Nella penombra la stanza potrebbe essere un giardino, gli scuri lasciano filtrare la luce dorata del mattino, pochi i rumori in strada, per questo sento il canto degli uccellini, ma non quello delle rondini.
Aspetto con
più impazienza la primavera ogni anno che passa, forse perché so che sono
sempre meno quelle a cui potrò assistere, un pensiero fugace ma presente, non
doloroso, perché è una pura constatazione.
Quello che
a ogni stagione appena iniziata, tra marzo e aprile, mi fa disperare ogni
volta, sono i cambi repentini di tempo, per cui a giornate tiepide e deliziose,
punteggiate dai fiori neonati e dai germogli, seguono acquazzoni, tempeste di
vento e il risultato è sempre lo stesso: pozzanghere che riflettono il cielo
color antracite e i petali strappati che galleggiano nell’acqua e sono riflesso
delle speranze cadute una dopo l’altra.
Contemplare
la natura è una delle più grandi consolazioni di quest’epoca di pandemia e mi
ritrovo a raccogliere foglie e sassi come ho iniziato a fare da bambina, prima
ancora di saper leggere e scrivere.
Forse la
prima lingua che abbiamo imparato è proprio quella degli alberi e dei rami, del
loro netto stagliarsi contro la volta chiara del cielo, dipinti su una carta di
riso sottile con pennelli giapponesi, dalla mano invisibile che colora a ogni
risveglio il mondo, prima che noi apriamo gli occhi.
La lingua
della pioggia è più complicata, perché ha varianti e dialetti che dipendono
dall’intreccio con le nuvole, figlie capricciose del vento e del cielo, figlie
di due padri celesti e di una madre terra che parla, invece, la lingua scura
del fango e del fuoco e svela la sua gemella silenziosa che lavora all’ombra
del vulcano sepolto.
Questa mitologia
ctonia nasceva nel mio teatro mentale mescolata agli antichi miti greci, la cui
narrazione paterna ha accompagnato la mia infanzia.
Persefone non era figlia unica
Gira,
sorella il foglio che
hai in
mano, lascia che io
guardi
il mondo di sopra,
lo sa
nostra madre che sono
ancora
prigioniera? Che Ade
scherza
quando lascia che
tu vada?
Ma come potrebbe
lei, la
madre, conoscermi
quando
sono stata strappata
al suo
grembo e condotta
dal
vecchio fabbro nel silenzio
delle
ancelle e nella rabbia
del re? Lei
non ricorda che
siamo
due perché non lo ha
mai
saputo, non conosce
il patto
scellerato che l’ha
orbata
di entrambe le figlie.
E ora il
re non può rivelare,
pena
nuove carestie e siccità,
alla sua
amante che il suo
grembo
fu fertile due volte,
ma il re
degli Inferi ancora
più
astuto di tutti gli dei.
Io aspetto
solo che tu mi
raggiunga
nella stagione
scura,
ma se non arrivi
presto,
sorella, io fuggirò
e non so
cosa accadrà
dopo. Se
sarà la primavera
a
fiorire due volte, o l’autunno
ancora
più gonfio di acque
morte e
foglie ingiallite, a
costringere
il mondo nei suoi
colori
del tempo che è stato.
Ecco che
sei partita, principessa
dei
germogli, regina di tutte
le rose.
Ti seguirò questa volta
perché i
tempi hanno bisogno
di una
doppia speranza e della
seconda
fioritura, gemella di
quella
che abbiamo appena
veduto.
Così abbiamo
scoperto perché la primavera di quest’anno è doppia, doppia la fioritura,
doppia la speranza. E anche in cielo pare che siano due gli astri che splendono
e i mari si acquietano, accolgono la luna e cullano la luce orfana delle stelle
e noi siamo vicini a questa seconda nascita, a questa primavera inarrestabile e
invincibile come l’estate che ci portiamo dentro.
Oggi è
un lunedì mitologico, il 29 marzo del secondo anno senza Carnevale dove ho
conosciuto la gemella di Persefone ma non ho ancora scoperto il suo vero nome.
Questa Cronaca 386 è madrina delle gemelle di Demetra, ancora non so quali
saranno gli effetti della doppia primavera, forse la pandemia sta scomparendo,
forse il virus si sarà stancato e scomparirà, forse domani usciremo e l’aria
avrà di nuovo il suo profumo.
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