Anche questa voce l'ho scritta per l'Enciclopedia delle donne.
L’esilio
dalla lingua materna, la convinzione che l’esistenza trasposta sulla carta
possa assumere una valenza assoluta, il senso di perdita continuo, il desiderio
feroce di sopravvivere a qualunque costo, uno sguardo implacabile che non cede
mai al sentimentalismo, al buonismo, alla riconciliazione, ma che sempre
accetta di guardare la vita nel suo male e la sfida nel volerla descrivere cosi
com’è. Sono i temi chiave della vita e dei libri di Agota Kristof, scrittrice
contemporanea tra le più ispide e sgradevoli. I luoghi si presentano come
quinte teatrali, sono miseri, claustrofobici, perduti. I personaggi sono le
marionette chiamate a riempire con le loro azioni questi scenari e non sono
connotati tanto dall’aspetto fisico, sempre descritto con crudele precisione,
né da una dimensione psicologica che ce li renda vivi: sono sempre le azioni
compiute a dire chi essi siano. Se sentimenti mostrano non sono mai sentimenti
buoni ma sempre negativi: l’avarizia, la crudeltà, il tradimento, la
disperazione, la codardia, il sadismo. Scrive nel suo libro autobiografico L’analfabeta:
«All’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti,
i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non
avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano
potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe
dovuto farlo? Per quale motivo?». La bambina Agota legge, come una malattia,
qualunque cosa le capiti sotto mano. Il mondo è diviso tra la cucina della
madre, con i suoi odori di cibo e umanità, e la scuola del padre che odora di
gesso e di libri. Questa infanzia contadina, povera ma felice ci viene resa con
la sua semplicità e normalità. La fine di questo mondo coincide con il primo
esilio dalla vita di campagna alla vita di città in un collegio. «La voglia di
scrivere verrà più tardi, quando si sarà rotto il filo d’argento dell’infanzia,
quando verranno giorni cattivi, e arriveranno gli anni che potrei definire “non
amati”. Quando separata dai miei genitori e dai miei fratelli, entrerò in
collegio in una città sconosciuta, dove, per sopportare il dolore della
separazione, non mi resterà che una soluzione: scrivere». La vita nel collegio
è una pena, meglio allora scrivere un diario in una scrittura segreta perché
nessuno possa leggerlo. Alla scrittura si alterna un pianto lungo e senza
consolazione, al punto che la scrittrice dichiarerà che per il resto della sua
vita piangere le risulterà pressoché impossibile, come se in quegli anni avesse
esaurito tutte le lacrime. Piange per la libertà e l’infanzia perdute, per le
cose svanite «le corse a piedi nudi per il bosco sulla terra umida fino alla
“roccia blu”; svaniti gli alberi su cui arrampicarsi, da cui cadere quando un
ramo marcio si rompe; svanito anche Yano che mi aiuta a rialzarmi; svanite le
passeggiate notturne sui tetti; svanito Tila che va a fare la spia da mamma».
Le prime composizioni poetiche di Agota sono frasi nella notte che le girano
attorno bisbigliando e poi prendono un ritmo, cantano. Fuggita in Svizzera con
il marito e una neonata legata sulla schiena nel 1956, a seguito dell’invasione
dell’Ungheria da parte dei sovietici, la Kristof si trova ad affrontare la
sfida con una nuova lingua che questa volta, dopo il tedesco e il russo, è il
francese: «Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma
ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo
che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa
ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è
un’altra di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia
lingua materna». Attraversando il deserto della lingua senza poter leggere
quasi nulla per 5 anni, lavorando come operaia in una fabbrica di orologi, è
con la scrittura che la giovane Agota trova il suo riscatto. «Come si diventa
scrittori? Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna
continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha
l’impressione che non interesserà mai a nessuno. Anche quando i manoscritti si
accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri».
Ricomincia ad andare a scuola a ventisette anni e in due anni soltanto consegue
un primo Certificato di Studi. Ora sa di nuovo leggere e la vita ricomincia a
essere una festa di libri e autori: Hugo, Rousseau, Voltaire, Sartre, Camus,
Michaux, Ponge, Sade e Faulkner, Steinbeck, Hemingway. «Il mondo è pieno di
libri, di libri finalmente comprensibili, anche per me… Non appena padroneggio
un po’ la lettura, mi fisso un altro obiettivo: scrivere in francese… Questa
lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, dalle circostanze.
So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di
nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di
un’analfabeta.»
Agota
Kristof
Csikvánd (Ungheria) 1935 - Neuchatel
(Svizzera) 2011
Fonti,
risorse bibliografiche, siti
A.
Kristof, L’analfabeta. Racconto autobiografico, Casagrande 2005
A.
Kristof, Trilogia della città di K. (che raccoglie i tre
romanzi: Il grande quaderno – La prova – La
terza menzogna), Einaudi 1998
A.
Kristof, Ieri, Einaudi 2002 (la versione cinematografica Brucio
nel vento, è di Silvio Soldini)