Oliver Sacks, amato
neurologo e
scrittore, si è
entusiasmato tutta
la vita per tante
cose: – le felci, i cefalopodi, le
motociclette, i minerali, il nuoto,
il salmone affumicato e Bach,
tanto per citarne alcune – ma più
di ogni altra cosa sono state le
parole a riempirlo di entusiasmo.
Quando dico che amava le
parole, non mi riferisco al
semplice fatto che scriveva e che
ha pubblicato tanti libri diventati
classici – Risvegli, L’uomo che
scambiò sua moglie per un
cappello, Musicofilia. Se non ne
avesse scritto nessuno, sono
sicuro che Oliver sarebbe stato in
ogni caso lo stesso tipo un po’
stravagante che si portava a letto
dizionari giganteschi da leggere,
aiutandosi con una lente di
ingrandimento. Lo
appassionavano etimologie,
sinonimie e antonimie, slang,
turpiloquio, palindromi, termini
anatomici, neologismi (ma, in
linea di principio, era restio alle
abbreviazioni). A tavola,
conversava allegramente di
analisi e differenze tra omonimie
e omofonie, per non parlare di
omografie. E, per inciso, adorava
pronunciare quelle tre parole –
quell'allitterazione di “H”
aspirate (rispettivamente
homonyms, homophones,
homographs) – con il suo
caratteristico accento
britannico. «Ogni giorno sono
sorpreso da una nuova parola»,
commentò un giorno, raggiante,
a proposito di un vocabolo che,
all'improvviso, gli era balenato in
mente. Spesso questo fenomeno
gli capitava mentre nuotava –
«quando nuotava a dorso idee e
interi paragrafi» si affacciavano
distintamente, dopo di che lui si
precipitava a riva o a bordo
piscina per annotarle su carta –
come ha colto Dempsey Rice in
un affascinante film di prossima
uscita intitolato The Animated
Mind of Oliver Sacks. A casa,
invece, di frequente – come ha
fatto per anni – scriveva parole e
idee direttamente sulle pagine
dei libri che stava leggendo.
Per buona parte della nostra
relazione, durata sei anni, mi
sono riferito spesso a Oliver
chiamandolo “dizionario
ambulante” (anzi, un OED
ambulante da “Oxford English
Dictionary”) perché ricordava
l’ortografia e le definizioni delle
parole con grande precisione.
Malgrado ciò, Oliver rimase
sempre umile, non si vantava mai
del suo lessico straordinario e, in
caso di dubbio, andava a
controllare l’Oed (possedeva tutti
i venti volumi che lo
compongono), oppure il più
compatto e sintetico Chamber’s
Dictionary, una copia del quale
gli era stata regalata dalla zia
preferita in occasione del suo
nono compleanno. Oliver
adorava così tanto le parole che
spesso le sognava e, in qualche
caso, le inventava addirittura.
Una mattina di sei anni fa trovai
scritto sulla lavagnetta in cucina
“ore 5. Nepholopsia.” «E che
diamine vuol dire?» chiesi
mentre preparavo il caffè.
Oliver ridacchiò, poi si lanciò
nella descrizione di un sogno
molto complicato che aveva fatto
quella notte nel quale, bloccato
su un pianeta alieno, aveva visto
alcune nuvole antropomorfe
trasformarsi in modo minaccioso
e riversarsi dall'alto “con
intenzioni omicide” sulla Land
Rover che stava guidando. Un
“incubo nebuloso”, aggiunse,
quasi si trattasse del primo che
aveva. Per non dimenticarsene,
lo aveva annotato alle cinque del
mattino. (Parlò poi di questo suo
sogno allo psicanalista freudiano
da cui si recava due volte a
settimana). «Nepholopsia – mi
disse – significa “vedere le
nuvole” oppure “essere avvolti
dalle nuvole”». Poi aggrottò le
sopracciglia. No, non ne era
molto sicuro. «Controlliamo su
un buon testo» disse, e insieme
andammo a consultare l’Oed (la
“mia Bibbia” lo chiamava spesso
Oliver, ateo convinto).
Nell'Oed trovammo “nefologia”,
che significa studio delle nuvole
(dalla radice greca nephos), ma
non “nepholopsia”. Saltò fuori
che per puro caso aveva coniato
una parola nuova.
(...)
«Il massimo
che possiamo fare è scrivere – in
modo intelligente, creativo,
critico, evocativo – di quello che
vuol dire vivere in questo mondo
in questa epoca». (Oliver Sacks al suo compagno Bill Hayes)
Bill Hayes
Repubblica 31 agosto 2018
2 settimane fa