giovedì 26 gennaio 2017

I libri usati sono libri selvaggi, senza tetto

A zonzo: un’avventura londinese / 3

Ma ecco, mai troppo presto, ecco le librerie dell’usato. E qui tra le contrastanti correnti dell’essere buttiamo l’àncora. Qui dopo le miserie e gli splendori della strada ci riequilibriamo. La sola vista della moglie del libraio con il piede sul parafuoco, seduta accanto a un bel fuoco di carbone, al riparo dalla porta, ci calma, ci rallegra. Non legge mai, o legge soltanto il giornale; se non parla, come fa volentieri, di libri, parla di cappelli; un cappello, dice, le piace se è pratico, oltre che carino. No, non vivono in negozio, vivono a Brixton, le ci vuole un po’ di verde, a lei. D’estate, in cima a una pila polverosa di libri, piazza un vaso di fiori colti dal suo giardino per rallegrare il negozio. I libri sono dappertutto e sempre ci riempie il medesimo senso di avventura. I libri usati sono libri selvaggi, senza tetto; si radunano in vasti stormi dai piumaggi più variegati; hanno un fascino che manca ai libri addomesticati della biblioteca. Inoltre, in questa folla miscellanea e casuale, può capitare di ritrovarci in mano un assoluto estraneo, che con un po’ di fortuna potrebbe anche diventare il nostro migliore amico. Quando, attratti dalla sua aria trascurata, abbandonata, tiriamo giù da uno scaffale in alto un libro bianco grigiastro, c’è sempre la speranza di incontrarci proprio l’uomo che più di cento anni fa in groppa a un cavallo si avviò a esplorare i mercati della lana nelle Midlands e nel Galles; uno sconosciuto viaggiatore che si fermava alle locande, beveva una birra, notava le belle ragazze e gli usi e i costumi, e metteva tutto per iscritto con ostinazione, con fatica, per puro amore (il libro venne pubblicato a sue spese); era infinitamente noioso, indaffarato, pratico e proprio così senza saperlo travasò nel libro il profumo dei papaveri e del fieno, insieme a un ritratto di se stesso che gli assicura per sempre un posto al calduccio nel focolare della mente. Lo si può comprare per diciotto penny. È prezzato tre scellini e mezzo, ma la moglie del libraio, visto che le copertine sono malandate e il libro è lì da quando l’hanno comprato all’asta della biblioteca di un gentiluomo nel Suffolk, lo lascerà a un prezzo minore.

E guardandoci ancora intorno nella libreria, facciamo altre consimili capricciose amicizie con degli sconosciuti, degli scomparsi, la cui unica traccia è, per esempio, questo libretto di poesie, così ben stampato, con belle incisioni, e un ritratto dell’autore. Il quale era un poeta che morì annegato prematuramente, i cui versi blandi, formali e sentenziosi come sono, emanano però ancora oggi una musica flautata, tenera, come di una pianola meccanica che con rassegnazione, in un vicolo, manovra un vecchio organettista italiano in giacchetta di velluto. Ci sono poi i libri di viaggi, scaffali e scaffali, che tuttora testimoniano, indomabili zitelle quali erano le loro autrici, i sacrifici che sopportarono e i tramonti che ammirarono in Grecia, quando la regina Vittoria era ancora ragazzina; un viaggio in Cornovaglia con visita alle miniere di stagno richiedeva un voluminoso resoconto; risalendo piano piano il Reno si facevano l’un l’altro il ritratto in inchiostro di china, seduti a leggere sul ponte accanto a un rotolo di funi; misuravano le piramidi; per anni erano persi alla civiltà, convertivano i negri  paludi pestilenziali. Tutto questo fare le valigie e partire, andare a esplorare i deserti, prendersi la febbre, stabilirsi in India per la vita, penetrare in Cina e poi tornare a vivere tranquilli a Edmonton, cade e sballottola sul pavimento polveroso come un mare inquieto, tanto irrequieti sono appunto gli inglesi, con le onde sempre alla porta. Le acque del viaggio e dell’avventura sembrano infrangersi contro isolette di vero sforzo e operosità lunga una vita che in colonne a zig zag si ergono sul pavimento della libreria. In queste pile di volumi rilegati color pulce, con monogramma in oro sul dorso, preti pensosi ci spiegano i vangeli; con i loro martelli e ceselli si sentono gli studiosi che scalpellano gli antichi testi di Euripide e Eschilo. Commento, esposizione, meditazione, spiegazione procedono a tale prodigiosa velocità tutto intorno a noi e su tutto; come fosse una marea puntuale, sempiterna, si spande l’antico mare del romanzo. Volumi innumerevoli ci dicono quanto Arturo amava Laura, e come furono divisi e quanto erano infelici e come si ritrovarono e vissero felici e contenti; così andavano le cose quando Vittoria regnava su queste isole.
C’è un numero infinito di libri al mondo, e uno dà per forza un rapido sguardo, fa un cenno, e dopo un momento appena di conversazione, un bagliore di comprensione, si ritrova per strada e sente una frase e da una frase a caso fabbrica un’esistenza. Parlano di una donna che si chiama Kate: «Glielo dissi senza mezze parole ieri sera… se pensi che valgo meno di un francobollo da un penny, le dissi…». Ma chi è Kate e a quale crisi nella loro amicizia allude il francobollo, non lo sapremo mai, perché Kate affoga nel calore della loro volubilità; e qui all’angolo della strada, alla vista di due uomini che si consultano sotto il lampione, si apre un’altra pagina del volume della vita. Stanno sillabando le ultimissime notizie da Newmarket. Pensano che la fortuna tramuterà i loro stracci in pellicce e ricche stoffe, gli appenderà addosso catene da orologio e pianterà uno spillo di diamante dove ora c’è un collo logoro di camicia aperta? Ma la corrente principale dei passeggiatori a quest’ora va troppo veloce per darci il tempo di queste domande. In questo breve tragitto dal lavoro a casa, sono avvolti in un sogno narcotico, ora che si sono liberati della scrivania, e sentono l’aria fresca sulle guance. Si mettono quei vestiti colorati che tengono appesi, chiusi a chiave per tutto il resto del giorno, e diventano grandi giocatori di cricket, famose attrici, soldati che hanno salvato il paese nell’ora del bisogno. Sognando, gesticolando, spesso mormorando a voce alta qualche parola, sciamano sullo Strand e sul ponte di Waterloo; da lì dondolando in treni lunghi, traballanti, ancora sognando, saranno trasportati a una villetta linda e pinta di Barnes o Surbiton, dove la vista dell’orologio nell’ingresso e l’odore della cena giù in cucina subito sgonfiano il sogno.
Ma ora siamo sullo Strand e, mentre esitiamo sul marciapiede, una bacchetta lunga non più di un dito comincia a mettersi d’ostacolo alla velocità e abbondanza della vita. «Devo davvero – devo senz’altro» – ecco cos’è. Senza esaminare la richiesta, la mente si arrende al solito tiranno. Si deve, sempre si deve fare una cosa o un’altra; non si è mai liberi di divertirsi. Non è stato per questa ragione che tempo fa abbiamo escogitato quella scusa e ci siamo inventati la necessità di comprare qualcosa? Già! Ma che cosa? Ah, sì, una matita! Su, andiamo a comprare la matita. Ma proprio mentre stiamo per ubbidire al comando, un altro io contesta al tiranno il diritto di insistere. Scoppia il solito conflitto. Al di là della bacchetta del dovere, si distende in tutta la sua ampiezza il Tamigi – largo, triste, quieto. Lo vediamo attraverso gli occhi di qualcuno che si affaccia dall’Embankment una sera d’estate, senza un pensiero al mondo. Lasciamo perdere la matita, andiamo invece in cerca di questa persona (è subito evidente che quella persona siamo noi). Perché se potessimo ritrovarci dov’eravamo sei mesi fa, non saremmo di nuovo com’eravamo allora – calmi, distaccati, contenti? Proviamoci dunque. Ma il fiume è più mosso e più grigio di come ci ricordavamo. La marea porta al mare. Trascina con sé un rimorchiatore e due chiatte, il cui carico di paglia è legato stretto sotto coperte di tela. Vicini a noi ci sono due che si appoggiano alla balaustra, parlando piano, con quella curiosa mancanza di consapevolezza che hanno gli amanti, come se l’importanza di ciò che li lega reclamasse senza dubbio l’indulgenza della razza umana. Le vedute che vediamo e i suoni che sentiamo non hanno affatto la qualità del passato, non partecipiamo per niente alla serenità di chi sei mesi fa stava proprio qui, dove stiamo adesso. Sua è la felicità della morte, nostra l’insicurezza della vita. Lui non ha futuro, il futuro invade proprio in questo preciso attimo la nostra pace. Soltanto quando guardiamo al passato, togliendo al tempo l’elemento dell’incertezza, possiamo godere della pace perfetta. Come stanno le cose, adesso dobbiamo voltare, attraversare di nuovo lo Strand, trovare il negozio dove anche a quest’ora saranno pronti a venderci una matita.

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

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