sabato 25 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/48: la Storia è in noi, anche se non lo sappiamo


Nelle mie famiglie d’origine, dove vissero i miei genitori bambini in Calabria e in Puglia, non c’è una memoria diretta della Resistenza.

Ma io sono nata e cresciuta a Milano e la Storia mi ha raggiunta comunque molto presto in racconti che ho ascoltato a partire dalle scuole elementari. 

Già, la mia scuola è intitolata ai Fratelli Cervi e sin dalla prima elementare ho imparato la loro tragica storia. Poi ci sono state le testimonianze dei partigiani, le commemorazioni, i racconti dei nonni di alcune compagne di scuola.
Il ricordo della guerra era vivido, palpitante, mia madre per tutta la vita ha avuto paura dei nazisti e dei cani-lupo, sentir parlare in tedesco la faceva sussultare.

Io non perdevo un solo film dedicato alla Seconda Guerra Mondiale e leggevo libri presi dalla biblioteca paterna, libri di divulgazione dedicati a Hiroshima, allo sbarco in Normandia, al processo di Norimberga.
Poi alle scuole medie la professoressa Lucia Buratti ci diede da leggere due libri fondamentali della mia vita Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti e L’Agnese va a morire di Renata Viganò. A undici anni ero già femminista e consapevole della forza delle donne.

Ho sempre festeggiato la Liberazione, spesso sono andata alla sfilata del 25 Aprile, che qui a Milano è un momento di grande forza collettiva.

Oggi ho cantato Bella ciao come se fossi stata in piazza e mi sono commossa.
Per chiudere questa giornata, la cui icona è il Presidente Mattarella che da solo e con la mascherina visita l’Altare della Patria a Roma, voglio ricordare un partigiano che ho conosciuto in età adulta, Federico Arkel, padre dello scrittore Dario che così ne scrive nel romanzo Compendio.

“Alla parete la stampa del Quarto Stato e la vecchia fotografia del suo distaccamento partigiano, lui con i capelli lunghi e lo sten a tracolla. Si rigirava nervoso e sudato sulla sedia non troppo comoda, la macchina da scrivere con il foglio inserito sul quale spiccava la frase non dimenticare mai. Era a corto di ispirazione. Si accese una sigaretta e si mise a guardare svagatamene oltre il rettangolo della finestra. La sua vista che ancora l’anno precedente coglieva ben oltre l’ippocastano e le coppiette sulla panchina, ora inquadrava solo un’imprecisa macchia di colore. Stava invecchiando. Emise un sospiro e tornò a riflettere sul testo da comporre (…)

Poi il mio vecchio raccontò l’episodio di un partigiano morto e riportato al paese su un carretto tirato da un mulo.
“Seguivamo il carro sul quale stava la bara, una specie di cassa di semplici travi di legno. Eravamo una ventina. Raggiunto un paesino in festa per la Liberazione, il conducente si fermò. Delle ragazze vennero da noi e ci presero per mano. Dapprima titubanti, poi sempre più convinti, ci lasciammo trascinare nella mischia dei balli. Le ragazze erano piene di vita, e l’orchestrina impazzava con la fisarmonica. I balli divennero sempre più coinvolgenti e sfrenati. A un certo punto il mulo si spaventò e si drizzò sulle zampe posteriori. La cassa scivolò giù, senza che nessuno ci badasse. Quando, più tardi, avremmo dovuto riprendere il cammino, trovammo il nostro compagno steso a terra, il fazzoletto tricolore al collo e il corpo avvolto nella bandiera rossa. Ridevamo ancora, accaldati per le danze. Fu come un rintocco macabro, un ritorno alla realtà, eh… sì, anche di queste storie, siamo fatti…”.

“Non fa ridere” disse lo zio “non è buona cosa trattare così i morti”. “I morti sono morti. Se si fosse potuto risvegliare, il compagno avrebbe ballato con noi”. “Sì, la danza macabra!” scherzò lo zio, un po’ tirato. “Ma immaginati la scena. Un contrasto tra vita e morte, l’epitaffio più gradito che si possa ottenere” fece mio padre. “Va bene” dissi a mia volta “certe cose ci possono anche stare, in fondo non è successo niente di male. Partigiani che si divertono a guerra finita e un morto presente, come dire, un non-morto, un testimone, un monito che pare sostenere: badate che non c’è solo la vita, anche la morte fa parte dell’esistenza”.

Il congedo di questa sera è doppio, la musica di Ernest Bloch Schelomo: Rhapsodie Hébraïque e la poesia che ho scritto per il partigiano Arkel quando è morto nel novembre del 2010.

Riposa nelle nuvole
a Federico Arkel, partigiano

Ho conosciuto solo il tuo
volto vecchio, la voce incrinata
e il passo malfermo.
Ora il bambino, quel
“lui era un picchiatore”
sta tutto nella tua memoria
e la morte della madre
si è ripetuta in una giornata
di gelo e malattia.
Ma io posso vederti combattere
a diciotto anni e con il tuo
coraggio aprire il futuro
all'uomo che hai generato
e che è maestro di ogni
storia. Lui scrive e tu
sarai sempre lo specchio sicuro
il braccio saldo che tiene
lontana ogni paura.
Ora vivi nelle sue parole
eterno, lui scrive come
respira e continuerà a
sussurrare storie al tuo
orecchio. Riposa nelle
nuvole vecchio combattente
di certo hai amato come hai
solcato il secolo breve
e mai sei tornato indietro.
Anche noi ricorderemo.

Elena Petrassi
Scrivere il vento
Atì editore 2016

venerdì 24 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/47: il settimo sogno, tre poeti (almeno) e due lupi


È marzo, un marzo ancora invernale, il passo della primavera non ha ancora preso il sopravvento sulle ultime battaglie del generale inverno.
Rainer, il primo poeta non godeva di una grande salute, già da qualche anno viveva nel Canton du Valais, in Svizzera, in un paesaggio che ricordava i paesaggi della Spagna e della Provenza, in un piccolo castello del tredicesimo secolo nei pressi di Sierre, in completa solitudine, occupato solo dal suo lavoro e dalle rose del suo giardino. Di tanto in tanto, quando l’eccessiva solitudine minacciava di travolgere le sue forze vitali e diventava pericolosa, partiva per Parigi o per l’Italia.

Anche l’altro uomo era un poeta, figlio di pittore: Boris figlio di Leonid, stava attraversando una fase di grande crisi creativa dominata dall'ansia e dall'insoddisfazione per la vita moscovita. Una lettera di Rainer a Leonid dove gli fa i complimenti per i versi di Boris tradotti in francese da Paul Valéry, rassicura padre e figlio che Rainer, benché seriamente ammalato è ancora in vita. Per un caso del destino nello stesso periodo gli accadde di leggere il Poema della fine di Marina Cvetaeva, considerato uno dei vertici della poetessa, questi versi gli confermarono che nel mondo esisteva un’altra artista la cui ricerca era consonante alla sua ricerca, che esisteva ancora in concreto la possibilità di una feconda esistenza creativa.

Alcuni anni più tardi, dopo la morte sia di Rainer che di Marina, Boris scrisse alla figlia di lei Ariadna: “Per alcuni anni tutto ciò che scriveva vostra madre, la limpida ed esaltante risonanza della sua prorompente spiritualità, mi ha tenuto in uno stato di ininterrotta, beata euforia”.

Già alla fine di quel mese Boris ha inviato numerose lettere a Marina, forte di quella coincidenza, la lettera di Rilke, il poema di lei, che egli vedeva come un dono del destino, ed è proprio ragionando di destino che lui le scrive una prima appassionata lettera.

“Finalmente sono con te. Siccome mi è tutto chiaro, e io credo nel destino, potrei anche tacere, lasciando fare tutto a lui, così vertiginosamente immeritato, così devoto. Ma proprio in questo pensiero c’è tanto sentimento nei tuoi confronti, se non tutto il sentimento, che esso non può esprimere. Sei così meravigliosa, così sorella, così sorella mia la vita, mi sei stata mandata direttamente dal cielo, coincidi con il limite estremo della mia anima. Sei mia e sei sempre stata mia, e tutta la mia vita è per te… Sto seduto e leggo come se tu mi vedessi, e ti amo e voglio che anche tu mi ami… che grande artista sei, che artista diabolicamente grande Marina!”.

Come in una sinfonia, dove gli strumenti entrano uno alla volta, ecco che questa tessitura di parole e poesia inizia a delinearsi. Il direttore d’orchestra è già Boris anche se ancora non lo sa. La loro corrispondenza è già iniziata da qualche tempo negli anni 1923-1924 ma fino all'inserzione di Rilke nelle loro vite, l’intensità di Boris non esplode.

“Ed ecco che all'improvviso ci sei tu, non creata da me, ma suggerita in me fin dalla nascita di ogni brivido – in modo esagerato, cioè in tutta la statura del corpo. Che tu sei terribilmente mia e non sei stata creata da me – ecco il nome del mio sentimento”.
Nella lettera del 27 marzo così prosegue Boris:

“Tu sei oggettiva, e soprattutto hai talento – sei geniale… Un giorno te lo diranno o forse no. Ma è lo stesso: non una problematica tassa negativa, ma la positiva arcanicità della parola è sospesa sopra di te come un tetto d’aria dal cui modello, un anno dopo l’altro, tu vai deducendo la fisica della tua poesia. Importante è quello che fai. Importante è che tu costruisci il mondo, che si sposa con il mistero della genialità. Nei tuoi giorni, tu viva, questo tetto si scioglie e confonde con il cielo, nel vivo azzurro che sovrasta la città in cui tu vivi o quella che tu immagini scrivendo la tua fisica. In altri tempi su questo involucro camminerà la gente, esso sarà il suolo di altre epoche”.

Siamo solo all'inizio di un anno straordinario che vedrà lo scambio epistolare infittirsi e poi perdere uno dei raggi di questa stella, perché alla fine del 1926 Rilke morirà.

Cosa possono dire a noi contemporanei, noi che siamo quelli che camminiamo sul suolo di altre epoche queste parole?

Forse, prima di tutto, che per risuonare uno nell'anima dell’altro non abbiamo bisogno di avere incontrato la persona cui dedichiamo i nostri pensieri e i nostri scritti, la persona le cui parole ci fanno vibrare come aria felice. O forse basterebbe averla incontrata anche poche volte nella vita che poi, per i più diversi motivi, ci ha separati.

Ma in quest’anno senza Carnevale è proprio la dimensione della distanza e dell’immaginazione che voglio esplorare.

Per chi sto scrivendo? Per chi voi state leggendo?

Anche la lettura, come la scrittura, porta in sé uno o più destinatari, con cui saremo felici di condividere le nostre scoperte, le emozioni, le riflessioni, lo sguardo del poeta, il ritmo della poetessa.

Poesia è anche tessere in lontananza gli stessi versi, leggersi a bassa voce, leggersi anche solo nella mente.

Un legame è nato, un legame più forte anche di un incontro fisico come primo passo di una reciproca conoscenza, un legame è nato perché esisteva già nel tempo e nei secoli, un incontro fra due anime, due cuori, due spiriti.
Gli eventi della vita possono spezzare un dialogo fitto che già tesseva senso e bellezza, possono impedire la fisicità di un incontro che può dare volto e voce all'altro che ci ascolta, ma questa non è la dimensione più importante.
Ricordate i versi di Pedro Salinas “Non ho bisogno di tempo / per sapere come sei: /conoscersi è luce improvvisa”?

Rilke, Pasternak e Cvetaeva dal loro anno inciso nel flusso del tempo ci stanno dicendo proprio questo.
Marina, con la drammatica vitalità della sua poesia aveva già scritto il 10 luglio 1918 dei versi che in qualche modo profetizzavano l’incontro con gli altri due poeti.


Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.


Leggo ad alta voce questa poesia, lo faccio sempre anche con le mie, so che quando provo stupore e mi chiedo chi abbia scritto quei versi, di avere scritto qualcosa di buono e di bello.

I versi di Marina mi colpiscono con la stessa forza della prima lettura che risale a diversi decenni fa. Sono anch'io intessuta di tempo e di stelle.
Lo dico ai lupi che se ne stanno accucciati accanto al camino immaginario della mia brughiera.

Loro alzano la testa, fiutano l’aria, pare che sorridano e io sento le voci, le loro voci che mi sussurrano “Continua, continua per chi sta nel tuo mondo reale e anche per chi come noi, solo nel tuo mondo immaginario”.
Non siamo mai soli, anche se a volte crediamo di esserlo, la poesia è la nostra estrema consolazione, un dono che attraversa e varca il tempo e lo spazio, che spalanca i cancelli dell’Eternità.

Dalla mia riva io continuo a guardare e scrivo nella luce calante queste nuove parole.

I tre poeti torneranno, la loro storia si dipanerà, lo sanno anche i lupi che già la conoscono, lo so anch'io che mi accingo a scrivere il seguito di questa Cronaca, per un altro giorno non ancora vissuto, per un altro giorno già desiderato.


*I libri che hanno accompagnato questa Cronaca sono le  Poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Pietro Zveteremich per Feltrinelli nel 1979; Il settimo sogno. Lettere 1926 di Cvetaeva, Pasternak e Rilke. A cura di Serena Vitale, Editori Riuniti 1980

giovedì 23 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/46: sotto le nuvole e i venti, di tutto è rimasto un poco


Tutti prima o poi torniamo a cercare nella memoria immagini del passato, episodi, volti e voci che ci aiutino a ricostruire e a dare un senso alla nostra storia, al nostro passaggio su questa terra.

Nella bizzarra tessitura che sono le mie Cronache dall'anno senza Carnevale, sto scorrazzando in compagnia dei lupi avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mescolando ricordi, sogni e immaginazioni.

Immagini e oggetti concreti si mescolano, il mosaico che ne sta venendo fuori ha un grande senso per me e vorrei che fosse il catalizzatore della ricerca di senso per voi che mi state leggendo.

Uno dei luoghi dove sto tornando spesso è la terra natale di mio padre dove ho trascorso le estati dagli uno ai diciotto anni, prima che io scegliessi di fuggire verso la Liguria e poi la Norvegia.

La mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, al cui consumo eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini, ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e con il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. 

Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scriveva Massimo Gramellini in suo articolo di qualche anno fa:

"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia, le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo.
L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'Autostrada del Sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verdi buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, origano, aglio e cipolle rosse di Tropea.

Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre era pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue, anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. 

Ma questa è un'altra storia, una storia dove improvvisamente io, lui e lei ci ritroviamo tutti bambini della stessa età.

Penso alle vacanze perché non sappiamo se l’anno senza Carnevale diventerà anche l’anno senza vacanze estive.

Penso al mondo di prima che non esiste più, al mondo di dopo che è un incubo di mascherine, guanti usa e getta, divisori di plexiglass, un mondo dove si uscirà di casa il lunedì mattina per arrivare al lavoro il mercoledì pomeriggio visto come stanno immaginando la fruibilità dei mezzi pubblici qui a Milano.

Penso al mondo di adesso che è tutto in casa e tutto nei ricordi perché di tutto è rimasto un poco.

La poesia del congedo me l’ha letta in un pomeriggio piovoso di oltre trenta anni fa il mio amico Mimmo che mi ha giusto scritto oggi pomeriggio.

Cosa resterà di questi giorni che saltano dalla cronaca alla storia senza neanche una sosta, una pausa, un’attesa?


Carlos Drummond de Andrade
traduzione di Antonio Tabucchi

Residuo

Di tutto è rimasto un poco,
Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa
è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce
captata nel cappello.
Negli occhi del ruffiano
è restata un po' di tenerezza
(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere
che ti coprì le scarpe
bianche. Pochi panni sono rimasti,
pochi veli rotti,
poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.
Del ponte bombardato,
delle due foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.
È rimasto un po' del tuo mento
nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio
un poco è rimasto, un poco
sui muri infastiditi,
nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto
nel piattino di porcellana,
drago rotto, fiore bianco,
di rughe sulla tua fronte,
ritratto.

Se di tutto resta un poco,
perché mai non dovrebbe restare
un po' di me? Nel treno
che porta a nord, nella nave,
negli annunci di giornale,
un po' di me a Londra,
un po' di me in qualche dove?
nella consonante?
nel pozzo?

Un poco resta oscillando
alla foce dei fiumi
e i pesci non lo evitano,
un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.
Non molto: da un rubinetto
stilla questa goccia assurda,
metà sale e metà alcool,
salta questa zampa di rana,
questo vetro di orologio
rotto in mille speranze,
questo collo di cigno,
questo segreto infantile...
Di ogni cosa è rimasto un poco:
di me; di te; di Abelardo.
Un capello sulla mia manica,
di tutto è rimasto un poco;
vento nelle mie orecchie,
rutto volgare, gemito
di viscere ribelli,
e minuscoli artefatti:
campanula, alveolo, capsula
di revolver... di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco.
E di tutto resta un poco.
Oh, apri i flaconi di profumo
e soffoca
l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,
e sotto le onde ritmate,
e sotto le nuvole e i venti
e sotto i ponti e sotto i tunnel
e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il muco e sotto il vomito
e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre un poco di tutto.
A volte un bottone. A volte un topo.

mercoledì 22 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/45: un cielo fatto di cieli


Mi fermo a prendere fiato, il sentiero è ancora in salita, il bosco di conifere è ancora fitto intorno a noi. I lupi mi aspettano poco più avanti, non sono stanchi, non hanno paura, nemmeno io ho paura quando siamo insieme.

Riprendiamo il cammino, il bosco finisce, si apre un prato immenso davanti a noi, vedo un ruscello i lupi corrono a bere, li seguo con il mio passo che non sente più la fatica.

Sono sullo stesso sentiero ma è inverno, la pelliccia dei lupi è quasi bianca, sempre mi precedono e mi aspettano se rallento. La cascata è una fontana di ghiaccio che scintilla al sole come tutta la neve intorno. Sono accecata da tutto quel biancore, mi proteggo gli occhi, respiro, la luce entra in me e si ferma, mi pulisce i polmoni, com'è fredda quest’aria, com'è scintillante la vita che dorme sotto la coltre di neve.

I prati estivi verdi e assolati si confondono con quelli invernali, i colori prevalenti sono due, i lupi corrono e giocano, saltano dall'estate all'inverno a loro piacimento, mutano il mantello come se bastasse solo il desiderio a rendere reale il loro gioco amoroso. Questa valle, la Val Zebrù, è un luogo incantato che vive in me in tutte le stagioni dell’anno anche se adesso non posso ritornare, non posso vederla e camminare.

Cammino, di nuovo, con i lupi poco davanti a me. Il bosco è ancora più fitto, i passi si confondono con passi che ancora non sono stati. Cammino nella Foresta Umbra, la foresta cupa, ombrosa nel parco nazionale del Gargano, c’è con me mia cugina Silvana, ci siamo allontanate dalle famiglie che stanno allestendo i tavoli per la scampagnata, non mi interessa tornare indietro, a ogni svolta del sentiero la incito a continuare, non torneremo che dopo diverse ore, dopo che tutti ci stavano cercando. I lupi non mi hanno mai abbandonata, quel sentiero nel bosco è ritornato anni dopo in una poesia

Il poeta seduto

Erano due le bambine,
imboccarono il sentiero
non vollero fermarsi
non si girarono a
nessuna svolta.

Dopo tanti anni
la maggiore ancora
cammina attraverso
la notte, incontro al
poeta seduto
dall'altro lato del
tavolo.

Non sto ferma cammino, il sentiero è tutto in salita, ma il Cirque de Gavarnie abbraccia questo angolo di mondo, questo cielo di Francia, tutto per noi. I lupi sono tornati a casa, fiutano l’aria, giocano e si rotolano nei prati. Io arrivo fino al rifugio di pietra grigia, non c’è nessuno, solo io e i lupi. Mi sdraio tra l’erba, guardo il cielo, un cielo fatto di cieli, tesso insieme questo cielo che guardo e i cieli della Lombardia e della Puglia, come si assomigliano i cieli se li guardi con occhio distratto. Qui l’aria è più fine, respiro, l’aria è verde, mi tonifica, cuce insieme i ritagli di tempo, sono i lupi a dirmi che bisogna tornare.

Cammino tra abeti altissimi siamo sulla montagna di Fagnano Castello in Calabria, Fagnano che forse deriva dall’ebraico hanan, nebbia, nube. Non si capisce infatti se siano nuvole basse o una nebbiolina leggera ad avvolgere il nostro cammino. Arriviamo alla nostra meta, una radura chiamata Occhi di lupo. E i lupi lo sanno di essere a casa, ho diciotto anni da poco, in quella radura li avrò per sempre, i ciclamini selvatici sono rossi come le fragoline di bosco, li vedo quando la nebbia si dirada dispersa dal sole che cerca di farsi strada tra i rami.

La montagna appartiene alla famiglia Antonucci, dei cugini di non so più quale grado, in qualche modo si è tutti imparentati in questo scorcio di mondo, mi sembra impossibile che la montagna o il cielo possano appartenere a qualcuno, loro sono allegri, gentili e cordiali, il cibo e il vino vengono disposti su larghe tovaglie nel prato, è una festa, una festa grande per tutti noi che siamo arrivati lassù.  Il profumo della resina è inebriante, sono stanca, mi sdraio a contare le lame di luce che attraversano i rami fitti degli abeti, tesso anche questi fili di cielo nel mio cielo fatto di cieli.

Capisco solo ora, all'improvviso, cosa hanno in comune questi cieli che mi assediano gli occhi, in nessuno, nessuno di loro, c’è la minima traccia di una nuvola.

Io che amo le nuvole, amo anche la loro assenza.

Il cielo non è mai vuoto, è attraversato dal ricordo di ogni volo, dalle nuvole scanzonate, dal vento che gioca, dal vento che scherza con una nuvola o con la sua assenza.

Ora mi fermo davvero, resto, ferma, in silenzio e scrivo.

Scrivo nel vento, scrivo il vento.


A chi porterò il silenzio?

Il giardino chiama il mare attraverso
il vento e risponde il mare anche
nelle giornate più lunghe e chiare
della nostra primavera. A chi porterò
il silenzio? Si chiede il giardino.
A chi risponderò? Portami le onde,
lascia che l’acqua sfiori le mie rive
e non bruci le più tenere foglie che
il sole mi contende.
Il mare ascolta e un po’ sorride,
come solo la spuma sa fare, un po’
beffarda, un po’ nostalgica: scegli
ti dice, scegli e non guardare
indietro.


Il tempo della scelta è davvero arrivato, lo sanno i lupi che sono tornati nel loro rifugio, io scelgo, ti scelgo e non mi guardo indietro.


* le poesie sono mie: la prima è tratta da Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004; la seconda da Scrivere il vento, Atì editore 2016

martedì 21 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/44: postille a una specie di devozione tra santi e scrittori


Mi è diventato chiaro solo stamane che nella Cronaca precedente ho saltato un passaggio fondamentale che appartiene al moto dell’animo noto come “del furore dell’avere libri”.

Se un devoto colleziona immaginette e visite le reliquie, noi lettori furiosi collezioniamo libri a prescindere dalla loro lettura.

I libri sono le reliquie laiche residuo di un mondo che, anche se secolarizzato, non può fare a meno di una forma di trascendenza, di un “altrove” che ha radici nel “qui”, un altrove che si concretizza nella Biblioteca di Babele di Borges, immaginaria ma altrettanto reale per chi ne legge, e nelle biblioteche personali dei posseduti dal furore di avere libri, soprannominati anche “libridinosi”, neologismo attestato dalla Treccani online dal 2008.

Ho visto più volte il video in cui Umberto Eco passeggia nell’appartamento che ha trasformato in biblioteca personale, ho avuto la fortuna di vedere di persona la mitologica biblioteca di Giuseppe Pontiggia nella sua casa milanese di via Farneti. In rete ci sono molte fotografie che la mostrano e leva il fiato anche così, dal vivo era come muoversi in un sogno.

Le biblioteche romanzesche non sono poche. I lettori più giovani conosceranno soprattutto quella di Harry Potter a Hogwarts, ma io preferisco tornare a gironzolare nella biblioteca del professor Kien in Autodafé di Elias Canetti che si muoveva sempre con almeno due libri in tasca. Abitudine che ho trovato notevole da quando ho letto il romanzo e quindi ho sempre almeno due libri con me ovunque io vada. Potrei sempre trovare il tempo di leggere durante un blocco della metropolitana o del tram, o in coda al bar, in posta o al ristorante.

Nella sua autobiografia Canetti racconta della passione smodata per i libri e l’intensa attività di compravendita di libri usati che gli permetteva di mangiare nei periodi di ristrettezze economiche. Ho rinunciato a provare a vendere i libri che non mi interessano più, forse perché ho preso coscienza di non essere immortale e che quindi un giorno mi dovrò separare da tutti i libri, pensiero che mi rattrista non poco, la maggior parte viene rifiutata dai librai dell’usato qui a Milano, quindi li porto nella mia biblioteca di quartiere e quelli che non interessano ai bibliotecari e alla biblioteca finiscono, come credo di aver già raccontato, sul davanzale del book crossing dove, di tanto in tanto, ho la tentazione di prendere qualcosa e non solo di lasciare.

Mendel dei libri è un piccolo, denso, imperdibile librino di Stefan Zweig, altro scrittore che siede nel mio umano Olimpo degli scrittori preferiti. Jakob Mendel è un venditore di libri usati che ha una prodigiosa memoria, è lui stesso, quindi, una biblioteca umana anche se non ambulante, visto che trascorre, sino al momento in cui si scopre che è ancora cittadino russo durante la Grande Guerra, le sue giornate al Caffè Gluck.

Nei libri si perde anche il giovane Malte di Rilke nei quaderni e si aggirano in me i ricordi delle letture giovanili di Simone De Beauvoir e di Françoise Sagan che ha letto la Recherche di Proust a pancia in giù nel corso di un’estate indimenticabile; e anche le letture di Virginia Woolf rapita dalla biblioteca paterna già giovanissima.

Così queste divagazioni si collegano a quelle della Cronaca precedente e a quelle “del ritratto dei libri nelle loro dimore”.

Noi siamo l’opera finale, e mai conclusa, delle nostre letture e delle nostre biblioteche e delle letture e delle biblioteche degli scrittori che amiamo, così giù in fondo nel tempo.

Le prove tangibili di queste relazioni, delle passioni che non si possono celare sono i libri che collezioniamo, che leggiamo, che leggeremo, che teniamo anche se non leggeremo.

Alcuni sono prime edizioni, alcune prime edizioni autografate, alcuni prime edizioni autografate con dedica: Amos Oz, Orhan Pamuk, Nadin Gordimer, Giuseppe Pontiggia, Grazia Livi, Danilo Bramati, Milo De Angelis, Gianna Manzini, Guido da Verona, Yves Bonnefoy, Fabio Pusterla, Ardengo Soffici, Erica Jong, Isabel Allende, Nadia Fusini, Liliana Rampello, Nicola Gardini, Valerio Magrelli, Antonio Prete, Edoardo Zuccato, Annalisa Manstretta, Dario Arkel, Camilla Miglio, Giancarlo Montedoro, Michele Napolitano, Antonella Anedda, Marisa Bulgheroni… e mi fermo perché per continuare dovrei andare a cercare nella mia biblioteca e se lo faccio non finisco questa Cronaca.

I libri sono le reliquie più vive del mondo, fondano il mondo, le religioni, la vita stessa.

Finiranno come noi un giorno, quando l’universo imploderà o esploderà e le stelle bruceranno ogni cosa.

Ma tanto noi saremo nel Paradiso dei lettori con tutti i libri, tutti gli scrittori e i lupi che vegliano su di noi.

lunedì 20 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/43: una specie di devozione tra santi e scrittori


D’estate è facile alzarsi molto presto al mattino, la luce solare, il canto degli uccellini, il suono dell’acqua che scorre.

Una mattina in particolare ci si alzava molto prima dell’ora in cui iniziavano di solito i preparativi per andare al mare.

Era la mattina del pellegrinaggio alla Madonna del Pettoruto, il cui nome pare derivi da petruto, cioè pietroso.

Partivamo in gruppi abbastanza numerosi, due o tre auto alla volta, si arrivava ai piedi del monte Montea e si poteva scegliere se proseguire in auto, arrivando abbastanza vicino al santuario, o parcheggiare subito e fare la salita piedi.

Noi salivamo a piedi, capeggiati da mia nonna paterna che, scalza e con il solito fazzoletto legato in testa u’ maccaturi, si appoggiava a un bastone. Non ricordo esattamente la durata del cammino, so che mi sembrava lunghissimo, di sicuro non meno di un’ora, un’ora e mezza. Arrivati in cima ci si poteva rifocillare con l’acqua freschissima che sgorgava dal monte, con il cibo arrostito venduto alle bancarelle, carne e peperoni arrosto, pomodori freschi, larghe fette di pane cotto nel forno a legna.

Io stavo tutto il tempo appiccicata a mia nonna, l’unica cosa che facevo da sola era andare a vedere la Madonna con il Bambino, riccamente vestiti e, nei giorni della festa in settembre, anche ricoperti dei gioielli ex-voto dei fedeli. Qualcuno mi aveva raccontato che l’apparizione della Signora non era avvenuta proprio nel punto dove venne eretta la basilica, ma sulla montagna di fronte, il monte Mula, dove non era possibile allargare i sentieri che solo i pastori con capre e pecore riuscivano a percorrere.

Si mangiava, ci si rifocillava, ci si riposava a volte anche in una delle stanze a disposizione dei pellegrini e, prima di partire, ci si fotografava. Ogni anno le stesse fotografie, le stesse pose, lo stesso sfondo. Di due fotografie ho ricordi vividi che mi fanno ritornare esattamente in quei luoghi e in quei momenti.

Soprattutto dell’estate dei miei otto anni, dove indosso un abitino delizioso, cucito da mia madre, a righe bianche e rosse. Ho i capelli legati in una coda di cavallo altissima e una frangetta che mi copre tutta la fronte.

L’aria era caldissima, la frescura della chiesa una delizia e un sollievo. Non lascio mai la nonna e la guardo pregare sottovoce. Lei mi aveva promesso che mi avrebbe insegnato tutte le sue preghiere e, in particolare, anche quelle che bisognava recitare quando qualcuno era caduto preda dell’affascino, che poteva manifestarsi soprattutto con un lancinante mal di testa. Per insegnarmi quelle preghiere e quelle formule, però, dovevamo trascorrere insieme la notte di Natale e andare alla Messa solenne, perché solo durante quella notte si poteva tramandare alle fanciulle quell'antica sapienza popolare che toglieva il male.

Non ci furono mai le condizioni perché potessimo andare insieme alla Messa di Natale e il vuoto di quel suo insegnamento è rimasto. È a mia nonna paterna, nonna Carmela che io chiamavo nonna Mela, che devo l’iconografia cristiana e i rituali che hanno accompagnato la mia infanzia.

Dopo un ultimo saluto alla Madonna si scendeva a piedi sino al parcheggio, lei non ne voleva sapere di salire in auto e mettersi le scarpe. Quello era il gesto che sanciva la fine del pellegrinaggio, ma solo dopo che ciascuno di noi pellegrini aveva raccolto un bel sasso e lo aveva lanciato nel fiume Rosa, un gesto beneaugurante che siglava il patto del ritorno, saremmo ritornati anche l’anno successivo e la Madonna avrebbe vegliato su di noi perché ciò potesse accadere.

Oltre alle immagini della Madonna del Pettoruto, a casa della nonna c’erano immaginette e una statua di Sant'Antonio da Padova e di San Sebastiano trafitto dalle frecce, un’immagine che ricordava molto il dipinto del Mantegna ma che era opera di qualche pittore devoto e sconosciuto dell’Ottocento calabrese, di Sant'Antonio sapevo ancora meno, però la nonna mi aveva raccontato di essere andata in pellegrinaggio pure alla sua Basilica.

Non mi faceva paura l’immagine del martirio, quello che mi interessava era scoprire la storia che c’era dietro.

La storia che c’era dietro, è questa la frase chiave, o almeno una delle più importanti, della mia vita.

Negli anni si sono accumulati Santi e Madonne, immaginette, visite a Chiese meravigliose e non solo in Italia, la fede è cresciuta, si è affievolita, si è fatta dubbiosa, è fuggita lontano da me, è ritornata con tutta la sua iconografia intatta.

Quello che ho capito solo di recente è che cercare la storia che c’era dietro non ho mai smesso di farlo.

Nei viaggi visito le chiese e le case degli scrittori dove compro sempre almeno un’immagine del luogo e di chi ci ha vissuto. Ho pianto quando mi sono affacciata alla finestra di Leopardi a Recanati e quando ho visto un manoscritto della Woolf alla British Library a Londra.

Vado anche a visitare i cimiteri, e non solo quelli attigui alle chiese.
Al Père Lachaise a Parigi ci sono andata da sola, sono andata a cercare la tomba di Colette che è abbastanza vicina all’ingresso e poi dovevo scegliere tra Marcel Proust e Jim Morrison e sono andata da Proust.

Al cimitero di Montparnasse ho visitato le tombe di Baudelaire, Man Ray, Beckett e Ionesco, Duras, Sontag, Cortazar e sono andata a piangere sulla tomba, condivisa con Sartre, di Simone De Beauvoir.

Perché ci emoziona così tanto, a noi lettori, visitare le case e le tombe degli scrittori che amiamo?

In qualche modo sento che è una forma di devozione che ha a che fare con quella per i Santi, perché a entrambi facciamo domande, chiediamo risposte, un’indicazione, una traccia, una via da seguire.

Non ci sono altari né profani, né laici nella mia casa, solo molte immagini, molte fotografie in bianco e nero, la maggior parte delle volte i soggetti ritratti non stanno guardando l’obiettivo, mi fanno compagnia, quando li guardo so perché quelle donne e quegli uomini se ne stanno appesi nella mia cucina.

Mi hanno dato delle risposte, mi hanno incoraggiato a farmi altre domande.

I loro libri sono le preghiere laiche che arricchiscono il senso della mia vita.

Purtroppo, non sono riuscita a recuperare nessuna delle immaginette di nonna Mela, ma proprio per la loro natura il loro ricordo se ne sta nella mia bottega delle immagini, nella mia immaginazione, appunto.

E così sia.

domenica 19 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/42: come il giunco mi piego e resisto, ritorno

Ero seduta in riva a un corso d’acqua, il mare non era lontano, sentivo il frangersi delle onde sulla spiaggia.

Accanto a me una folla di giunchi si lasciava spettinare e trascinare dall’acqua in movimento, ma era solo un’illusione ottica, al minimo scarto del vento ecco che le cime dei rami si sollevavano e tornavano a danzare nell’aria.

Nel sogno camminavo lungo le rive, incerta se fermarmi o arrivare al mare. Ho sentito anche le rondini, finalmente, che davvero ieri sera sono arrivate nel mio cortile a rinnovare i nidi, e anche un gabbiano solitario.

Il chiarore dell’alba saliva dietro il filo dell’orizzonte, mi sono fermata e ho aspettato.

Ora che sono sveglia, le immagini del sogno si sono depositate sulla riva della realtà e mi interrogano.

Quei giunchi siamo noi fermi nei nostri luoghi, sollecitati dal vento e dalla pioggia loro, dalla chiusura al mondo noi.

Ma il giunco sa che il vento non è più forte, che non sarà quell'aria sfrontata ad averla vinta.

Amelia Rosselli scriveva in Documento:

La notte era una splendida canna di giunco
i suoi provvisori accecamenti erano di giunco
i suoi averi scappavano dalle mie mani
le sue filantropie erano di giunco.
Oh potessi avere la leggerezza della prosa
o di quel inverno che fu così ben racchiuso
fra i tetti impiantati: questa strada d'inverno
è come se qualcuno l'avesse saccheggiata.
Oh potessi realizzare le rissa degli angioli
indovinati fra le colonne vertebrate, così
come la strada precipita senza segno, senso
per un vuoto putiferio per un mistico
soliloquio.

Anche la mia notte è stata una splendida canna di giunco, così continuo a cercare nelle parole dei poeti il senso di quel sogno e del nostro stare.

Anna Achmatova dice che non visiterà i nostri sogni:

Ma io vi prevengo che vivo
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.

E Federico Garcia Lorca vede il giunco e la penombra tremare insieme:

Il campo
di ulivi
s'apre e si chiude
come un ventaglio.

Sull'oliveto
c'è un cielo sommerso
e una pioggia scura
di freddi astri.

Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
S'increspa il vento grigio.

Gli ulivi
sono carichi
di gridi.

Uno stormo
d'uccelli prigionieri
che agitano lunghissime
code nel buio.

Saettano le immagini dei poeti e le loro parole, so soltanto che quei giunchi siamo noi e in silenzio resistiamo anche se impauriti e soli.

Una rondine si fa sentire più delle altre e io tengo in me tutte le primavere passate in cui ho sentito lei e prima ancora i suoi genitori e i genitori dei suoi genitori.

La vita continua nel profondo di noi, non ha bisogno di essere esibita.

Questa immobilità forzata ci costringe a guardare all'essenziale, a interrogare i nostri cuori, a non rimpiangere il passato, ma ad amarlo per quello che è stato e lasciarlo andare.

Possiamo scegliere di stare nel presente, nel respiro, nella gioia dell’istante, seguire le rondini impazzite di luce e anticipare la stagione calda che così tanto aneliamo.

Possiamo continuare ad amare, anche nel chiuso delle nostre case.

Questa poesia l’ho scritta questa mattina al risveglio e anche questo è un dono per il giorno nuovo:

Come un giunco è il mio amore,
si piega a ogni vento, inchina
il capo alla tempesta, sa che
passeranno, pioggia e paura.

Ma il mio giunco d’amore resta
saldo nella sua posizione, non
teme il tempo perché anche
il tempo passa, non teme
il sole e il ghiaccio, tutto
muta e trascorre, tutto
passa, ma non il mio giunco,
non il mio amore che resta
saldo giorno dopo giorno,
nel suo angolo di mondo,
invisibile agli occhi.