domenica 7 febbraio 2016

Il letto di Proust



Ricostruzione della camera di Proust al Musée Carnavalet di Parigi


Jacques Guérain era un industriale del profumo, un raffinato bibliofilo e un collezionista. Una serie di fortunate coincidenze lo portano a salvare dalla distruzione oggetti e carte appartenuti a Marcel Proust.
In un libro denso e affascinante la giornalista Lorenza Foschini racconta di questa passione divorante.
Eccone un frammento, quello della grande scoperta nel magazzino di un rigattiere.

«Tutto qui?» domanda con aria imbronciata?
Werner non risponde, ma lo guida in fondo al capannone. Lui lo segue con lo spirito eccitato che ha sempre quando si sente vicino alla conquista di un libro desiderato, di un manoscritto raro, di qualcosa che racchiuda comunque in sé quel latente mistero che hanno gli oggetti degli altri, quando dagli altri sono stati amati e tenuti come cari. Appropriarsene significa forse trattenere una scintilla di quell'amore, di quel piacere, e sentirsi finalmente appagati; ma c'è di più il sentimento che lo muove non è quello del collezionista, è piuttosto quello del salvatore. Come se una calamita lo attraesse verso l'oggetto insperato, segue il robivecchi fino in fondo al deposito. E lì cosa vede? Annerito, ossidato, ancora rivestito dalla sovraccoperta di satin blu, il letto di ottone dello scrittore, sommerso dalla polvere. Il letto che aveva dall'età di sedici anni, su cui aveva scritto tutta l'opera nelle notti insonni e dove era morto il 18 novembre 1922; 
il letto su cui «giaceva dilaniato dalla nostalgia! scrive Walter Benjamin «per un mondo alterato...». Per il saggista tedesco è la seconda volta nella storia che viene eretta «un'impalcatura come quella sulla quale Michelangelo, la testa all'indietro, dipingeva la Creazione sul soffitto della Cappella Sistina: il letto sui cui Proust malato, le braccia sollevate, copriva con la sua scrittura i numerosi fogli che egli consacrò alla creazione del suo microcosmo».
Guérin è così scosso dall'emozione che le lacrime gli sgorgano copiose sul viso. Sente che il destino lo ha ripagato di tanta ostinazione.

Lorenza Foschini
Il cappotto di Proust
Mondadori 2010


sabato 6 febbraio 2016

L'anima dei poeti si è trasferita nei loro libri

quel che ci rende translucido il corpo dei poeti e ci lascia scorgere la loro anima non sono i loro occhi, né gli avvenimenti della loro vita, ma i loro libri, dove proprio quella parte della loro anima che, per un desiderio istintivo, voleva perpetuarsi si è trasferita per sopravvivere alla loro caducità.

Marcel Proust

venerdì 5 febbraio 2016

Don DeLillo: ecco come procedo quando scrivo

Qualunque caratteristica abbia il linguaggio che uso scrivendo, è semplicemente lì, si travasa da me alla pagina.
(...)
Io sento le voci, guardo le facce, e questo è sempre il punto di partenza, e aspetto di vedere cosa ne scaturirà.
(...)
Alla fine, un romanzo comincia a rivelarmi i suoi temi, ma può anche darsi che ci lavori per un anno e mezzo, prima di avere anche solo un'idea dell'argomento, di che cosa passerà sopra le teste dei personaggi, per così dire... Ecco come procedo quando scrivo.

frammenti dell'intervista di Sybil Steinberg a Don DeLillo

L'arte dello scrivere
dall'esordio al best seller
traduzione di Pietro Ferrari
Marco Tropea Editore 1996

giovedì 4 febbraio 2016

L'emergere della consapevolezza di sé e la scoperta degli altri fuori di noi

Anche in questo frammento di Espiazione, Ian McEwan tocca un vertice di chiarezza e coinvolgimento, descrivendo il momento in cui in una mente giovane e fertile si fanno strada nello stesso tempo la consapevolezza di sé e degli altri fuori da sé con le stesse passioni e desideri feroci. 
Il mondo non è chiaro e conchiuso, il tempo gocciola via seguendo un proprio ritmo. La scrittura è, allora, l'unico modo per mettere in ordine il caos che danza dentro e fuori di noi. 
"L'imparziale realismo psicologico" che McEwan attribuisce alla scrittrice che Briony diventerà, è la cifra della sua stessa scrittura, e che scrittura! 
Nella ricchezza di dettagli e riflessioni che attraversano anche questo romanzo, questo scrittore straordinario crea un mondo plausibile dove viviamo la vita e le emozioni dei suoi personaggi.

E.P.

§§§§§




Briony sedette a terra con la schiena appoggiata a uno degli armadi a muro dei giocattoli e si fece aria con le pagine della commedia. Il silenzio in casa era assoluto: non una voce, un rumore di passi, uno sgocciolio dentro le tubazioni; una mosca imprigionata tra i vetri di una finestra a ghigliottina aperta aveva abbandonato la propria battaglia, e fuori il liquido canto degli uccelli era evaporato nella calura. Allungò le gambe davanti a sé e si concentrò sulle pieghe del vestito di mussola bianca e sulle sue amate grinze di pelle intorno alle ginocchia. Doveva cambiarsi d’abito quella mattina. Pensò che avrebbe dovuto badare di più al proprio aspetto, come Lola. Non farlo era da bambini. Che fatica, però. Il silenzio le fischiava nelle orecchie e la vista le si alterò un poco: si vedeva le mani in grembo insolitamente grandi e al tempo stesso distanti, come se le guardasse da molto lontano. Alzò una mano flettendo le dita e si chiese, come già le era capitato di fare altre volte, come fosse entrata in possesso di quella cosa, quella specie di morsa, di ragno carnoso al suo completo servizio. Che avesse un barlume di vita propria? Piegò un dito e tornò a distenderlo. Il mistero era sigillato nell'attimo prima del movimento, l’istante che separava la quiete dal moto, quando l’intenzione raggiungeva il suo effetto. Era come il frangersi di un’onda. Se fosse riuscita a tenersi sulla cresta, pensava, non era escluso che avrebbe scoperto il proprio segreto, quella parte di se responsabile del fenomeno. Si portò l’indice vicino alla faccia e prese a fissarlo, ordinandogli di muoversi. Il dito restava fermo, perché lei stava solo fingendo, non faceva sul serio, e perché volerlo muovere, o essere sul punto di muoverlo, non era la stessa cosa che muoverlo per davvero. E quando alla fine lo piegò, il gesto parve partire dal dito stesso, non da un punto ignoto della sua mente. Quando sapeva di doversi muovere? Quand’era che lei lo muoveva? Era impossibile cogliersi di sorpresa. Esistevano soltanto il prima e il dopo. Non c’erano segni di cuciture, linee di giunzione, eppure sapeva che al di là del tessuto liscio che la foderava si trovava la vera se stessa - la sua anima forse? - alla quale spettava la decisione di smettere di fingere, per dare l’ordine definitivo. Quei pensieri le risultavano familiari e rassicuranti quanto la precisa configurazione delle sue ginocchia con la loro perfetta ma opposta, reversibile simmetria. Un secondo pensiero faceva immancabilmente seguito al primo, ogni mistero generava mistero; chissà se anche gli altri erano vivi quanto lo era lei. Per esempio, sua sorella era altrettanto importante per se stessa, si giudicava altrettanto preziosa? Essere Cecilia era un’esperienza forte quanto essere Briony? Anche sua sorella possedeva una vera se stessa nascosta sotto la cresta di un’onda, e passava del tempo a pensarci, tenendosi un dito davanti alla faccia? Era così per tutti gli altri, compresi suo padre, Betty, Hardman? Se la risposta era sì, allora il mondo, la società doveva essere complicata in modo insostenibile, con i suoi due miliardi di voci, e coi pensieri di tutti allo stesso livello e le pretese di una vita altrettanto intensa da parte di tutti, e con l’unanime convinzione di essere unici, quando nessuno lo era. Uno poteva annegare in tanta irrilevanza. Ma se la risposta era no, allora Briony si ritrovava circondata da macchine, intelligenti e gradevoli a vedersi, ma prive del genio intimo che lei si sentiva dentro. L’idea era lugubre e malinconica, oltre che improbabile. Perché, sebbene la cosa offendesse il suo senso dell’ordine, doveva ammettere che c’erano enormi probabilità che anche tutti gli altri avessero
pensieri simili ai suoi. Lo sapeva, ma solo in termini di sterile teoria; non lo sentiva davvero. Anche le prove offendevano il suo senso dell’ordine. Il mondo conchiuso che aveva disegnato con la chiarezza di parole perfette era stato snaturato dagli scarabocchi di altre menti, di altri bisogni; e perfino il tempo, così facile da segmentare sulla pagina in atti e in scene, nella realtà gocciolava via a poco a poco in modo incontrollabile.

Ian McEwan
Espiazione
Einaudi 2002


mercoledì 3 febbraio 2016

L'osservatore nascosto: la nascita di una scrittrice secondo Ian McEwan

Come nasce una scrittrice? Briony ha tredici anni, è curiosa e ha già una folle passione per la scrittura. In questo frammento del romanzo Espiazione di McEwan scopriamo la rivelazione della potenza della scrittura in una giovane mente. Io mi ci sono riconosciuta. E voi?

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Ma anche senza lodi, attenzione e palese compiacimento, Briony non sarebbe stata distolta dalla scrittura. In ogni caso andava scoprendo, come già molti autori prima di lei, che non tutte le forme di riconoscimento sono d’aiuto. L’entusiasmo di Cecilia, per esempio, pareva un po’ sopra le righe, viziato da un pizzico di condiscendenza, oltre che invadente; la sorella maggiore pretese di
catalogare ogni singola storia rilegata e di sistemarla in ordine alfabetico sugli scaffali, tra Rabindranath Tagore e Quinto Tertulliano. Se voleva essere uno scherzo, Briony decise di non farci caso. Ormai era avviata, e aveva trovato soddisfazioni su altri livelli; scrivere storie non era solo una fonte di segretezza, le procurava anche il piacere della miniaturizzazione. Cinque pagine appena
potevano contenere un mondo, oltretutto assai più gradevole di quello di un modellino di fattoria. Lo spazio di mezza pagina bastava a incorniciare l’infanzia viziata di un principe, una corsa sotto la luna attraverso villaggi addormentati diventava una frase ritmicamente enfatica, l’atto di innamorarsi poteva accadere nell'arco di una parola soltanto: uno sguardo. Le pagine di una storia appena finita parevano fremerle tra le mani per tutta la vita che vi palpitava. Anche la sua passione per l’ordine risultava soddisfatta, giacché un mondo caotico poteva essere trasformato in ordine perfetto. Una crisi nell'esistenza della protagonista poteva coincidere con grandinate, tuoni, tempeste di vento, mentre l’atmosfera nuziale era di solito benedetta da luce tersa e brezze leggere. L’amore per l’ordine informava anche i principi della giustizia: morti e matrimoni costituivano i motori essenziali della gestione domestica, le prime, tenute in serbo a uso esclusivo dei personaggi moralmente ambigui, i secondi, utilizzati come ricompensa da rimandare fino all'ultima pagina della vicenda.

(...)

Briony si appoggiò contro la parete e fissò imbambolata il pavimento della nursery. Era forte in lei la tentazione di sentirsi al centro di una magia, di un’azione drammatica, e di considerare la scena alla quale aveva assistito come se fosse stata allestita a suo beneficio esclusivo, con il doveroso messaggio morale avvolto dentro un mistero. Ma sapeva benissimo che se non si fosse trovata in quel luogo in quel momento, la scena sarebbe accaduta lo stesso, perché in realtà non la riguardava affatto. Soltanto il caso l’aveva portata a mettersi alla finestra. Quella non era una fiaba, era la vita vera, il mondo adulto, nel quale le rane non parlano alle principesse, e gli unici a scambiarsi
messaggi sono gli esseri umani. Altra tentazione fu quella di precipitarsi in camera di Cecilia ed esigere una spiegazione. Ma Briony resistette, perché voleva inseguire in solitudine il brivido sottile della possibilità che aveva percepito prima, la fuggevole eccitazione nel riuscire a vedere con chiarezza una certa prospettiva, almeno sul piano emotivo. La chiarezza sarebbe cresciuta nel corso degli anni. Alla fine Briony sarebbe stata costretta ad ammettere di attribuire forse alla tredicenne di allora un’eccessiva consapevolezza. A quell'età magari non aveva ancora le parole esatte per dirlo; non era anzi escluso che tutto si risolvesse soltanto in una sorta di smania di rimettersi a scrivere. Mentre restava nella nursery in attesa che i cugini tornassero, sentiva che avrebbe potuto narrare una scena come quella della fontana inserendovi anche il personaggio dell’osservatore nascosto, vale a dire il suo. Riusciva a vedere se stessa nell'atto di precipitarsi subito in camera, davanti a un blocco intatto di carta a righe e con in mano la penna stilografica di bachelite marmorizzata. Riusciva a immaginare le frasi, l’accumularsi di segni telepatici che andavano srotolandosi all'estremità del pennino. Poteva riscrivere la stessa scena tre volte, da altrettanti punti di vista diversi; l’eccitazione le proveniva dalla prospettiva della libertà, dall'essere esonerata dal dover risolvere l’imbarazzante
conflitto tra bene e male, tra eroi e antieroi. Nessuno dei tre personaggi era malvagio, e nemmeno particolarmente virtuoso. Non c’era bisogno di giudicarli. Non occorreva che ci fosse una morale. Le era sufficiente mostrare menti diverse al lavoro, menti non meno vive della sua e in lotta con l’idea della presenza di altri cervelli pensanti. Soltanto una storia permetteva di entrare in più di una testa e dimostrare come ciascuna avesse eguale valore.
Ecco l’unica morale di cui un racconto aveva bisogno. Sei decenni più tardi avrebbe spiegato di quando a tredici anni aveva trovato la propria strada attraversando l’intera storia della letteratura, partendo da fiabe che affondavano le proprie radici nel folklore popolare europeo, per passare all'azione drammatica dal semplice intento morale, e infine approdare a un imparziale realismo psicologico scoperto tutto da sola, in una mattina molto speciale durante l’ondata di caldo del 1935.
Ben consapevole del grado di mitizzazione di se, pronunciò quel discorso in tono autoironico, o scherzosamente eroico. I suoi libri erano noti per la loro amoralità, e come ogni autore tormentato da una domanda insistente, si sentì in dovere di fornire una spiegazione narrativa del fenomeno, una trama del proprio sviluppo che contenesse il momento in cui era diventata se stessa una volta per
tutte. Sapeva che non era corretto riferirsi ai propri drammi al plurale, che quel tono di scherno la separava dalla bambina seria e pensosa di un tempo e che l’oggetto della sua commemorazione non era tanto quella mattina remota quanto le successive elaborazioni dell’episodio. Era possibile che la contemplazione di un dito piegato, l’idea intollerabile di altre menti pensanti e la superiorità dei racconti sui drammi fossero considerazioni fatte da lei in altri momenti. Sapeva inoltre che qualunque cosa fosse in effetti accaduta traeva significato dalla pubblicazione della sua opera, senza la quale sarebbe stata dimenticata. Comunque, non poteva ingannarsi del tutto; non c’era dubbio che una forma di rivelazione si fosse comunque verificata. Quando la ragazzina tornò alla finestra e guardò di sotto, la chiazza umida sulla ghiaia era evaporata. Non rimaneva più nulla della scena muta presso la fontana a parte il ricordo che sarebbe sopravvissuto nelle singole memorie, in tre ricordi sovrapposti e distinti. La verità era diventata non meno fantomatica di un’invenzione. Poteva iniziare subito, metterla giù come l’aveva vista, accogliendo la sfida di rifiutarsi di condannare la seminudità di sua sorella, in pieno giorno, e proprio davanti a casa. Poi la scena poteva essere riformulata, attraverso lo sguardo di Cecilia, e infine quello di Robbie. Ora però non era tempo di incominciare.

Ian McEwan
Espiazione
Einaudi 2002

martedì 2 febbraio 2016

L'ordine della lingua richiede gerarchie, ma altresì scoppi di libertà, divagazioni

Cosa nasconde il cuore di una persona? Bice Mortara Garavelli è una donna apparentemente felice. Il suo Manuale di Retorica è giunto alla sedicesima edizione. Da più di 60 anni la lingua italiana è il suo territorio di caccia. Una laurea con il grande Benvenuto Terracini conseguita a Torino negli anni Cinquanta sulle parentesi e gli incisi. Bice è una donna arguta, curiosa. Vive a Torino con un marito che è stato un importante magistrato e compagno di banco di Umberto Eco. Mario Garavelli coltiva l'arte della discrezione.

È una presenza costante nella vita di Bice. Ma, in un certo senso, invisibile. Almeno è ciò che percepisco, tuffandomi nella vita di questa donna che mi accoglie con una eleganza mentale trafelata, dubbiosa, tormentata. Ma anche ironica.


(...)

Dove ha studiato?
"Università di Torino. Mi laureai nel 1954 con una tesi sulle incidentali nelle proposizioni. Più semplicemente sulle parentesi".

Meraviglioso. Scelse l'argomento più superfluo che ci fosse.
"Superfluo? Forse. Ma un enunciato parentetico aggiunge, chiarisce, caratterizza. Nella scrittura l'inciso è segnalato da parentesi tonda, virgole, lineette. In quello orale da un cambio dell'intonazione della voce".

È come chiudere una frase dentro una gabbia, sacrificarla per meglio far risplendere il resto della proposizione.
"L'ordine della lingua richiede gerarchie, ma altresì scoppi di libertà, divagazioni".


(...)

Qual è il fascino della retorica?
"Direi l'arte di persuadere".

E il limite?
"La capacità di ingannare".

In un politico?
"Se è sprovvisto del senso della cosa pubblica la menzogna diventerà essa stessa cattiva persuasione ".

Quanto incide la retorica in pubblicità?
"Tantissimo. Ma in modo inconsapevole. Un brano pubblicitario mette in gioco tutti i congegni della retorica, ma senza esserne profondamente cosciente ".

La retorica è una forma di potere?
"È il potere di "fare presa" sui destinatari. Ma per catturare le persone cui ci si rivolge bisogna identificarsi con loro. Le diverse maniere di raggiungere tale identificazione sono l'oggetto della retorica".

(...)
Non crede che la retorica ci abbia allontanati dalla verità?
"Nietzsche aveva compreso che il linguaggio è eminentemente retorico e che per questo non vive di verità ma di assenza di verità. Le mobili metafore non sono il riflesso della realtà ma la sua falsificazione o trasformazione".

Come reazione a tutto questo ha deciso di occuparsi del silenzio?
"Anche il silenzio è un linguaggio. Un modo di parlare senza usare le parole. In letteratura e in poesia il silenzio è accostato alla notte, al buio, alle ombre. Ma anche alla quiete e alla pace, come suggerisce Leopardi. Il silenzio vive in ogni tristezza ci ricorda Walter Benjamin; ma alberga anche nell'indicibile come sperimentò Primo Levi ad Auschwitz".

(...)
E lei dove cerca la verità?
"Non lo so. Essa ci appare brutale, drammatica, o magari meravigliosa, solo in alcune circostanze. Non bastano tutte le icone della letteratura, né le figure della lingua per dirci cos'è la verità. Quando penso agli animali che rifiutano il cibo ho la sensazione che in quel dolore o in quell'approssimarsi alla morte si nasconda la verità".


frammenti della bellissima intervista, della serie Straparlando, di Antonio Gnoli a Bice Mortara Garavelli 
Repubblica domenica 15 novembre 2015

lunedì 1 febbraio 2016

con le case dell’isola lontana, per un’alta scogliera di stelle

Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste

e le case di un’isola lontana
color di vela
pronte a salpare –

Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle –


1° febbraio 1934

Antonia Pozzi
Parole: diario di poesia
Mondadori Editore 1964