sabato 20 gennaio 2018

La casa azzurra non ha voce

Casa azzurra

La casa azzurra ha balconi azzurri,
porte azzurre, tetto azzurro.
La casa azzurra imita il cielo,
è un cubo azzurro nel sentiero.
La casa azzurra non ha voce,
le persiane sono chiuse.

Io sto al bordo del sentiero.
Il cielo si fa più limpido.
Tutte le nuvole spariscono.
La casa azzurra non c’è più.


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

venerdì 19 gennaio 2018

e lo scrivere procede da questa lunga meraviglia

Come fosse l’ultima

Scrivo ogni poesia
come fosse l’ultima.

Siedo a un caffè,
guardo le foglie che galleggiano,
guardo le case lì davanti,
apro il taccuino, mi dico: è l’ultima,
questa è l’ultima poesia.

Ogni volta è così,
ogni volta mi domando:
e dopo sarà il silenzio?

Ma poi la voce ricomincia
e lo scrivere procede
da questa lunga meraviglia
che anche per oggi qualcosa è scritto,
come ogni giorno mi stupisco
se spunta un germoglio nuovo
tra i ciuffi dei gelsomini.


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

giovedì 18 gennaio 2018

Come si spiega la poesia

Fatta di carta

Una poesia si spiega?
Sì, si spiega
nel senso che la puoi svolgere,
srotolare, spiegazzare
come la pagina che scrivi.
E basta un niente per sgualcirla.


Fatta di carta è la poesia.


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

mercoledì 17 gennaio 2018

È troppo vasta questa vita

Fondali

È ora. Il verde si incupisce,
le cose attorno si nascondono
e tu pensi al grande fiume
a pochi attimi da te.

È troppo vasta questa vita,
troppo profonda da scandagliare.
In ogni onda muore un destino
e cospirano i fondali.

Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

martedì 16 gennaio 2018

le vedi quelle nuvole?

Sole


Oggi c’è tanto sole.
Ma è solo questo che hai da dire?
È tutto qui?
Sì, tutto qui:
c’è tanto sole.
O forse… aspetta… c’è dell’altro…
laggiù… laggiù… le vedi quelle nuvole?


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

lunedì 15 gennaio 2018

questo è il clima, questo è il tempo

Il vento

Il vento succhia, tira, strappa,
stropiccia folle di alberi,
il vento incalza, ti costringe
a uscire fuori da te.
Tu non vuoi, ti ribelli,
inutilmente.

E le strade sono inquiete,
tutti che cercano riparo
infagottati negli abiti pesanti.
Non c’è sciarpa, non c’è bavero che tenga,
dovranno subire questo vento.

Vento, perché ci assali,
ci torturi, ci strapazzi?
Sgombra le nostre strade,
lasciaci liberi di andare!

Ma siamo tutti incamminati
nei medesimi sentieri
e un vento ci scava dentro:
questo è il clima, questo è il tempo.

Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

domenica 14 gennaio 2018

in ogni stella una stella tace

Dietro ogni silenzio

Mai, in verità, ho raggiunto
le soglie estreme del silenzio.

Mai, mai, neppure
quando ascoltavo il grande platano
sillabare nella nebbia,
quando tacevo con gli amici,
con la gente.

C’è un silenzio oltre quel platano,
un silenzio oltre il silenzio.
Guardo il cielo che si oscura:
in ogni stella una stella tace.


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

sabato 13 gennaio 2018

Conterai le nuvole, le foglie rosse

Giornata

Una giornata persa in anticipo,
un tempo vuoto che hai davanti.
Ne conterai le sillabe
una per una, una per una,
corona di attimi sgranati
nel respiro.

Conterai le nuvole, le foglie
rosse, i sassolini del sentiero.
Ogni ciottolo, ogni nuvola, ogni foglia
sarà un istante cancellato.

Un’eco ti arriverà
ma così fragile, lontana…

Mondi nascono, si spengono.
Non torneranno più.
Una giornata persa in anticipo,
un buco nero.

Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

venerdì 12 gennaio 2018

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
Gli inviti superflui

giovedì 11 gennaio 2018

Il vento dell'inverno

C’è una meta
Per il vento dell’inverno:
il rumore del mare


Ikenishi Gonsui
in
Haiku
Il fiore della poesia giapponese
da Bashō all'Ottocento
a cura di Elena Dal Pra
Mondadori 1998

mercoledì 10 gennaio 2018

Ramoscelli brinati sul vetro del cielo

Neve

Mi sono svegliato
e riluceva la mia stanza
del bianco
santuario.

Azzurro era il giorno.
La betulla fuori,
ramoscelli brinati sul
vetro del cielo.

La pernice soltanto
poteva calcare
la bianca
pura neve!




Olav H. Hauge 

La terra azzurra
traduzione e cura di Fulvio Ferrari
Introduzione di Idar Stegane
Crocetti Editore 2008

martedì 9 gennaio 2018

Ma cosa sono le mie parole

Ora canta di nuovo il mio fiume interiore,
e un limpido vento spira da fresche terre notturne,
in cui vette azzurre di sogno si rispecchiano
in altri mari.

Ma cosa sono le mie parole?
Un bosco piegato dalla tempesta
verso il nord,
barriere di montagne
contro il devastante
fuoco del giorno

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

lunedì 8 gennaio 2018

Una penna Parker, molta carta: così arrivano le poesie

Nella penna Parker

Nella penna Parker ci sono molti versi, tutto un chilometro,
e nel calamaio ce ne sono ancora di più,
decine di chilometri. La carta
arriva con la posta, bollette, réclame, moduli
da compilare.
Guardo con serenità al futuro.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

domenica 7 gennaio 2018

le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore

Giornata d’inverno

Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.

La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.

Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

sabato 6 gennaio 2018

per l’eternità di un pomeriggio

Nelle città straniere  


                                            A Zbigniew Herbert 


Nelle città straniere c’è una gioia sconosciuta, 
la fredda felicità di un nuovo sguardo. 
Gli intonaci gialli delle case, sui quali il sole 
si arrampica come un agile ragno, esistono 
ma non per me. Non per me furono costruiti 
il municipio, il porto, il tribunale, la prigione. 
Il mare scorre per la città con una marea 
salata e allaga le verande e le cantine. 
Al mercato i prismi delle mele, piramidi 
che svettano per l’eternità di un pomeriggio. 
E pure la sofferenza non è poi così 
mia: il matto locale farfuglia 
in una lingua straniera, e la disperazione 
di una ragazza sola in un caffè è come 
il frammento di una tela in un cupo museo. 
Le grandi bandiere degli alberi si agitano 
al vento così come nei luoghi 
a noi noti, e lo stesso piombo fu cucito 
negli orli di lenzuola, di sogni, 
dell’immaginazione folle e senza casa

Adam Zagajewski

Dalla vita degli oggetti
poesie 1983-2005 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

venerdì 5 gennaio 2018

Il sogno è come un viaggio

Aspettavo che il treno partisse senza riuscire a svegliarmi, negli occhi avevo fisse le figure dei due pope ortodossi e la donna del treno vestita come si
usava negli anni Venti. Mi guardava pensando di non essere vista perché la veletta le copriva il viso perfetto. Dopo minuti lenti e il sonno della mente che mi teneva imprigionata, il treno partì e io sentii ancora il rumore della locomotiva e lo sbuffo di vapore coprì la nostra uscita dalla stazione. I sedili del nostro scompartimento erano comodi divanetti di velluto cremisi e legno scuro.
Dal finestrino vedevo scorrere le case di ringhiera addobbate con i panni stesi. Non dormivo e non ero davvero sveglia. Se ero scesa dal treno perché invece
stavo ancora viaggiando? Come avrei fatto in tutti i viaggi successivi per tornare da te, quello era il primo viaggio ma ancora non lo sapevo, cercai di cogliere nel
buio delle finestre, i segni della ripresa mattutina della vita. Ma la luce primaverile era netta e nessuno aveva acceso i lampadari, impedendomi così di assistere agli spettacoli involontari che la vita quotidiana inscenava, senza averle ingaggiate, con le persone che erano vive o credevano di esserlo.

incipit del terzo capitolo del mio nuovo romanzo.

Elena Petrassi
In giornate identiche a nuvole
Atì editore 2017

giovedì 4 gennaio 2018

I monaci neri, il vapore bianco

Pochi viaggiatori, i marciapiedi vuoti, i quotidiani appena arrivati nell'edicola.
Non ero stanca, non avevo sete, non conoscevo il desiderio di sonno o riposo.
In attesa che sul cartellone nero apparisse il numero del binario che mi avrebbe condotto verso il tuo paese, sentii uno sferragliare di treni in arrivo e rotaie stressate dietro di me. Da una immensa nuvola di vapore emerse la sagoma luccicante e nera di una locomotiva. Pensai subito che né la locomotiva, né il
vapore potessero appartenere a quel mondo e tempo che per convenzione chiamiamo realtà. Tra i passeggeri che si affollavano alla discesa, accompagnati da bauli e valigie di cuoio antico, due soprattutto attirarono il mio sguardo. Erano uomini monumentali, due pope ortodossi, dai copricapo e mantelli neri, inconfondibili. Avevano pesanti croci d’oro sul petto che apparivano all'oscillare delle barbe, bianca una, brizzolata l’altra. Avevano visi segnati da fatiche lontane e forse offuscati dal sonno interrotto. Mi scivolarono accanto, da destra verso sinistra, come sorretti dalle nuvole di vapore intorno a noi. 
(...)

incipit del secondo capitolo del mio nuovo romanzo.

Elena Petrassi
In giornate identiche a nuvole
Atì editore 2017

mercoledì 3 gennaio 2018

l'unica cosa che gli interessava erano i libri che doveva ancora scrivere

E il suo di entusiasmo? Come mai si era spento, come mai non provava più nessun piacere nell'imparare cose nuove? Temeva che la risposta fosse una soltanto: l'età. Aveva solo quarantasette anni - ne mancavano appena tre prima di raggiungere l'epifania del vecchio scrittore - eppure sentiva che il piatto della bilancia si era già inclinato dall'altra parte. Ormai la porzione di futuro che ancora gli spettava da vivere come uomo giovane, vitale e ancora attraente qual era, si era fatta molto più piccola di quella che aveva già consumato. Teoricamente avrebbe dovuto fare uno sforzo per cercare di godere il più possibile il tempo che gli restava. Perché allora non aveva più voglia di impegnarsi, di raccogliere le energie e indirizzarle all'esterno, invece di angosciarsi e occuparsi solo di se stesso?
Era arrivato alla conclusione che l'unica cosa che gli interessava erano i libri che doveva ancora scrivere prima che fosse tardi e non avesse più niente da dire. "Egocentrismo - tratto necessario/essenziale", aveva annotato una volta queste parole su un taccuino, pensando che un giorno avrebbe potuto usare quell'idea per scrivere un saggio. A quel punto della sua vita l'unica cosa che desiderava veramente era di starsene davanti al computer, disturbato il meno possibile, aspettando le parole che avrebbe composto, riga dopo riga, la storia ancora informe che aveva in testa. Sapeva che in questo non era il solo; non c'era scrittore che intervistato non rispondesse la stessa cosa a proposito del loro lavoro: l'atto dello scrivere era un lavoro sedentario e solitario, in cui non si aveva bisogno degli altri. Da giovane aveva accumulato esperienze a sufficienza; adesso doveva solo elaborare quel materiale, organizzarlo in qualche modo, trasformarlo in racconto. Che bisogno aveva di riviverlo?

Francesca Marciano
Isola grande, isola piccola
Una serata indiana
traduzione di Tiziana Lo Porto
Bompiani 2015

martedì 2 gennaio 2018

Isola grande isola piccola

La prima lettura del 2018 è una rilettura. Isola grande isola piccola è una raccolta di racconti di Francesca Marciano che ho molto amato due anni fa e che mi ero ripromessa di rileggere. Il primo giorno dell'anno mi è sembrato il momento adatto perché queste storie intriganti e molto ben scritte sono storie epifaniche. Nella vita di ciascuno dei protagonisti e, soprattutto, delle protagoniste accade qualcosa che segnerà una svolta cruciale, quel momento cui far risalire i cambiamenti che ne segneranno la vita. Ambientati tra Roma, New York, Africa, India e isole greche, questi racconti finiscono con il comporre un affresco generazionale che riguarda i nati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. La lenta emancipazione delle donne, le fughe dall'Italia, l'apprendimento della lingua inglese, le regole e i codici di vita che devono essere appresi per poter vivere in quell'altrove cui tutti i personaggi anelano sono presenti in ciascuna storia. La giovinezza perduta, con la sua messe di promesse, sogni e progetti per un futuro lontanissimo, la maturità incipiente attraversata da un filo sottile di malinconia e rimpianto sono la trama e l'ordito di questo bel libro che posso riporre nella libreria dei libri che voglio rileggere.

E.P.


lunedì 1 gennaio 2018

È inverno, anno nuovo. Nessuno ti conosce

L'anno nuovo

È inverno, anno nuovo.
Nessuno ti conosce.
Via dalle stelle, dalla pioggia della luce,
giaci sotto il clima delle pietre.
Non c’è alcun filo che ti riconduca qui.
Gli amici s’assopiscono nel buio
del piacere e non possono ricordare.
Nessuno ti conosce.
Sei il vicino del nulla.
Non vedi la pioggia e l’uomo che s’allontana a piedi,
il vento sudicio che soffia le proprie ceneri per la città.
Non vedi il sole che trascina la luna come un’eco.
Non vedi il cuore ferito andare in fiamme,
i crani degli innocenti farsi fumo.
Non vedi le cicatrici dell’abbondanza, gli occhi senza luce.
È finita. È inverno, anno nuovo.
I mansueti trascinano la propria pelle in paradiso.
I disperati soffrono il freddo con quelli che non hanno 
nulla da nascondere.
È finita e nessuno ti conosce.
Luce di stella alla deriva su acqua nera.
Vi sono le pietre nel mare che nessuno ha visto.
C’è una riva e la gente aspetta.
E niente ritorna.
Perché è finita.
Perché c’è silenzio invece di un nome.
Perché è inverno, anno nuovo.

Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999

The New Year 

It is winter and the new year. 
Nobody knows you. 
Away from the stars, from the rain of light, 
you lie under the weather of stones. 
There is no thread to lead you back. 
Your friends doze in the dark 
of pleasure and cannot remember. 
Nobody knows you. You are the neighbor of nothing. 
You do not see the rain falling and the man walking away, 
the soiled wind blowing its ashes across the city. 
You do not see the sun dragging the moon like an echo. 
You do not see the bruised heart go up in flames, 
the skulls of the innocent turn into smoke. 
You do not see the scars of plenty, the eyes without light. 
It is over. It is winter and the new year. 
The meek are hauling their skins into heaven. 
The hopeless are suffereing the cold with those who have nothing to hide. 
It is over and nobody knows you. 
There is starlight drifting on the black water. 
There are stones in the sea no one has seen. 
There is a shore and people are waiting. 
And nothing comes back. 
Because it is over. 
Because there is silence instead of a name. 
Because it is winter and the new year.