura e hanno il viso segnato e consunto come gli abiti blu da metalmeccanico che indossano. Quest’anno c’era una donna anziana che ha iniziato a ballare da sola al suono delle zampogne. Un gruppo di ragazzotti si prendeva gioco del suo impegno. Ma lei non sembrava accorgersene. Anzi, più questi ridevano e la scimmiottavano, più lei seguiva quel ritmo d’infanzia che le aveva preso le gambe. Sino ad arrivare poi di fronte agli imbecilli e a costringere il più scatenato
ad accompagnarla nel suo ballo solitario, indifferente alle risate, ai flash delle macchine fotografiche e delle videocamere degli immancabili giapponesi natalizi. Mentre la signora balla, dimentica degli sguardi della folla, qualche bancario in libera uscita cammina rapido e neppure si ferma a guardare i caricaturisti fermi sotto i portici. Proprio di fronte alla Rinascente, sotto un cielo artificiale blu, punteggiato di stelle e pianeti d’oro, un pittore dallo sguardo allucinato stende con le dita tempera rossa su una tela già dipinta. In fondo alla piazza, dei ragazzini giocano a tiro a segno con i delfini d’oro e plastica appesi all’Arengario. Un uomo con il cappotto nero attraversa la galleria, guarda le vetrine dei negozi di libri e separa imperioso gruppi di turisti intenti a fotografarsi in Piazza della Scala. Stranieri stanno seduti ai tavolini con grossi fornelli a gas, come funghi troppo cresciuti, a tenergli calore. Poi d’improvviso il cielo si ammanta di uno strano colore bianco e arancio. Sta per nevicare. I lettori di tarocchi di Via Fiori Oscuri smontano i tavolini, i senegalesi raccolgono le borse firmate nei loro sacchi di tela
e i coreani vendono comunque accendini senza fiamma e foulard di seta. Tutti camminano intenti e sembra sempre sappiano dove stanno andando. Poter seguire un passante, fermarlo e chiedergli: dove vai? Chi sei? Forse chiederlo all’uomo con il cappotto nero e al pittore che ormai ha anche il viso dipinto di rosso. Poi fermarsi a respirare nell’aria l’odore di castagne arrosto e di croccante, mentre i bambini si fanno trascinare da madri indifferenti alle proteste e ai piedi puntati. Ma basta pazientare sino a Natale, poi l’attesa si sgonfia come un palloncino e tutto tace. L’uomo con il cappotto nero è svanito nella folla, ora nevica, la signora che ballava, stringe tra le braccia un nuovo nipotino. Ci si può persino innamorare in dicembre, e sarebbe
bello perché gli amori nati d’inverno spandono il loro calore più a lungo negli anni.
D’inverno ti innamori degli occhi di una donna, delle sue mani, della sua bocca, il corpo è nascosto sotto i vestiti pesanti. Puoi fantasticare del momento in cui la spoglierai, puoi fantasticare del momento i cui sentirai le mani di lei, un po’ fredde, sulla pelle nuda. E intanto parlare dei propri ricordi di bambini di città, cresciuti con i piedi sull’asfalto anziché sulla terra nuda e sui prati. Scoprire di amare ancora le vecchie canzoni di Fabrizio De André e non vergognarsi di saperle a memoria. Ricordarsi le manifestazioni del ‘77, non ancora abbastanza
grandi per fare un vero casino, o essere vecchi abbastanza per avere fatto quelle del ‘68 e scoprire di avere partecipato alla stessa occupazione di Scienze Politiche. Rimpiangere quando i Navigli non li conosceva ancora nessuno, rimpiangere la cineteca di Via San Marco, l’Obraz, il Rubino. E il locale Ai Tre Morsi, quando c’era ancora il vecchio zio a fare i panini e li
riempiva come salsicce. Poi trovare tra i ricordi e i rimpianti di giovinezze quasi finite, un filo comune che liberi il presente da queste dolci malinconie e il futuro nello slancio di ogni amore nuovo. Camminare nel freddo, mano nella mano, con il fiato che sembra un fumetto, questa è una poesia per l’anno che finisce.




Elena Petrassi
Frammenti del tredicesimo mese
Atì editore 2007

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