Bellissimo
romanzo! Uno di quei libri che non vorresti mai mettere giù!
Queste
sono le parole che ho scritto su una delle prime pagine dell’ultimo romanzo di
Nicola Gardini La vita
non vissuta, e
alla seconda lettura lo confermo avendone goduto ancora di più della bellezza e
della profondità della tessitura.
Nella
prima scena appaiono il padre morto, i ricordi di infanzia nel paese molisano
del padre, la madre milanese, la zia Mariolina e l’amato Paolo. E un malessere
fisico improvviso e violentissimo.
Subito
dopo siamo nella Milano dell’adolescenza del protagonista, il bar Magenta, il
parco Sempione, i compiti a casa, le versioni dal greco e dal latino. E
l’irrompere violento dell’amore, proprio come una malattia.
“E,
preso dallo zaino un cavatappi, aprì una delle bottiglie che aveva portato.
Bevve a canna un lungo sorso e poi me la passò. Anch'io bevvi. Mi innamorai in
quel momento. Con il suo vino, il Varzi mi versò nelle vene la malattia
d’amore. Naturalmente allora non potevo dirlo con la certezza con cui l’avrei
detto in seguito e tutt'oggi sono pronto a dirlo. Allora sentivo una nuova,
felice confusione, una voglia di stare con lui che non aveva spiegazione, sentivo la febbre… Non mi ero mai
innamorato, prima. E perciò non avevo termini di confronto.” Questo primo amore
sembra svanire dopo che Valerio, voce narrante e protagonista di questa
vicenda, si dichiara all'amato con una semplice dichiarazione di adorazione.
Sortendo in conseguenza la sparizione del Varzi senza alcuna spiegazione, amato
bene che verrà bocciato, non essendosi presentato agli esami e finirà con il
restare incapsulato nell'anima di Valerio come una promessa, come un bocciolo
che non poté fiorire.
A casa
della zia Mariolina, Valerio ha la febbre a quaranta, delira e pensa a Paolo,
il nuovo amore che gli sta sconquassando corpo e anima. Trema di passione,
ipotizza la zia, e la passione è pericolosa perché può portare alla morte, in
tanti in paese ne erano morti. Dopo dieci giorni, mentre Paolo e già ripartito
per Londra, Valerio sulla via del ritorno decide di fermarsi a salutare un
vecchio amico, Antonio, che non vedeva da cinque anni. L’incontro è commovente,
i due amici non ancora quarantenni si confrontano e Antonio appare precocemente
invecchiato, mentre Valerio “non è cambiato di una virgola”. I ricordi comuni
prendono piede: “Parlammo dell’uliveto, dell’America, della sua vita… Al
momento non stava con nessuno. Non era facile incontrare un uomo da quelle
parti, disse”.
Di
nuovo l’amore dichiara di essere il protagonista di questo romanzo, l’amore tra
due uomini, così insolito, scandaloso, o addirittura repellente per alcuni. Ma
Gardini sa mostrarci con delicatezza che l’amore ci possiede e che amare è
naturale per noi esseri umani come respirare. E che un uomo ami un altro uomo
non è niente di strano, di malato o di pervertito. Il binomio amore-malattia è
il fil-rouge di questo romanzo struggente. Non ci viene risparmiato nulla della
malattia di Antonio, nella ricchezza dei dettagli e nella compassione che
mostra, Gardini rivela una dote neo-realista che è capace di portare i dettagli
della vita quotidiana a una grande poeticità.
Antonio
rinnega la vita frenetica che conduceva in America e decanta la bellezza della
semplicità di quella vita nella provincia più profonda d’Italia e confessa di
avere ricominciato a pregare e a ringraziare l’Onnipotente per ciò che gli dà. La
reazione di Valerio è tremenda quando capisce che l’amico si è ammalato. Ma
Antonio tiene a precisare che non è ammalato
ma che ha solo contratto il virus dell’HIV. In quel momento Valerio rivela
all'altro che la sua storia con Marina è finita, che ama un giovane pittore di
nome Paolo e che prima o poi lo dirà alla figlia. A Valerio sembra che tutto
intorno a lui si fosse infettato. “Le parole, l’aria, il pane…” Neanche la
notte lo acquieta, passa il tempo ad ascoltare i grilli e gli uccelli e a
mandare sms a Paolo.
L’amore
con il Varzi, il fidanzamento immaginario erano durati per tutti gli anni di
università. Solo quando era ormai pronto per partire per l’America, Valerio
chiamò il vecchio numero per scoprire che il suo innamorato era sposato, aveva
un figlio di quasi tre anni e lavorava come pony express. Così per diventare
come lui Valerio decide di sposare Marina e di diventare padre. “Dovettero passare
altri otto anni, durante i quali non provai interesse per alcuna donna. Né per
alcun uomo. Io non mi sentivo gay o omosessuale; quella terminologia davvero
non mi apparteneva, anzi, la detestavo. Io avevo amato il Varzi. Tutto qui. E
ancora lo amavo. Per me c’era lui e basta. E adesso, non potendolo avere più,
volevo essere come lui. Imitandolo, diventando un po’ lui, mi illudevo di
tenerlo con me. Credo che l’amore, almeno per un certo periodo della vita,
possa essere anche un simile sforzo di identificazione, seppure ci si
identifichi con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla che vedere; uno
che nemmeno sa di noi e dei nostri sentimenti. O forse questa tendenza
all'identificazione, voluta o no, consapevole o no, è una componente di qualunque
amore. Quando la si ha in due, be,’ allora è fatta. Tutto funziona, o così
sembra. Il miracolo è compiuto, perché niente, di fatto, è reale, cioè
oggettivo. Tutto è sempre dentro di noi, è un’immagine che ci creiamo. Se però
l’immagine se la crea anche una seconda persona, pur diversa – necessariamente diversa –, e ha la
pretesa che sia la stessa, allora nasce qualcosa di vero; invisibile, ma vero”.
L’amore
con Marina funziona per un gioco di specchi e di rimandi ma è solo con
l’avvento di Paolo che Valerio, finalmente si sente intero e vero. Come era
accaduta con Marina, è Paolo che si fa avanti in un modo bizzarro, in aereo,
chiedendo in prestito, per sfogliarlo, il libro che l’altro stava leggendo, le Lettere a Lucilio, per inciso. Nel giro
di pochissimo tempo l’amore esplode facendo a Valerio quel che la primavera fà
ai fiori. E la casa piccola e malmessa di Paolo diventa il nido d’amore.
La
sieropositività viene raccontata nella scena successiva, insieme al racconto
della fine del mondo sfrenato che era la New York pre-AIDS. Ora la
sieropositività e la malattia sono due cose distinte, ma all'epoca una
scivolava nell'altra senza soluzione di continuità, perché non c’era nessuna
cura possibile.
Paolo e
Valerio sono innamorati e il giovane pittore, che ha quattordici anni meno
dell’amato, cerca nella genetica spiegazioni possibili all'attrazione che li ha
uniti e al loro destino comune. Ma Valerio non cerca spiegazioni, né tanto meno
giustificazioni perché ognuno di noi “è come è”.
Ma
allora perché è così difficile per tantissima gente accettare questa
semplicissima verità? Perché è impossibile, per molti, concepire che due
persone dello stesso sesso possano legarsi con un patto che le leghi davanti
alla comunità e che riconosca la reciproca solidarietà e affetto? Perché la
felicità altrui per alcune persone diventa uno scandalo?
Ma
torniamo alla grande storia d’amore, perché questo romanzo di Gardini è prima
di tutto una grande storia d’amore dai toni ottocenteschi, perché anche in
questo amore potentissimo irrompe l’imprevedibile. Arrossamenti, macchie,
taglietti, screpolature costellano prima il corpo di Paolo e poi anche quello
di Valerio.
Le
vacanze estive, che Valerio decide di trascorrere comunque con Marina e con la
figlia Angelica, diventano motivo di litigi feroci fino a quando Valerio non
accetta che Paolo vada in Sardegna nello stesso luogo. Dopo giorni faticosi,
con la complicità della moglie, Valerio si decide a passare la vacanza con
Paolo, con il cuore pesante per la fatica ma felice perché sapeva di amarlo.
Il
ritorno a New York, l’amata casa al Village, l’insegnamento, la figlia, niente
dà più gioia a Valerio che brucia d’amore e piange di continuo.
Un
assalto di terrestri piattole insinua nell'animo di Valerio il dubbio di un
tradimento subito. Ma come è nella sua natura, subito se ne dimentica e ritrova
il piacere della compagnia e della conversazione e ascolta adorante Paolo che
aveva passato il pomeriggio a pensare a Nicolas De Staël. (Piccola digressione, ricordo un bellissimo
intervento di Gardini dedicato a De Staël,
tenuta nell'ambito del ciclo “Sentimento dello spazio” dove alcuni poeti
milanesi erano stati invitati a raccontare il loro rapporto con lo spazio a
partire dalle immagine di uno o più pittori amati. Ma di questo scriverò in
un’altra occasione). Però poi Paolo gli rivela di essere passato a trovare
Marina e Angelica e che avrebbe insegnato alla bambina la pittura ad olio. Il
risultato è una lite che si estende alla moglie e Valerio scopre che le cose possono
accadere anche a sua insaputa.
“È una
giornata luminosa e mite. Quando la segretaria viene a cercarmi in classe sono
rivolto verso la finestra, a contemplare la chioma sanguigna dell’acero che
occupa il centro del giardino. Mi vogliono al telefono, dall'Italia. Il terrore
mi asciuga la bocca”.
È una
telefonata di Paolo che gli rivela, tra le lacrime, di avere scoperto di essere
sieropositivo.
“Conosco
la prima persona del verbo essere, e conosco anche quello strano aggettivo.
Conosco anche la combinazione dei due, perché l’ho sentita usare nemmeno troppo
tempo addietro dal mio amico Antonio. Ma in quel momento mi pare di sentirla
pronunciare per la prima volta, come quando si sente pronunciare per la prima
volta un’espressione straniera che si è solo incontrata in forma scritta.
Paolo, di punto in bianco, è diventato straniero; è diventato quella frase,
quell'assurda, inimmaginabile combinazione di elementi linguistici, quel
pazzesco predicato nominale. Mi appoggio al tronco dell’acero. Il mio spirito,
per effetto di quelle due parole, ha incontrato la morte. Certo, respiro
ancora, anche se a fatica, ma l’ordine in cui fino a pochi secondi prima mi
sono pensato e riconosciuto è dissolto. E sprofondo sempre più in me, precipito
nelle zone proibite di un silenzio antico, nel segreto pozzo del destino, dal
quale le occupazioni consuete della mente ci tengono lontani. Così protetti, si
vive. La mente, infatti, non vorrebbe mai contemplare la fine. Ma in questo
momento io, che lo voglia o no, me la vedo davanti, come il suicida”.
La
consapevolezza di quanto accade non solo sconvolge Valerio, ma gli dà la
certezza che “Paolo sarà la vita che devo
vivere e vivrò con lui fino alla fine, perché così voglio che sia”. Paolo gli
scrive una mail implorandolo di essere lasciato e invocando il perdono senza
dimenticare che mai lui potrà smettere di amarlo. Perché lui è nato per amare
Valerio.
Le
analisi confermano anche a Valerio la sieropositività, ma escludono la
sifilide. La Malattia è venuta al mondo ed è la creatura dell’amore con Paolo.
Avuta la sentenza Valerio straccia la fotografia del Varzi che ancora
conservava nel portafoglio. Quindici, venti anni di vita quando si è
sieropositivi, è questa la speranza che gli ha comunicato il dottore al
laboratorio di analisi. La sieropositività non è un malattia in sé ma
l’anticamera di malattie tremende, è la dichiarazione della fine della
giovinezza, dell’orizzonte che si chiude.
Cosa
succede nel cuore e nella mente di una persona che di colpo ha queste certezze?
Paolo continua a disperarsi e Valerio a consolare. Sono tra le pagine più belle
del libro queste.
“Per
giorni le nostre telefonate e i nostri scambi di messaggi elettronici parlarono
la lingua dei padri confessori. Uno implorava, l’altro assolveva. E ancora
ignoravamo, ignorando di ignorare, che il vocabolario cui eravamo abituati
aveva perduto le sue funzioni; che non intendevamo quel che dicevamo, anche se
ci pareva di intenderlo e così doveva parerci. Quanta fatica, in tante parole,
che confondevamo per un sollievo! Non si considera mai quando si cerca di
descrivere la malattia, la natura prima di tutto linguistica della sofferenza;
lo scontro con l’indicibile, con l’insufficienza della semantica, con
l’imprecisione, con la provvisorietà delle conclusioni, come se in una terra
straniera mettessimo alla prova tutte le lingue che conosciamo e nessuna alla
fine si rivelasse utile, neppure il silenzio. E proprio questo, il silenzio,
noi ci sforzavamo di contrastare il più possibile. (…) La malattia non volevamo
che ci unisse. E invece ci avrebbe unito più dell’amore; sarebbe stata la forma
stessa dell’amore”.
Mentre
Paolo è preso dall'allestimento della sua nuova mostra, Valerio si abbandona
alle cure di Marina – già trasformata nella sua vedova – e soprattutto a due
forme di oblio: il sonno di notte e la lettura degli antichi di giorno. “La mia
attenzione era totalmente assorbita da quello che leggevo. Benché lavorassi su
testi che conoscevo in gran parte a memoria, nella mia nuova condizione notavo
cose che non avevo mai notato; certe bellezze e certe verità mi si rivelavano
ora per la prima volta. Sunt lacrimae rerum… Infandum
dolorem… fugit retro levis iuventus…: adesso sapevo che cosa
significavano veramente. L’innamoramento
di Didone adesso mi pareva la fotografia di un’infezione: At regina gravi iamdudum saucia cura/ vulnus alit venis et caeco
carpitur igni. Ritrovai la gioia dell’insegnamento. In realtà non si può
dire che fossi felice di entrare in aula. Insegnare significava non tanto
trasmettere ad altri il senso delle mie riflessioni, quanto provare a me stesso
davanti a testimoni la potenza di ciò che leggevamo. In quegli scritti così
elaborati e pieni di sapere si trovava esemplificato un ordine intoccabile, che
aveva retto alla furia dei secoli e chiedeva solo che lo ammirassimo”.
La
furia e l’estasi provocati dal mescolarsi della malattia, del senso di
finitudine, della passione per i classici portano Valerio a tradurre Orazio –
le traduzioni di Gardini sono bellissime –, ed è ammirevole come questo
scrittore poliedrico e molteplice, riesca a intessere delle sue stesse passioni
al vita del suo personaggio.
Quando
Paolo e Valerio si ritrovano a New York si concedono qualche giorno da turisti,
visitando Ground Zero, Ellis Island e il Metropolitan Museum. Tre luoghi emblematici:
la caduta, la speranza e la conservazione. Non nascondono il loro amore al
mondo e New York è quel mondo dove tutto e tutti sono benvenuti, la città meno
americana d’America e la più aperta, la più affascinante. I giorni successivi
verranno trascorsi a Sag Harbor negli Hamptons, dove, oltre a ritrovare la
fisicità dell’amore, Valerio dove confrontarsi di nuovo con la fisicità
dolorosa della malattia.
La
letteratura e la poesia continuano a fare irruzione in questa storia d’amore.
Prima è la visita alla casa di Washington Irving, autore di La leggenda di Sleepy Hollow e
l’incontro con l’orrendo vecchio che è la loro guida. Poi si salta alla
leggenda di Orfeo e Euridice, un mito caro ai poeti che, come Orfeo, tra le
lacrime non smettono di raccontare quel che gli è successo e sentono il
significato profondo del rimpianto.
Valerio
decide di raccontare quel che gli sta accadendo e così di saggiare le reazioni
delle persone. In questo modo riesce a esprimere la rabbia e poi l’accettazione.
E di nascosto dal compagno, inizia a scrivere la sua storia. Non un romanzo
però, ma il racconto della verità. Comprese le reazioni degli amici e i
conseguenti abbandoni. Le prime reazioni di Paolo alla terapia sono devastanti,
il male peggiora, smette di mangiare, reagisce malissimo. Valerio teme il
deteriorarsi delle cose. Compresa la sua permanenza negli Stati Uniti perché
sieropositivo e quindi la fine del suo insegnamento.
Il
rientro in Italia significa poi lo scontrarsi con la burocrazie e il giudizio
dell’urologo cui si rivolge per i disturbi scoperti durante la vacanza
americana. Valerio non ha tanto paura della morte quanto di non vivere. Vedere chi sono gli altri
sieropositivi certo non lo aiuta, sente e vuole una distanza da quella umanità
da girone infernale, il viado, la nigeriana, la tossica, l'effemminato. Ma
nonostante il rifiuto iniziale Valerio riconosce che la sua fratellanza con
quella compagnia del dolore gli concede il raro privilegio dell’uguaglianza.
“Quante
cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o
le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle?
Quanto, se non mi affrettavo a recuperare, ero già morto? Tutti, a ben vedere,
non solo i cosiddetti malati, hanno desiderio di cose che mai potranno compiere
o possedere. La natura del desiderio è proprio l’impossibilità, come suggerisce
l’originaria parola latina. Desiderium
è il richiamo di quel che non c’è più, è una nostalgia. La parola può anche
significare semplicemente “bisogno”, o “mancanza! Nei codici antichi le lacune
sono indicate da un desiderantur… Ma chi
non è malato, o chi semplicemente dimentica che la vita non sarà mai abbastanza
lunga, non si rende conto che i desideri rappresentano una perdita; che,
desiderando, si lascia entrare la morte prima del tempo. Che la sua vita perde
pagine, come un manoscritto mal conservato. Dovevo impegnarmi a non desiderare, benché la mia condizione
mi spingesse a desiderare continuamente, e molto di più. Dovevo fare. Bastava
cominciare. Non avevo mai imparato il cinese o il giapponese, o l’arabo, o il
polacco, o una lingua mesopotamica… Il mio ebraico era scadente… Sapevo leggere
solo qualche geroglifico… A Berlino non avevo passato abbastanza tempo… Non ero
stato a Kauai… Non avevo comprato una casa a Parigi… Non avevo imparato i nomi
degli alberi e dei fiori più comuni… Non sapevo più suonare il pianoforte… Non
andavo abbastanza spesso all'opera… Non andavo mai a sciare… Non avevo imparato
un’arte marziale… Non avevo mai letto l’Ulisse
di Joyce per intero… Neanche la Bibbia… Neanche il Corano… Neanche Jane Austen…
Non avevo riletto la Ricerca del tempo
perduto per una quarta volta… Non sapevo giocare a tennis… Avevo smesso di
correre… Non avevo mai attraversato il Corridoio Vasariano… Non avevo imparato
a fare il Montblanc… Non avevo finito la traduzione del De bello gallico… Non mi ero mai messo a tradurre le Bucoliche… Non ero stato a Milo… Neanche
a Delo… Neanche a Santorini… Neanche in Cappadocia… Neanche in Amazzonia…
Neanche in Siberia… E neanche sul Monte Athos… Non ero mai diventato un esperto
di preistoria… Non mi ero fatto un’idea sufficientemente articolata su
Napoleone… Non avevo mai partecipato a uno scavo archeologico… Non avevo mai
imparato a memoria tutte le poesie che mi piacevano… Non avevo visto il
Bosforo, perché quella volta nevicava e tutto era bianco e non si distinguevano
né cielo né terra né mare… Neanche i castelli della Loira… Neanche le Ebridi…
Neanche il Vallo di Adriano… Non avevo insegnato a Ucla… A Venezia non avevo
mai passato più di tre notti di seguito… Non sapevo riconoscere una perla vera
da una falsa… Non osavo inviare i miei complimenti agli autori che mi
piacevano… Non sapevo sviluppare una fotografia… Non sapevo manovrare una
macchina da presa. Non mi intendevo di filosofia medioevale… Non sapevo
progettare una casa… Non conoscevo la tavola periodica degli elementi… Non
avevo mai avuto un cane… neanche un uccellino… Neanche una motocicletta di
grossa cilindrata… Non avevo mai fatto un corso di ceramica… Neanche di calligrafia…
Non avevo mai partecipato a un safari. Non avevo mai studiato la storia delle
rocce… Non mi ero mai abituato alle bizzarrie psicologiche dei personaggi di
Dostoevskij… Non avevo mai avuto una casa editrice… Non avevo mai dormito nel
deserto… Non avevo mai fatto un viaggio in barca a vela… Non avevo fatto tutte
queste e molte altre cose. Ma avrei mai avuto il tempo di farle, fossi anche
sopravvissuto altri quarant'anni? No, di certo, naturalmente… Quando ci si
ammala non si vuole solo indietro la propria vita, si vuole l’eternità”.
Preso
da questa ricerca di tutte le cose non fatte, della vita non vissuta e ora
impossibile, Valerio cerca tracce della sua stessa malattia tra gli altri,
soprattutto tra gli eterosessuali ma l’unica cosa che ottiene è di iniziare a
sentirsi colpevole in prima persona per quanto gli è accaduto. Solo l’amore con
Paolo non vacilla e lo spinge a cercare la casa giusta che possa accogliere il
loro amore ma anche sua figlia. La casa nuova non piace molto né a Paolo né a
Marina, ma Valerio non se ne cura. È una casa che fa per lui, una tipica casa
milanese che distingue le camere e gli spazi, distinzione necessaria perché lo
spazio indica una distanza da coprire, un avvicinamento necessario.
Un
altro avvicinamento necessario per Valerio è quello con tutte le persone
ammalate che ha conosciuto nel corso della sua vita. “Il malato deve, a
posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova. Raccontarsi una storia, quella certa storia, lo aiuta a vincere
l’angoscia con la conoscenza, a ritenersi ancora padrone della sua vita, il
primo effetto della malattia essendo proprio il contrario: l’impressione che la
tua vita se ne vada per i fatti suoi. Il malato vuole scoprire, con il racconto
della sua storia, di aver voluto la
malattia; che questa non è una punizione o una beffa, ma una necessità. Ma le
storie scadono. Nessuna storia dura a lungo. Presto è sostituita da
un’altra”. Valerio non riesce più a
scrivere il suo romanzo perché capisce che “una storia nasce quando mancano le
parole”. E per questo ci vuole tempo. La professoressa Maroni, una sua
insegnante del liceo, si ammala di Sla e sopravvive alla diagnosi ben oltre i
due anni preconizzati. E durante la lunga e fatale malattia non fa altro che
leggere, leggere più che poteva. Soprattutto romanzi, soprattutto quelli con
una donna protagonista: Ritratto di
signora, Middlemarch, Romola, L’amante di Lady Chatterly, La signora Dalloway,
Gita al faro, Madame Bovary, Anna Karenina. E formula la sua teoria sul
vero amore, cioè che “l’amore, il vero amore, nasce dalla reciprocità”. Ma la
malattia procede e sottrae a Valerio vitalità e forza fisica, costringendolo a
confrontarsi quotidianamente con varie malattie della pelle. Dal passato
riappare Emanuele, un compagno di classe invaghito del Varzi, che diventa un
nuovo amico.
Un
viaggio in Israele sul Mar Morto è una temporanea e benefica pausa dalla
malattia. La bellezza del paesaggio, il richiamo della storia antica e
l’efficacia delle cure fanno bene alla coppia. Al ritorno in Italia il
repentino miglioramento dei sintomi del Parkinson in Papa Giovanni Paolo II e
l’ipotesi che la papaya fermentata ne sia l’artefice, spingono Valerio vad
andare a caccia del preparato su Internet e scoprire, così, che il prodotto
commercializzato si chiama Immun’Âge FPP
(Fermented Papaya Preparation) è prodotta dalla compagnia giapponese Osato ma
che in Europa non è ancora commercializzata. (Nota del recensore: la papaya
fermentata ha qualcosa di effettivamente miracoloso, niente mal di gola, niente
raffreddore, niente influenza per la prima volta da anni. Insieme a un senso
generale di maggior benessere. Da prendere ancora a inizio primavera). Valerio
combatte la malattia confidando nella volontà, nell’alimentazione,
nell’attività fisica, nel riposo, nell’appagamento che danno le letture giuste
e i viaggi. Un tentativo con l’omeopatia fallisce nel giro di poco, mentre la
papaya è un valido alleato almeno nel contrastare il raffreddore. Valerio
continua a cercare la pace nei classici e si dedica così ai pensieri di Marco
Aurelio e ne traduce alcuni: “D’ora in poi pensa a ritirarti nel campicello di
te stesso, e prima di tutto, non affannarti, non smaniare, ma sii libero e
guarda le cose da uomo, da cittadino, da creatura mortale. I princìpi basilari
che dovrai considerare sono due. Il primo: le cose non riguardano l’anima, ma
ne stanno fuori, immobili – i turbamenti dipendono solo dalla nostra opinione
interiore. Il secondo: tutto quello che vedi muterà presto e non sarà più. Non dimenticare
mai che anche tu hai già partecipato a chissà quante trasformazioni. “L’universo
è mutamento; la vita opinione.” In una vita che è, invece, mutamento Valerio si
dedica anche al karate, sempre con l’intenzione e la speranza di scongiurare l’inizio
della terapia che, però, inesorabilmente arriva. Dopo avere ingurgitato le
prime pastiglie e avere attraversato quella prima notte senza conseguenze,
Valerio si sveglia e si stupisce di stare bene. Cerca i sintomi degli effetti
collaterali e non li trova. Guardingo scende dal letto e va verso la cucina e
invece è la porta dello studio ad attrarlo perché all'improvviso teme di non
essere più in grado di leggere.
“Entro
a passi misurati, nonostante l’impazienza di sciogliere quell'atroce dubbio, e
dopo essermi fermato al centro della stanza mi guardo intorno. Ecco la mia
vita: scaffali e tavoli e scrivanie e biblioteche girevoli e vetrine per
migliaia e migliaia di volumi… Sto contemplando i miei giorni: dentro quelle
pagine, attraverso le infinite letture, si è depositato il mio tempo. Mai come
adesso ho compreso che i libri letti sono trascrizioni perfette del passato;
che i libri impediscono a quel che passa di dissolversi, perché lo materializzano,
lo trasferiscono come una decalcomania sulle parole già scritte degli scrittori,
per ogni lettera letta un istante vissuto, e così il passato non ci abbandona
mai, sta al sicuro là dentro, basta aprire un volume… Ma basta ancora solo
aprire? Che cosa troverò ormai? Mi avvicino alla sezione dei classici latini ed
estraggo la copia dell’Eneide che ho
usato al ginnasio. Cerco l’incipit del secondo libro e leggo, sì, leggo!”
Il
potere magico dei farmaci restituisce a Valerio la sua vita, ma migliore. Studia,
fa il padre, viaggia, pratica il karate, ama Paolo e nel complesso sa di avere una
vita migliore e di vivere la sua vita meglio. Sta lontano dalle attività
inutili e soprattutto dalle persone che non lo amano, dai trafficoni. Il
benessere dura poco, però, perché una grave
forma di allergia ai farmaci lo costringe a interrompere la terapia. E l’effetto
finale è una incontrollabile, crescente rabbia nei confronti di Paolo. I deliri
solitari e il rancore di Valerio lo portano a immaginarsi come una Bovary che
parla dall'oltretomba. E a mettere in discussione “la verità monca della
verbalizzazione” in cui le troppe parole trasformano “la scienza enciclopedia
del silenzio”. La morte dell’amico Luigi costringe di nuovo Valerio a interrogarsi
sul mistero che ciascuno di noi rappresenta anche per chi ci ama. E un viaggio
in Congo, al seguito del suo medico, lo mette di fronte alla spietatezza della
malattia non curata. Lo scontro con l’Africa è tremendo e in meno di due
settimane Valerio torna a casa. La vita riprende, una frenetica vacanza di
Capodanno porta un diversivo nella routine dei giorni, ma il tormento non
lascia a Valerio un solo attimo di respiro. È solo dopo il ritorno a casa che
un’influenza che colpisce la coppia vede il tempo ricomporsi e la vita
addolcirsi: “Appena uno si appisolava, l’altro gli si stringeva contro e così
restava, immobile, adattato alla sua forma. Non avevo mai abbracciato Paolo con
tanto affetto, vorrei dire: con tanta pietas.
Dopo esserci divisi a Vienna, ora ci ricongiungevamo in un letargo felice e
oblioso, in una febbre purificatrice, in un sogno comune. Non c’era più alcuna
necessità delle parole che non si potevano dire. Anzi, all'improvviso tutto era
dicibile, ma noi preferivamo tacerlo, perché tutto finalmente ci appariva nella sua ultima, più semplice verità. Quel riposo
e quella vicinanza mi hanno lasciato nella memoria una gioia che non so
descrivere in breve. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per rappresentare ogni
respiro che scambiavamo, la penombra dolce della stanza, la felicità del
dormiveglia, la pace dei pensieri, l’ebbrezza rallegrante di uno starnuto, la
piacevolezza di un brivido o del calore reciproco, lo stupore con cui i nostri
sguardi si incontravano per caso, mentre ci riscuotevamo dal torpore in un
breve movimento automatico, e si riconoscevano. Eravamo morti, ma non
importava. La cosa che avevamo più temuto non aveva, avvenuta, niente di
temibile. La resa non era una sconfitta. Volavamo.” La malattia di Paolo però
non regredisce, al raffreddore si unisce anche la tosse e poi un crollo della
vitalità. “Pensai che Paolo fosse caduto in una specie di abbattimento, in una malinconia. Non mi piaceva usare la
parola “depressione”, che invocava scenari clinici, un’oggettività estranea;
una parola latina che trovavo e ancora trovo estranea al mio gusto, forse anche
perché etimologicamente non vantava una bella storia classica. Le parole che
piacciono, in fondo, sono quelle alle quali crediamo di consegnare con più
poesia le nostre ragioni”. Una grave infezione colpisce il cuore di Paolo
mentre nel frattempo, l’amico Emanuele scopre di non essere mai stato
sieropositivo. Poi Paolo si rimette e la vita trascorre fino al cinquantacinquesimo
compleanno di Valerio. È allora che Paolo gli dedica la sua più grande mostra
che si intitola Quod egi – Quel che ho
fatto, due parole di Catullo che Valerio citava spesso e che a lui è
dedicata. Nei moltissimi quadri sono rappresentati tutti i luoghi in cui i due
amanti erano stati insieme. “C’è davvero tutto, o così pare a me; c’è perfino
più di quanto ricordi, colto nella sua essenza: il marrone bruciato dei nuraghi
sardi, l’arancione del deserto israeliano, il blu dei ghiacciai alpini, il giallo
del grano normanno, il verde bottiglia delle onde di Creta, l’argento degli
ulivi pugliesi, l’arancio delle rocce di Cornovaglia, l’ocra dei muriccioli di
Masada, il violetto delle nuvole inglesi, l’azzurro opaco del Mar Morto, l’oro
del foliage americano, il grigio di
Sleepy Hollow, il latteo crepuscolo di Sag Harbor, lo smeraldo dei laghetti di
Mount Desert, i gialli e i rosa dei tramonti contemplati dall'aereo, il bianco
dell’inverno viennese, il rosa delle albe sul Nilo, il turchese delle Virgin
Islands, il nero degli abeti svizzeri, il verde di Kauai… E ci sono io, contro
il cupo di un bosco californiano o un moncone di colonna ateniese; c’è Paolo,
nudo, sotto una cascatella messicana… Ci sono i cieli che abbiamo respirato, le
terre che abbiamo calpestato, le acque in cui ci siamo bagnati, la luce che ci
ha illuminati, le tenebre che ci hanno protetti, i fiori che abbiamo
contemplato, gli animali che abbiamo incontrato… Ci sono gli inverni e le
estati, le mattine e le sere… Ci sono le stelle e c’è la luna, e c’è il sole che
nasce o che scende dietro una montagna… Ci sono le vette, i vulcani, le pianure,
le città, le campagne… E c’è l’Autoritratto
con puntini. E c’è l’Autoritratto con
infezione cardiaca. C’è tutto. C’è la nostra storia, pezzo per pezzo,
momento per momento, come un’opera d’arte sola. Tutti possono ammirarla. Anch'io,
finalmente.”
La
potenza delle immagini dei quadri di Paolo restituisce a Valerio l’essenza
stessa del loro amore, di quella storia d’amore più forte della malattia e
della paura. Valerio non ha scritto il suo romanzo, ma grazie alla magia della
parola il suo romanzo non scritto è proprio quello che stiamo leggendo. Una
storia potente che ci insegna che “il malato è come una traduzione: è un eterno
stato di passaggio in cui avverti, però, sia la partenza che l’arrivo, e
secondo i giorni sembra che quella sia più vicina di questo; e il guadagno e la
perdita si contendono il primato senza mai arrivare a un accordo definitivo. Per
questo il conoscere del malato è un conoscere che non sta mai fermo: che
stanca; che si crede inutile…”
La
guarigione dell’anima passa anche attraverso l’accettazione della propria condizione
e alla fine Gardini sembra proprio dirci che anche una malattia tremenda può
essere l’antidoto a una vita non vissuta. Chiudo il libro alla fine di questa
seconda lettura e sento ancora l’eco della voce di Nicola risuonarmi nelle
orecchie. Ci conosciamo ormai da una quindicina d’anni e ho sempre ammirato in
lui, tra le tante qualità, due cose in particolare: la sua instancabile
capacità di lavoro e il suo amore per i libri. Questo libro ne è l’ennesima
testimonianza e sono curiosa di scoprire quale nuova storia scaturirà dal
talento poliedrico di questo scrittore, poeta, pittore e traduttore. Un uomo
che cerca di essere un artista in ogni sua manifestazione e che non si
accontenta di una sola modalità espressiva. I suoi libri mi piacciono sempre,
mi divertono e mi intrigano. Ecco ora me lo immagino seduto alla scrivania
della vecchia casa dove abitava a Milano prima del trasferimento a Oxford, sta
scrivendo, alza la testa e mi guarda. E io so che è felice anche lui.