La bambina correva ai margini del campo, gli ulivi erano un oceano d’argento e i mandorli bianchi e rosa, soffici e immensi quanto le nuvole nel cielo. Ogni tanto saltava la bambina, e le sembrava di toccare il punto più alto nella volta celeste e saltando perdeva i fiocchi dalle trecce e il piccolo annaffiatoio di metallo smaltato, ruzzolava lungo la discesa verso il canale di irrigazione. Quando arrivò al pozzo lo riempì e tornò indietro fino al piccolo recinto dove aveva trapiantato i garofanini che tanto le piacevano. Finito di innaffiare andò a sedersi sotto un mandorlo e lasciò che l’aria profumata la inebriasse, che il ronzio delle api e dei bombi sovrastasse i pensieri e che il mondo intero andasse a rifugiarsi con lei sotto i rami fioriti. Aprì poi il fazzoletto che le aveva dato mamma e la focaccia con i pomodorini, sfornata quella mattina stessa, sprigionò l’aroma familiare e si fece divorare a bocconi piccoli e sistematici. Sapeva, la bambina, che dopo la bellezza dei fiori ci sarebbe stata la bontà dei frutti, sapeva che avrebbe aiutato a sgusciarli e che l’avrebbero pagata. Ma non c’era niente di più bello della fioritura dei mandorli e così pensando sapeva che avrebbe voluto restare là sotto per sempre, che forse, un giorno, avrebbe raccontato a sua figlia quel momento e allora sarebbero state in due a conoscere quel segreto della fioritura dei mandorli e della bellezza che muore per diventare nutrimento.
Il bambino
uscì da casa della nonna con il cavalletto in spalla e la cassetta dei colori,
enorme e spropositata rispetto alla sua magrezza, salda nella mano. A casa si
era esercitato tantissimo, copiava e ricopiava i quadri dello zio Peppe e anche
i disegni. Ma era arrivato, finalmente, il momento di una prova dal vero. Lo zio
diceva che era divertente ma non necessario. Chi aveva occhio, e un bravo pittore
lo aveva, non aveva davvero bisogno di guardare le cose e il mondo in natura,
gli bastava guardare attraverso lo sguardo di un altro pittore. Per questo lui
era così bravo a copiare Van Gogh e non solo. Ma il bambino, che era quasi un
ragazzino ormai, aveva deciso di mettere alla prova le teorie dello zio, l’unico
che lo capisse in casa, e andare nel campo di grano a dipingere, non da
lontano, ma proprio da dentro. E così fece, e dipinse le spighe come Vincent
non le aveva forse mai neanche viste. Ma, mano a mano, che lo sguardo si
allontanava e le spighe rimpicciolivano, ecco che il miracolo si compì, quando
dei corvi gracchianti spiccarono in volo e sovrastarono ogni altra voce. I grandi
corvi erano vasti come le spighe, come il canto delle cicale, come quell’estate
che iniziava ogni mattina e non finiva mai. Pensò al campo dipinto dallo zio e
a quello dipinto dal pittore famoso ma morto da solo. Guardò il proprio quadro
e vide qualcosa di diverso ancora, capì in quel momento la potenza dello
sguardo e che il mondo sarebbe cambiato a ogni minima variazione della luce. Così
si lasciò andare in mezzo alle spighe alte che lo circondavano e guardò il
cielo sino a quando creature velate andarono a occupargli la pupilla e gli
sussurrarono la verità del mondo oscuro che risplendeva sotto le spighe. Aveva voce
quel mondo e lui rispose con un sussurro e un verso.
Un altro
bambino smise di copiare le lettere dal sussidiario e sospirò, pensando che la
scuola non sarebbe cominciata prima di tre mesi ancora. Mise nella bisaccia una
mezza pitta, olive schiacciate condite
con finocchio selvatico e peperoncino, formaggio di pecora. I cartoccetti erano
nuovi, perché era il primo giorno che sarebbe andato a governare le pecore da
solo, ai piedi delle colline e lontano dal fiume, per non rischiare che gli
agnelli scivolassero nell’acqua. Sua madre era già fuori che stendeva il bucato
insieme alla sua sorellina, gli altri due fratelli si dondolavano sull’altalena
e la madre disse loro di andare a raccogliere i pomodori nell’orto, prima che
il caldo fosse troppo alto. Gli disse di seguire i fratelli e di scegliersi un
paio di pomodori maturi per la giornata. Poi andò al pozzo a riempire la
borraccia e gliela porse perché la riponesse insieme al cibo. La bisaccia era
più pesante di quanto non sembrasse, ma la madre non sapeva perché, il bambino
aveva preso anche il libro di scuola e il lapis, perché voleva continuare gli
esercizi di lettura. Si incamminò spingendo le pecorelle insieme al suo cane
Nerone e alla giumenta Ofelia che era gravida e forse avrebbe potuto avere un
cavallino tutto per sé, se la mamma avesse deciso di non venderlo. Quando arrivò
al capanno lasciò che le pecore andassero a brucare dove l’erba era verde
grazie all’acqua che sfuggiva alla fontana. Gli sarebbe piaciuto abitare
laggiù, vicino all’acqua che scorreva, anziché dover faticare per raccoglierla
dal pozzo. Forse un giorno, al posto del capanno, ci sarebbe stata una casa con
un grande orto, i campi di grano sul retro, i fichi e le querce tutto intorno. I
loro campi sarebbero arrivati sino alla grande quercia, forse anche più in là
sino al fiume di cui riusciva a distinguere la voce in quel momento, perché il
canto delle cicale era ancora sommesso.
Ci sono
giorni in cui altre voci arrivano a visitarmi, immagini di paesaggi che non ho
mai visto mi si affacciano alla mente, altri desideri e altri sogni, altri
ricordi che non mi appartengono, si consegnano alla mia voce e alla mia penna e
io li restituisco al mondo in questa Cronaca 387 di martedì 30 marzo 2021, il
secondo anno senza Carnevale.
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