domenica 14 febbraio 2016

La vita non vissuta


Bellissimo romanzo! Uno di quei libri che non vorresti mai mettere giù!
Queste sono le parole che ho scritto su una delle prime pagine dell’ultimo romanzo di Nicola Gardini La vita non vissuta, e alla seconda lettura lo confermo avendone goduto ancora di più della bellezza e della profondità della tessitura.
Nella prima scena appaiono il padre morto, i ricordi di infanzia nel paese molisano del padre, la madre milanese, la zia Mariolina e l’amato Paolo. E un malessere fisico improvviso e violentissimo.
Subito dopo siamo nella Milano dell’adolescenza del protagonista, il bar Magenta, il parco Sempione, i compiti a casa, le versioni dal greco e dal latino. E l’irrompere violento dell’amore, proprio come una malattia.
“E, preso dallo zaino un cavatappi, aprì una delle bottiglie che aveva portato. Bevve a canna un lungo sorso e poi me la passò. Anch'io bevvi. Mi innamorai in quel momento. Con il suo vino, il Varzi mi versò nelle vene la malattia d’amore. Naturalmente allora non potevo dirlo con la certezza con cui l’avrei detto in seguito e tutt'oggi sono pronto a dirlo. Allora sentivo una nuova, felice confusione, una voglia di stare con lui che non aveva spiegazione, sentivo la febbre… Non mi ero mai innamorato, prima. E perciò non avevo termini di confronto.” Questo primo amore sembra svanire dopo che Valerio, voce narrante e protagonista di questa vicenda, si dichiara all'amato con una semplice dichiarazione di adorazione. Sortendo in conseguenza la sparizione del Varzi senza alcuna spiegazione, amato bene che verrà bocciato, non essendosi presentato agli esami e finirà con il restare incapsulato nell'anima di Valerio come una promessa, come un bocciolo che non poté fiorire.
A casa della zia Mariolina, Valerio ha la febbre a quaranta, delira e pensa a Paolo, il nuovo amore che gli sta sconquassando corpo e anima. Trema di passione, ipotizza la zia, e la passione è pericolosa perché può portare alla morte, in tanti in paese ne erano morti. Dopo dieci giorni, mentre Paolo e già ripartito per Londra, Valerio sulla via del ritorno decide di fermarsi a salutare un vecchio amico, Antonio, che non vedeva da cinque anni. L’incontro è commovente, i due amici non ancora quarantenni si confrontano e Antonio appare precocemente invecchiato, mentre Valerio “non è cambiato di una virgola”. I ricordi comuni prendono piede: “Parlammo dell’uliveto, dell’America, della sua vita… Al momento non stava con nessuno. Non era facile incontrare un uomo da quelle parti, disse”.
Di nuovo l’amore dichiara di essere il protagonista di questo romanzo, l’amore tra due uomini, così insolito, scandaloso, o addirittura repellente per alcuni. Ma Gardini sa mostrarci con delicatezza che l’amore ci possiede e che amare è naturale per noi esseri umani come respirare. E che un uomo ami un altro uomo non è niente di strano, di malato o di pervertito. Il binomio amore-malattia è il fil-rouge di questo romanzo struggente. Non ci viene risparmiato nulla della malattia di Antonio, nella ricchezza dei dettagli e nella compassione che mostra, Gardini rivela una dote neo-realista che è capace di portare i dettagli della vita quotidiana a una grande poeticità.
Antonio rinnega la vita frenetica che conduceva in America e decanta la bellezza della semplicità di quella vita nella provincia più profonda d’Italia e confessa di avere ricominciato a pregare e a ringraziare l’Onnipotente per ciò che gli dà. La reazione di Valerio è tremenda quando capisce che l’amico si è ammalato. Ma Antonio tiene a precisare che non è ammalato ma che ha solo contratto il virus dell’HIV. In quel momento Valerio rivela all'altro che la sua storia con Marina è finita, che ama un giovane pittore di nome Paolo e che prima o poi lo dirà alla figlia. A Valerio sembra che tutto intorno a lui si fosse infettato. “Le parole, l’aria, il pane…” Neanche la notte lo acquieta, passa il tempo ad ascoltare i grilli e gli uccelli e a mandare sms a Paolo.
L’amore con il Varzi, il fidanzamento immaginario erano durati per tutti gli anni di università. Solo quando era ormai pronto per partire per l’America, Valerio chiamò il vecchio numero per scoprire che il suo innamorato era sposato, aveva un figlio di quasi tre anni e lavorava come pony express. Così per diventare come lui Valerio decide di sposare Marina e di diventare padre. “Dovettero passare altri otto anni, durante i quali non provai interesse per alcuna donna. Né per alcun uomo. Io non mi sentivo gay o omosessuale; quella terminologia davvero non mi apparteneva, anzi, la detestavo. Io avevo amato il Varzi. Tutto qui. E ancora lo amavo. Per me c’era lui e basta. E adesso, non potendolo avere più, volevo essere come lui. Imitandolo, diventando un po’ lui, mi illudevo di tenerlo con me. Credo che l’amore, almeno per un certo periodo della vita, possa essere anche un simile sforzo di identificazione, seppure ci si identifichi con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla che vedere; uno che nemmeno sa di noi e dei nostri sentimenti. O forse questa tendenza all'identificazione, voluta o no, consapevole o no, è una componente di qualunque amore. Quando la si ha in due, be,’ allora è fatta. Tutto funziona, o così sembra. Il miracolo è compiuto, perché niente, di fatto, è reale, cioè oggettivo. Tutto è sempre dentro di noi, è un’immagine che ci creiamo. Se però l’immagine se la crea anche una seconda persona, pur diversa – necessariamente diversa –, e ha la pretesa che sia la stessa, allora nasce qualcosa di vero; invisibile, ma vero”.
L’amore con Marina funziona per un gioco di specchi e di rimandi ma è solo con l’avvento di Paolo che Valerio, finalmente si sente intero e vero. Come era accaduta con Marina, è Paolo che si fa avanti in un modo bizzarro, in aereo, chiedendo in prestito, per sfogliarlo, il libro che l’altro stava leggendo, le Lettere a Lucilio, per inciso. Nel giro di pochissimo tempo l’amore esplode facendo a Valerio quel che la primavera fà ai fiori. E la casa piccola e malmessa di Paolo diventa il nido d’amore.
La sieropositività viene raccontata nella scena successiva, insieme al racconto della fine del mondo sfrenato che era la New York pre-AIDS. Ora la sieropositività e la malattia sono due cose distinte, ma all'epoca una scivolava nell'altra senza soluzione di continuità, perché non c’era nessuna cura possibile.
Paolo e Valerio sono innamorati e il giovane pittore, che ha quattordici anni meno dell’amato, cerca nella genetica spiegazioni possibili all'attrazione che li ha uniti e al loro destino comune. Ma Valerio non cerca spiegazioni, né tanto meno giustificazioni perché ognuno di noi “è come è”.
Ma allora perché è così difficile per tantissima gente accettare questa semplicissima verità? Perché è impossibile, per molti, concepire che due persone dello stesso sesso possano legarsi con un patto che le leghi davanti alla comunità e che riconosca la reciproca solidarietà e affetto? Perché la felicità altrui per alcune persone diventa uno scandalo?
Ma torniamo alla grande storia d’amore, perché questo romanzo di Gardini è prima di tutto una grande storia d’amore dai toni ottocenteschi, perché anche in questo amore potentissimo irrompe l’imprevedibile. Arrossamenti, macchie, taglietti, screpolature costellano prima il corpo di Paolo e poi anche quello di Valerio.
Le vacanze estive, che Valerio decide di trascorrere comunque con Marina e con la figlia Angelica, diventano motivo di litigi feroci fino a quando Valerio non accetta che Paolo vada in Sardegna nello stesso luogo. Dopo giorni faticosi, con la complicità della moglie, Valerio si decide a passare la vacanza con Paolo, con il cuore pesante per la fatica ma felice perché sapeva di amarlo.
Il ritorno a New York, l’amata casa al Village, l’insegnamento, la figlia, niente dà più gioia a Valerio che brucia d’amore e piange di continuo.
Un assalto di terrestri piattole insinua nell'animo di Valerio il dubbio di un tradimento subito. Ma come è nella sua natura, subito se ne dimentica e ritrova il piacere della compagnia e della conversazione e ascolta adorante Paolo che aveva passato il pomeriggio a pensare a Nicolas De Staël. (Piccola digressione, ricordo un bellissimo intervento di Gardini dedicato a De Staël, tenuta nell'ambito del ciclo “Sentimento dello spazio” dove alcuni poeti milanesi erano stati invitati a raccontare il loro rapporto con lo spazio a partire dalle immagine di uno o più pittori amati. Ma di questo scriverò in un’altra occasione). Però poi Paolo gli rivela di essere passato a trovare Marina e Angelica e che avrebbe insegnato alla bambina la pittura ad olio. Il risultato è una lite che si estende alla moglie e Valerio scopre che le cose possono accadere anche a sua insaputa.
“È una giornata luminosa e mite. Quando la segretaria viene a cercarmi in classe sono rivolto verso la finestra, a contemplare la chioma sanguigna dell’acero che occupa il centro del giardino. Mi vogliono al telefono, dall'Italia. Il terrore mi asciuga la bocca”.
È una telefonata di Paolo che gli rivela, tra le lacrime, di avere scoperto di essere sieropositivo.
“Conosco la prima persona del verbo essere, e conosco anche quello strano aggettivo. Conosco anche la combinazione dei due, perché l’ho sentita usare nemmeno troppo tempo addietro dal mio amico Antonio. Ma in quel momento mi pare di sentirla pronunciare per la prima volta, come quando si sente pronunciare per la prima volta un’espressione straniera che si è solo incontrata in forma scritta. Paolo, di punto in bianco, è diventato straniero; è diventato quella frase, quell'assurda, inimmaginabile combinazione di elementi linguistici, quel pazzesco predicato nominale. Mi appoggio al tronco dell’acero. Il mio spirito, per effetto di quelle due parole, ha incontrato la morte. Certo, respiro ancora, anche se a fatica, ma l’ordine in cui fino a pochi secondi prima mi sono pensato e riconosciuto è dissolto. E sprofondo sempre più in me, precipito nelle zone proibite di un silenzio antico, nel segreto pozzo del destino, dal quale le occupazioni consuete della mente ci tengono lontani. Così protetti, si vive. La mente, infatti, non vorrebbe mai contemplare la fine. Ma in questo momento io, che lo voglia o no, me la vedo davanti, come il suicida”.
La consapevolezza di quanto accade non solo sconvolge Valerio, ma gli dà la certezza che “Paolo sarà la vita che devo vivere e vivrò con lui fino alla fine, perché così voglio che sia”. Paolo gli scrive una mail implorandolo di essere lasciato e invocando il perdono senza dimenticare che mai lui potrà smettere di amarlo. Perché lui è nato per amare Valerio.
Le analisi confermano anche a Valerio la sieropositività, ma escludono la sifilide. La Malattia è venuta al mondo ed è la creatura dell’amore con Paolo. Avuta la sentenza Valerio straccia la fotografia del Varzi che ancora conservava nel portafoglio. Quindici, venti anni di vita quando si è sieropositivi, è questa la speranza che gli ha comunicato il dottore al laboratorio di analisi. La sieropositività non è un malattia in sé ma l’anticamera di malattie tremende, è la dichiarazione della fine della giovinezza, dell’orizzonte che si chiude.  
Cosa succede nel cuore e nella mente di una persona che di colpo ha queste certezze? Paolo continua a disperarsi e Valerio a consolare. Sono tra le pagine più belle del libro queste.
“Per giorni le nostre telefonate e i nostri scambi di messaggi elettronici parlarono la lingua dei padri confessori. Uno implorava, l’altro assolveva. E ancora ignoravamo, ignorando di ignorare, che il vocabolario cui eravamo abituati aveva perduto le sue funzioni; che non intendevamo quel che dicevamo, anche se ci pareva di intenderlo e così doveva parerci. Quanta fatica, in tante parole, che confondevamo per un sollievo! Non si considera mai quando si cerca di descrivere la malattia, la natura prima di tutto linguistica della sofferenza; lo scontro con l’indicibile, con l’insufficienza della semantica, con l’imprecisione, con la provvisorietà delle conclusioni, come se in una terra straniera mettessimo alla prova tutte le lingue che conosciamo e nessuna alla fine si rivelasse utile, neppure il silenzio. E proprio questo, il silenzio, noi ci sforzavamo di contrastare il più possibile. (…) La malattia non volevamo che ci unisse. E invece ci avrebbe unito più dell’amore; sarebbe stata la forma stessa dell’amore”.
Mentre Paolo è preso dall'allestimento della sua nuova mostra, Valerio si abbandona alle cure di Marina – già trasformata nella sua vedova – e soprattutto a due forme di oblio: il sonno di notte e la lettura degli antichi di giorno. “La mia attenzione era totalmente assorbita da quello che leggevo. Benché lavorassi su testi che conoscevo in gran parte a memoria, nella mia nuova condizione notavo cose che non avevo mai notato; certe bellezze e certe verità mi si rivelavano ora per la prima volta. Sunt lacrimae rerum… Infandum dolorem… fugit retro levis iuventus…: adesso sapevo che cosa significavano veramente. L’innamoramento di Didone adesso mi pareva la fotografia di un’infezione: At regina gravi iamdudum saucia cura/ vulnus alit venis et caeco carpitur igni. Ritrovai la gioia dell’insegnamento. In realtà non si può dire che fossi felice di entrare in aula. Insegnare significava non tanto trasmettere ad altri il senso delle mie riflessioni, quanto provare a me stesso davanti a testimoni la potenza di ciò che leggevamo. In quegli scritti così elaborati e pieni di sapere si trovava esemplificato un ordine intoccabile, che aveva retto alla furia dei secoli e chiedeva solo che lo ammirassimo”.
La furia e l’estasi provocati dal mescolarsi della malattia, del senso di finitudine, della passione per i classici portano Valerio a tradurre Orazio – le traduzioni di Gardini sono bellissime –, ed è ammirevole come questo scrittore poliedrico e molteplice, riesca a intessere delle sue stesse passioni al vita del suo personaggio.
Quando Paolo e Valerio si ritrovano a New York si concedono qualche giorno da turisti, visitando Ground Zero, Ellis Island e il Metropolitan Museum. Tre luoghi emblematici: la caduta, la speranza e la conservazione. Non nascondono il loro amore al mondo e New York è quel mondo dove tutto e tutti sono benvenuti, la città meno americana d’America e la più aperta, la più affascinante. I giorni successivi verranno trascorsi a Sag Harbor negli Hamptons, dove, oltre a ritrovare la fisicità dell’amore, Valerio dove confrontarsi di nuovo con la fisicità dolorosa della malattia.
La letteratura e la poesia continuano a fare irruzione in questa storia d’amore. Prima è la visita alla casa di Washington Irving, autore di La leggenda di Sleepy Hollow e l’incontro con l’orrendo vecchio che è la loro guida. Poi si salta alla leggenda di Orfeo e Euridice, un mito caro ai poeti che, come Orfeo, tra le lacrime non smettono di raccontare quel che gli è successo e sentono il significato profondo del rimpianto.
Valerio decide di raccontare quel che gli sta accadendo e così di saggiare le reazioni delle persone. In questo modo riesce a esprimere la rabbia e poi l’accettazione. E di nascosto dal compagno, inizia a scrivere la sua storia. Non un romanzo però, ma il racconto della verità. Comprese le reazioni degli amici e i conseguenti abbandoni. Le prime reazioni di Paolo alla terapia sono devastanti, il male peggiora, smette di mangiare, reagisce malissimo. Valerio teme il deteriorarsi delle cose. Compresa la sua permanenza negli Stati Uniti perché sieropositivo e quindi la fine del suo insegnamento.
Il rientro in Italia significa poi lo scontrarsi con la burocrazie e il giudizio dell’urologo cui si rivolge per i disturbi scoperti durante la vacanza americana. Valerio non ha tanto paura della morte quanto di non vivere. Vedere chi sono gli altri sieropositivi certo non lo aiuta, sente e vuole una distanza da quella umanità da girone infernale, il viado, la nigeriana, la tossica, l'effemminato. Ma nonostante il rifiuto iniziale Valerio riconosce che la sua fratellanza con quella compagnia del dolore gli concede il raro privilegio dell’uguaglianza.
“Quante cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle? Quanto, se non mi affrettavo a recuperare, ero già morto? Tutti, a ben vedere, non solo i cosiddetti malati, hanno desiderio di cose che mai potranno compiere o possedere. La natura del desiderio è proprio l’impossibilità, come suggerisce l’originaria parola latina. Desiderium è il richiamo di quel che non c’è più, è una nostalgia. La parola può anche significare semplicemente “bisogno”, o “mancanza! Nei codici antichi le lacune sono indicate da un desiderantur… Ma chi non è malato, o chi semplicemente dimentica che la vita non sarà mai abbastanza lunga, non si rende conto che i desideri rappresentano una perdita; che, desiderando, si lascia entrare la morte prima del tempo. Che la sua vita perde pagine, come un manoscritto mal conservato. Dovevo impegnarmi a non desiderare, benché la mia condizione mi spingesse a desiderare continuamente, e molto di più. Dovevo fare. Bastava cominciare. Non avevo mai imparato il cinese o il giapponese, o l’arabo, o il polacco, o una lingua mesopotamica… Il mio ebraico era scadente… Sapevo leggere solo qualche geroglifico… A Berlino non avevo passato abbastanza tempo… Non ero stato a Kauai… Non avevo comprato una casa a Parigi… Non avevo imparato i nomi degli alberi e dei fiori più comuni… Non sapevo più suonare il pianoforte… Non andavo abbastanza spesso all'opera… Non andavo mai a sciare… Non avevo imparato un’arte marziale… Non avevo mai letto l’Ulisse di Joyce per intero… Neanche la Bibbia… Neanche il Corano… Neanche Jane Austen… Non avevo riletto la Ricerca del tempo perduto per una quarta volta… Non sapevo giocare a tennis… Avevo smesso di correre… Non avevo mai attraversato il Corridoio Vasariano… Non avevo imparato a fare il Montblanc… Non avevo finito la traduzione del De bello gallico… Non mi ero mai messo a tradurre le Bucoliche… Non ero stato a Milo… Neanche a Delo… Neanche a Santorini… Neanche in Cappadocia… Neanche in Amazzonia… Neanche in Siberia… E neanche sul Monte Athos… Non ero mai diventato un esperto di preistoria… Non mi ero fatto un’idea sufficientemente articolata su Napoleone… Non avevo mai partecipato a uno scavo archeologico… Non avevo mai imparato a memoria tutte le poesie che mi piacevano… Non avevo visto il Bosforo, perché quella volta nevicava e tutto era bianco e non si distinguevano né cielo né terra né mare… Neanche i castelli della Loira… Neanche le Ebridi… Neanche il Vallo di Adriano… Non avevo insegnato a Ucla… A Venezia non avevo mai passato più di tre notti di seguito… Non sapevo riconoscere una perla vera da una falsa… Non osavo inviare i miei complimenti agli autori che mi piacevano… Non sapevo sviluppare una fotografia… Non sapevo manovrare una macchina da presa. Non mi intendevo di filosofia medioevale… Non sapevo progettare una casa… Non conoscevo la tavola periodica degli elementi… Non avevo mai avuto un cane… neanche un uccellino… Neanche una motocicletta di grossa cilindrata… Non avevo mai fatto un corso di ceramica… Neanche di calligrafia… Non avevo mai partecipato a un safari. Non avevo mai studiato la storia delle rocce… Non mi ero mai abituato alle bizzarrie psicologiche dei personaggi di Dostoevskij… Non avevo mai avuto una casa editrice… Non avevo mai dormito nel deserto… Non avevo mai fatto un viaggio in barca a vela… Non avevo fatto tutte queste e molte altre cose. Ma avrei mai avuto il tempo di farle, fossi anche sopravvissuto altri quarant'anni? No, di certo, naturalmente… Quando ci si ammala non si vuole solo indietro la propria vita, si vuole l’eternità”.  
Preso da questa ricerca di tutte le cose non fatte, della vita non vissuta e ora impossibile, Valerio cerca tracce della sua stessa malattia tra gli altri, soprattutto tra gli eterosessuali ma l’unica cosa che ottiene è di iniziare a sentirsi colpevole in prima persona per quanto gli è accaduto. Solo l’amore con Paolo non vacilla e lo spinge a cercare la casa giusta che possa accogliere il loro amore ma anche sua figlia. La casa nuova non piace molto né a Paolo né a Marina, ma Valerio non se ne cura. È una casa che fa per lui, una tipica casa milanese che distingue le camere e gli spazi, distinzione necessaria perché lo spazio indica una distanza da coprire, un avvicinamento necessario.
Un altro avvicinamento necessario per Valerio è quello con tutte le persone ammalate che ha conosciuto nel corso della sua vita. “Il malato deve, a posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova. Raccontarsi una storia, quella certa storia, lo aiuta a vincere l’angoscia con la conoscenza, a ritenersi ancora padrone della sua vita, il primo effetto della malattia essendo proprio il contrario: l’impressione che la tua vita se ne vada per i fatti suoi. Il malato vuole scoprire, con il racconto della sua storia, di aver voluto la malattia; che questa non è una punizione o una beffa, ma una necessità. Ma le storie scadono. Nessuna storia dura a lungo. Presto è sostituita da un’altra”.  Valerio non riesce più a scrivere il suo romanzo perché capisce che “una storia nasce quando mancano le parole”. E per questo ci vuole tempo. La professoressa Maroni, una sua insegnante del liceo, si ammala di Sla e sopravvive alla diagnosi ben oltre i due anni preconizzati. E durante la lunga e fatale malattia non fa altro che leggere, leggere più che poteva. Soprattutto romanzi, soprattutto quelli con una donna protagonista: Ritratto di signora, Middlemarch, Romola, L’amante di Lady Chatterly, La signora Dalloway, Gita al faro, Madame Bovary, Anna Karenina. E formula la sua teoria sul vero amore, cioè che “l’amore, il vero amore, nasce dalla reciprocità”. Ma la malattia procede e sottrae a Valerio vitalità e forza fisica, costringendolo a confrontarsi quotidianamente con varie malattie della pelle. Dal passato riappare Emanuele, un compagno di classe invaghito del Varzi, che diventa un nuovo amico.
Un viaggio in Israele sul Mar Morto è una temporanea e benefica pausa dalla malattia. La bellezza del paesaggio, il richiamo della storia antica e l’efficacia delle cure fanno bene alla coppia. Al ritorno in Italia il repentino miglioramento dei sintomi del Parkinson in Papa Giovanni Paolo II e l’ipotesi che la papaya fermentata ne sia l’artefice, spingono Valerio vad andare a caccia del preparato su Internet e scoprire, così, che il prodotto commercializzato si chiama Immun’Âge FPP (Fermented Papaya Preparation) è prodotta dalla compagnia giapponese Osato ma che in Europa non è ancora commercializzata. (Nota del recensore: la papaya fermentata ha qualcosa di effettivamente miracoloso, niente mal di gola, niente raffreddore, niente influenza per la prima volta da anni. Insieme a un senso generale di maggior benessere. Da prendere ancora a inizio primavera). Valerio combatte la malattia confidando nella volontà, nell’alimentazione, nell’attività fisica, nel riposo, nell’appagamento che danno le letture giuste e i viaggi. Un tentativo con l’omeopatia fallisce nel giro di poco, mentre la papaya è un valido alleato almeno nel contrastare il raffreddore. Valerio continua a cercare la pace nei classici e si dedica così ai pensieri di Marco Aurelio e ne traduce alcuni: “D’ora in poi pensa a ritirarti nel campicello di te stesso, e prima di tutto, non affannarti, non smaniare, ma sii libero e guarda le cose da uomo, da cittadino, da creatura mortale. I princìpi basilari che dovrai considerare sono due. Il primo: le cose non riguardano l’anima, ma ne stanno fuori, immobili – i turbamenti dipendono solo dalla nostra opinione interiore. Il secondo: tutto quello che vedi muterà presto e non sarà più. Non dimenticare mai che anche tu hai già partecipato a chissà quante trasformazioni. “L’universo è mutamento; la vita opinione.” In una vita che è, invece, mutamento Valerio si dedica anche al karate, sempre con l’intenzione e la speranza di scongiurare l’inizio della terapia che, però, inesorabilmente arriva. Dopo avere ingurgitato le prime pastiglie e avere attraversato quella prima notte senza conseguenze, Valerio si sveglia e si stupisce di stare bene. Cerca i sintomi degli effetti collaterali e non li trova. Guardingo scende dal letto e va verso la cucina e invece è la porta dello studio ad attrarlo perché all'improvviso teme di non essere più in grado di leggere.
“Entro a passi misurati, nonostante l’impazienza di sciogliere quell'atroce dubbio, e dopo essermi fermato al centro della stanza mi guardo intorno. Ecco la mia vita: scaffali e tavoli e scrivanie e biblioteche girevoli e vetrine per migliaia e migliaia di volumi… Sto contemplando i miei giorni: dentro quelle pagine, attraverso le infinite letture, si è depositato il mio tempo. Mai come adesso ho compreso che i libri letti sono trascrizioni perfette del passato; che i libri impediscono a quel che passa di dissolversi, perché lo materializzano, lo trasferiscono come una decalcomania sulle parole già scritte degli scrittori, per ogni lettera letta un istante vissuto, e così il passato non ci abbandona mai, sta al sicuro là dentro, basta aprire un volume… Ma basta ancora solo aprire? Che cosa troverò ormai? Mi avvicino alla sezione dei classici latini ed estraggo la copia dell’Eneide che ho usato al ginnasio. Cerco l’incipit del secondo libro e leggo, sì, leggo!”
Il potere magico dei farmaci restituisce a Valerio la sua vita, ma migliore. Studia, fa il padre, viaggia, pratica il karate, ama Paolo e nel complesso sa di avere una vita migliore e di vivere la sua vita meglio. Sta lontano dalle attività inutili e soprattutto dalle persone che non lo amano, dai trafficoni. Il benessere dura poco, però,  perché una grave forma di allergia ai farmaci lo costringe a interrompere la terapia. E l’effetto finale è una incontrollabile, crescente rabbia nei confronti di Paolo. I deliri solitari e il rancore di Valerio lo portano a immaginarsi come una Bovary che parla dall'oltretomba. E a mettere in discussione “la verità monca della verbalizzazione” in cui le troppe parole trasformano “la scienza enciclopedia del silenzio”. La morte dell’amico Luigi costringe di nuovo Valerio a interrogarsi sul mistero che ciascuno di noi rappresenta anche per chi ci ama. E un viaggio in Congo, al seguito del suo medico, lo mette di fronte alla spietatezza della malattia non curata. Lo scontro con l’Africa è tremendo e in meno di due settimane Valerio torna a casa. La vita riprende, una frenetica vacanza di Capodanno porta un diversivo nella routine dei giorni, ma il tormento non lascia a Valerio un solo attimo di respiro. È solo dopo il ritorno a casa che un’influenza che colpisce la coppia vede il tempo ricomporsi e la vita addolcirsi: “Appena uno si appisolava, l’altro gli si stringeva contro e così restava, immobile, adattato alla sua forma. Non avevo mai abbracciato Paolo con tanto affetto, vorrei dire: con tanta pietas. Dopo esserci divisi a Vienna, ora ci ricongiungevamo in un letargo felice e oblioso, in una febbre purificatrice, in un sogno comune. Non c’era più alcuna necessità delle parole che non si potevano dire. Anzi, all'improvviso tutto era dicibile, ma noi preferivamo tacerlo, perché tutto finalmente ci appariva nella sua ultima, più semplice verità. Quel riposo e quella vicinanza mi hanno lasciato nella memoria una gioia che non so descrivere in breve. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per rappresentare ogni respiro che scambiavamo, la penombra dolce della stanza, la felicità del dormiveglia, la pace dei pensieri, l’ebbrezza rallegrante di uno starnuto, la piacevolezza di un brivido o del calore reciproco, lo stupore con cui i nostri sguardi si incontravano per caso, mentre ci riscuotevamo dal torpore in un breve movimento automatico, e si riconoscevano. Eravamo morti, ma non importava. La cosa che avevamo più temuto non aveva, avvenuta, niente di temibile. La resa non era una sconfitta. Volavamo.” La malattia di Paolo però non regredisce, al raffreddore si unisce anche la tosse e poi un crollo della vitalità. “Pensai che Paolo fosse caduto in una specie di abbattimento, in una malinconia. Non mi piaceva usare la parola “depressione”, che invocava scenari clinici, un’oggettività estranea; una parola latina che trovavo e ancora trovo estranea al mio gusto, forse anche perché etimologicamente non vantava una bella storia classica. Le parole che piacciono, in fondo, sono quelle alle quali crediamo di consegnare con più poesia le nostre ragioni”. Una grave infezione colpisce il cuore di Paolo mentre nel frattempo, l’amico Emanuele scopre di non essere mai stato sieropositivo. Poi Paolo si rimette e la vita trascorre fino al cinquantacinquesimo compleanno di Valerio. È allora che Paolo gli dedica la sua più grande mostra che si intitola Quod egi – Quel che ho fatto, due parole di Catullo che Valerio citava spesso e che a lui è dedicata. Nei moltissimi quadri sono rappresentati tutti i luoghi in cui i due amanti erano stati insieme. “C’è davvero tutto, o così pare a me; c’è perfino più di quanto ricordi, colto nella sua essenza: il marrone bruciato dei nuraghi sardi, l’arancione del deserto israeliano, il blu dei ghiacciai alpini, il giallo del grano normanno, il verde bottiglia delle onde di Creta, l’argento degli ulivi pugliesi, l’arancio delle rocce di Cornovaglia, l’ocra dei muriccioli di Masada, il violetto delle nuvole inglesi, l’azzurro opaco del Mar Morto, l’oro del foliage americano, il grigio di Sleepy Hollow, il latteo crepuscolo di Sag Harbor, lo smeraldo dei laghetti di Mount Desert, i gialli e i rosa dei tramonti contemplati dall'aereo, il bianco dell’inverno viennese, il rosa delle albe sul Nilo, il turchese delle Virgin Islands, il nero degli abeti svizzeri, il verde di Kauai… E ci sono io, contro il cupo di un bosco californiano o un moncone di colonna ateniese; c’è Paolo, nudo, sotto una cascatella messicana… Ci sono i cieli che abbiamo respirato, le terre che abbiamo calpestato, le acque in cui ci siamo bagnati, la luce che ci ha illuminati, le tenebre che ci hanno protetti, i fiori che abbiamo contemplato, gli animali che abbiamo incontrato… Ci sono gli inverni e le estati, le mattine e le sere… Ci sono le stelle e c’è la luna, e c’è il sole che nasce o che scende dietro una montagna… Ci sono le vette, i vulcani, le pianure, le città, le campagne… E c’è l’Autoritratto con puntini. E c’è l’Autoritratto con infezione cardiaca. C’è tutto. C’è la nostra storia, pezzo per pezzo, momento per momento, come un’opera d’arte sola. Tutti possono ammirarla. Anch'io, finalmente.”
La potenza delle immagini dei quadri di Paolo restituisce a Valerio l’essenza stessa del loro amore, di quella storia d’amore più forte della malattia e della paura. Valerio non ha scritto il suo romanzo, ma grazie alla magia della parola il suo romanzo non scritto è proprio quello che stiamo leggendo. Una storia potente che ci insegna che “il malato è come una traduzione: è un eterno stato di passaggio in cui avverti, però, sia la partenza che l’arrivo, e secondo i giorni sembra che quella sia più vicina di questo; e il guadagno e la perdita si contendono il primato senza mai arrivare a un accordo definitivo. Per questo il conoscere del malato è un conoscere che non sta mai fermo: che stanca; che si crede inutile…”

La guarigione dell’anima passa anche attraverso l’accettazione della propria condizione e alla fine Gardini sembra proprio dirci che anche una malattia tremenda può essere l’antidoto a una vita non vissuta. Chiudo il libro alla fine di questa seconda lettura e sento ancora l’eco della voce di Nicola risuonarmi nelle orecchie. Ci conosciamo ormai da una quindicina d’anni e ho sempre ammirato in lui, tra le tante qualità, due cose in particolare: la sua instancabile capacità di lavoro e il suo amore per i libri. Questo libro ne è l’ennesima testimonianza e sono curiosa di scoprire quale nuova storia scaturirà dal talento poliedrico di questo scrittore, poeta, pittore e traduttore. Un uomo che cerca di essere un artista in ogni sua manifestazione e che non si accontenta di una sola modalità espressiva. I suoi libri mi piacciono sempre, mi divertono e mi intrigano. Ecco ora me lo immagino seduto alla scrivania della vecchia casa dove abitava a Milano prima del trasferimento a Oxford, sta scrivendo, alza la testa e mi guarda. E io so che è felice anche lui.

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