sabato 10 luglio 2010

Ascesa al Monte Ventoso

 

Prima di iniziare la salita bisogna che la luce passi attraverso gli occhi, sbianchi lo sguardo e ci lasci immemori di chi ci ha preceduto. A Vaison la Romaine l’aria brillava come se una mano feroce avesse passato la mattina a lucidare il cielo. Il mondo riposava in quella luce che chiedeva coraggio, invocava la fatica della salita, il desiderio della cima, lo sguardo che infine poteva librarsi prossimo alle nuvole. L’aria profumava di lavanda, di timo, di sale e di miele. Le api ronzavano incrociando il volo delle rondini, e il vento ci spingeva nel luogo dove lo sguardo diventa acuminato e la luce rivela i suoi segreti. Dopo uno dei tornanti, una stradina laterale, quasi nascosta dagli arbusti, finiva vicino a tre minuscole case dai colori della terra e delle rose. Una porta era aperta e c’era infisso nello stipite un cartello che invitava a entrare. Nella zona d’ombra della stanza una donna giovane con lunghi capelli biondi e ricci, stava dipingendo un vaso fatto a mano. Indossava una tunica di lino color avorio dai complicati ricami in oro. Il tempo si fermò con me a guardarla lavorare. Alle pareti erano appesi quadri che la ritraevano e i colori erano gli stessi celesti e ocra che stava usando per quella decorazione. Non dubitai che anche la mano fosse la stessa. Un cane lupo dormiva nella lama di luce sotto la finestra, il muso appoggiato al fresco pavimento di pietra. La seconda stanza sembrava vuota, ma dal piano superiore un suono di pianoforte irruppe nell’aria, così intenso e improbabile perché era musica di un altro tempo remoto, ma sbagliato. Mi fermai ad ascoltare in silenzio, in un vaso trasparente rose bianche e gialle fiorivano e appassivano sotto i miei occhi.

Quando la musica tacque mi accorsi che la donna e il cane non erano più nella stanza. Uscii ma intorno alla casa non c’era nessuno e le imposte del piano superiore vennero sbarrate. Ripresi la salita senza mai smettere di cercare quelle case a ogni giro, le vidi sino alla fine della strada, sempre più piccole, sempre più simili a un mucchietto di sassi gettati con noncuranza. In cima mi accolse un vento impetuoso, mi inginocchiai per salutarlo e rimasi a guardare l’orizzonte oscillando a ogni folata.

Al ritorno svoltai verso le case perché volevo comprare un quadro. Ma c’erano solo un mucchio di mattoni e pietre e un muro che finiva con una finestra aperta su una stanza invisibile.

Nessun commento: