giovedì 30 dicembre 2010
Quinta variazione. La stanza
stanza della mia immaginazione
preso tra il fumo verticale e
il perfetto reclinarsi della rosa,
non ti chiedo ascolto ma una nuova
premonizione. Tu che hai scritto
l’ebbrezza della luce nelle ombre di
un mondo a te solo noto, tu che di
queste ombre hai svelato l’affondo
gridandolo alla luce, tu che sei di
quella soglia l’unico custode, torna
a cantare, riprendi la parola e scrivi
per me che nell’ombra di quella stanza
da tempo immemorabile attendo
ogni giorno la tua parola. Eternamente
salirà il fumo della tua sigaretta, mai
la rosa sfiorirà e la pioggia griderà
al vetro la vertigine felice della caduta.
Rendi eterno e vivo quel mondo che
sempre aspetta la tua voce.
Quarta variazione. La rosa
preciso, quello che puoi misurare
contando i passi se solo tu volessi.
Ma la pioggia ti occupa lo sguardo,
i ricordi qui non sono i benvenuti.
La rosa si oppone alla nostalgia,
lei sola conosce il brivido dell’unica
fioritura e mai ha sentito lo scorrere
dell’acqua scivolare tra petalo e
foglia. Ti implora sfiorandoti la mano
perché tu apra la finestra e la
benedizione della pioggia possa così
scompigliare la perfezione. Niente
di ciò che ha fatto è merito della
volontà, piuttosto il salto del desiderio
alle tue porte. Fa’ ciò che devi e
come la rosa sii bellezza per questo
mondo. A lei tocca solo profumare,
suscitare ammirazione, sbocciare.
Più dura è la tua soglia da schiudere
ma nella parola che scrivi tu sei
perfetto come la più magnifica
delle rose.
Terza variazione. Il legno
e invisibili alla nostra convinzione.
Solo ciò che tocchiamo è piega
del reale. Con la mano aperta sul
piano senti ancora la forza del vento
che sferza quel che era ramo e il legno
ti sussurra: non credere mai che le foglie
siano perdute, quel che ho restituito alla
terra dal cielo ritorna a ogni variazione.
È la pioggia che scroscia a rendere
visibile il vetro, è la luce che passa
attraverso a ricordare com’era avere
il sole piegato al mio desiderio, come
si tingeva il folto della radura attraverso
i rami chinati di fronte a questa bellezza.
Scrivi per lei di questa ombra poiché
la luce già le appartiene.
Seconda variazione. La pioggia
il vetro reclama il suo scontento
nel duello insonne di chi nello
spazio non cerca un posto ma
solo il movimento. Il ramo sorregge
la pioggia e canta al ritmo del vetro
immobile che ti protegge dalla vasta
notte della parola. Sono poche le
cose, pochi gli oggetti sul tuo tavolo
inciso di silenzio: la sigaretta accesa
nata per dare vita al fumo, la penna
deposta perché non vuoi che ti
sia spada, la mia rosa che geme ma
non si piega. È vuota la stanza, le
tue spalle sono il rifugio, sono la notte
oscura.
Prima variazione. La finestra
sul mondo ma specchio del passato
che non trova l’alveo dove posare
il capo. L’uomo stringe una penna
come se fosse l’ultima sigaretta e
il fumo del reale piano sfila verso
il vertice del legno dove vetro e
aria si parlano, invisibile contro
invisibile. Nell’esile vaso della
compagnia mancata, quell’unica
rosa resiste alla sfida e non apre
i petali alla fiducia della luce, non
piega la foglia alla tua carezza
trattenuta. Scrive l’uomo, offre
le spalle all’ignoto della stanza
e non parla più di quanto non
possa la pioggia mite che sfida
l’aria e il vetro nel campo visibile
del sogno non compiuto. Perché
fuori piove e l’uomo solo fuma,
non può scrivere, non vuole, non
in quella stanza vuota.
lunedì 29 novembre 2010
La rosa sapiente e profumata
perfetta sull’orlo della sparizione
dove l’ultimo petalo esita a
proclamare la propria fioritura.
È quella la rosa che ha scolpito
il fondo della pupilla, immagine
pietrosa incisa in un occhio
che non sa il fondo perchè
dentro l’abisso vive. Quello
è l’occhio scolpito, quella
vi dico, proprio quella rosa
aulentissima e perfetta, oh
mia mistica visione che a ogni
cosa doni il profilo di una
rosa. Quella rosa, quella
non un’altra. Dolorosa,
sapiente e profumata, mai
nata nel maggio odoroso.
Dal mio nuovo libro di poesie Figure del silenzio, la prima poesia
mercoledì 27 ottobre 2010
Il buio senza nome
una foglia di menta tra le
dita e guardare le stelle
staccarsi dalle cime degli
ulivi, sciamare oltre le
querce e occupare il
punto esatto della costellazione
perchè occhi umani possano
dirne il nome vero per placare
l’oscurità che viene. Fuori è la
dispersione, il tronco reciso,
dietro l’angolo della casa
ancora mi aspetta il brivido
senza filiera, l’aratro sul
fianco della selce e il buio,
il buio senza nome.
Dal mio secondo libro Sillabario della Luce, un'altra poesia
giovedì 21 ottobre 2010
Il calvario della rosa
La stessa riva
Siamo rimasti fermi
sulla stessa riva, guardando
direzioni opposte tra la fine
e l’inizio della luce, accecati
intenti, pronti a riconoscere
il calvario della rosa
che fiorirà in novembre.
Questa è la poesia che dà il titolo al mio primo libro
Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004
giovedì 26 agosto 2010
La finzione degli ulivi
alla verità. Nella finzione
degli ulivi non trovo
la ragione di tanta pervicacia
nutriti dalla luce più
che dalla terra sfidano
la nostra resistenza al
tempo. Vedi si sono piegati,
al vento hanno dato il loro
calice di immortalità, hanno
accettato la sfida. Mai
indietreggiano se chiedi
come, come possano nella
deformità dare frutti e
propagare luce pur in
forma diversa. Del loro
segreto non dicono neppure
all’acqua piovana.
Questa poesia è tratta dal mio libro Sillabario della luce
mercoledì 4 agosto 2010
Dopo gli ulivi
Questo è l'incipit del libro Il salto dell'acciuga di Nico Orengo, Einaudi 1997
mercoledì 28 luglio 2010
Mentre si scrive
Si scrive sul fondo di una prigione ideale, a cui si affacciano rari volti amici. Scrivere non è un colloquio, ma un soliloquio. Le ultime pagine di un testo di fantasia si scrivono quasi in ginocchio.
Einaudi 2008
venerdì 16 luglio 2010
Attesa sul mare
Francesco Biamonti
Scritti e parlati
Einaudi 2008
giovedì 15 luglio 2010
Il linguaggio della notte
martedì 13 luglio 2010
I colori, la luce
lunedì 12 luglio 2010
Canto dello spirito della specie
sabato 10 luglio 2010
Ascesa al Monte Ventoso
Prima di iniziare la salita bisogna che la luce passi attraverso gli occhi, sbianchi lo sguardo e ci lasci immemori di chi ci ha preceduto. A Vaison la Romaine l’aria brillava come se una mano feroce avesse passato la mattina a lucidare il cielo. Il mondo riposava in quella luce che chiedeva coraggio, invocava la fatica della salita, il desiderio della cima, lo sguardo che infine poteva librarsi prossimo alle nuvole. L’aria profumava di lavanda, di timo, di sale e di miele. Le api ronzavano incrociando il volo delle rondini, e il vento ci spingeva nel luogo dove lo sguardo diventa acuminato e la luce rivela i suoi segreti. Dopo uno dei tornanti, una stradina laterale, quasi nascosta dagli arbusti, finiva vicino a tre minuscole case dai colori della terra e delle rose. Una porta era aperta e c’era infisso nello stipite un cartello che invitava a entrare. Nella zona d’ombra della stanza una donna giovane con lunghi capelli biondi e ricci, stava dipingendo un vaso fatto a mano. Indossava una tunica di lino color avorio dai complicati ricami in oro. Il tempo si fermò con me a guardarla lavorare. Alle pareti erano appesi quadri che la ritraevano e i colori erano gli stessi celesti e ocra che stava usando per quella decorazione. Non dubitai che anche la mano fosse la stessa. Un cane lupo dormiva nella lama di luce sotto la finestra, il muso appoggiato al fresco pavimento di pietra. La seconda stanza sembrava vuota, ma dal piano superiore un suono di pianoforte irruppe nell’aria, così intenso e improbabile perché era musica di un altro tempo remoto, ma sbagliato. Mi fermai ad ascoltare in silenzio, in un vaso trasparente rose bianche e gialle fiorivano e appassivano sotto i miei occhi.
Quando la musica tacque mi accorsi che la donna e il cane non erano più nella stanza. Uscii ma intorno alla casa non c’era nessuno e le imposte del piano superiore vennero sbarrate. Ripresi la salita senza mai smettere di cercare quelle case a ogni giro, le vidi sino alla fine della strada, sempre più piccole, sempre più simili a un mucchietto di sassi gettati con noncuranza. In cima mi accolse un vento impetuoso, mi inginocchiai per salutarlo e rimasi a guardare l’orizzonte oscillando a ogni folata.
Al ritorno svoltai verso le case perché volevo comprare un quadro. Ma c’erano solo un mucchio di mattoni e pietre e un muro che finiva con una finestra aperta su una stanza invisibile.
venerdì 9 luglio 2010
Il bastone di Virginia Woolf
giovedì 8 luglio 2010
La baia del silenzio
giovedì 17 giugno 2010
Bright Star
Voglio capire perché Mariuccia Ciotta e Quentin Tarantino sono caduti in deliquio. Bastano immagini magnifiche a rendere magnifico un film?
martedì 8 giugno 2010
Complice il vento
Prima riconosco il profumo della pasticceria, uova, zucchero bruciato, farina lievitata.
Subito dopo benzina e olio di motori dal meccanico. Giro il primo angolo e una giovane donna odora di muschio bianco, un profumo persistente che mi accompagna sino alla terza casa della via che sto percorrendo e arrivo alla cancellata ricoperta di gelsomini in fiore. Mi avvicino ai fiori bianchi che conservano ancora l’umidità della notte e strofino il viso. Il profumo è talmente forte che mi sembra di averli mangiati. Felice come un gatto che gioca con l’erba gatta, proseguo il mio cammino. Passo davanti a un bar da cui esce un magnifico aroma di caffè appena fatto ma non faccio in tempo ad assaporarlo che dal forno del prestinaio si diffonde nell’aria il profumo dei profumi: pane appena sfornato. L’ultimo effluvio che mi cattura è quello del forno a legna della rosticceria. L’odore del legno che brucia nei camini è un anticipo di autunno ma oggi è legna che arde nel focolare di mia nonna e la stagione è la piena estate mediterranea. Così complice il vento, traccio una mappa degli odori di questa città senza mare.
Ma che in me evoca poesia. Quella che segue l’ho scritta nel 2003 ed è tratta dal mio primo libro Il calvario della rosa.
Quasi al fondo della strada mi afferra
il profumo dei gelsomini e il cielo
si allarga di un azzurro improvviso
Questa è la città di pietra che mi sfila
il grano dei giorni e nel buio offre
riparo e sollievo agli assenti
Quindi è il vento portato dai rami
a strapparmi i giornali intonsi e
mi spinge a guardare la casa assopita
Quello del pesce è profumo
della città mediterranea che
si alza nel tempo e divora
le terre, le distanze, i confini.
venerdì 4 giugno 2010
Il cielo sopra Milano
Domenica nel tardo pomeriggio, ho lasciato da poco il Teatro Litta e gli amici che hanno lavorato alla messa in scena del dramma di Amos Kamil “Il venditore di sigari”.
Mi sono incamminata per Corso Magenta, una delle vie che preferisco perché mantiene un’aria di altri tempi che adoro. Il cielo incombe basso sui tetti delle case, all’improvviso non c’è nessuno intorno a me: svaniti i passanti, le auto, il tram che è appena passato sferragliando. È tutto grigio, sto camminando in una foto in bianco e nero, Santa Maria della Grazie spicca contro il colore di cielo e asfalto con i suoi mattoni e la forza delle sue forme. Un profumo di gelsomino invade l’aria e mi inebria, cinque rondini si alzano in volo, il loro stridio fa vibrare il silenzio. Questo è il sogno dell’ultima domenica di maggio. Questa è la perfezione della città immaginata che diventa reale nel passo lento di questa strana primavera.