venerdì 31 agosto 2018

Vedere le nuvole, amare le parole

Oliver Sacks, amato neurologo e scrittore, si è entusiasmato tutta la vita per tante cose: – le felci, i cefalopodi, le motociclette, i minerali, il nuoto, il salmone affumicato e Bach, tanto per citarne alcune – ma più di ogni altra cosa sono state le parole a riempirlo di entusiasmo. Quando dico che amava le parole, non mi riferisco al semplice fatto che scriveva e che ha pubblicato tanti libri diventati classici – Risvegli, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Musicofilia. Se non ne avesse scritto nessuno, sono sicuro che Oliver sarebbe stato in ogni caso lo stesso tipo un po’ stravagante che si portava a letto dizionari giganteschi da leggere, aiutandosi con una lente di ingrandimento. Lo appassionavano etimologie, sinonimie e antonimie, slang, turpiloquio, palindromi, termini anatomici, neologismi (ma, in linea di principio, era restio alle abbreviazioni). A tavola, conversava allegramente di analisi e differenze tra omonimie e omofonie, per non parlare di omografie. E, per inciso, adorava pronunciare quelle tre parole – quell'allitterazione di “H” aspirate (rispettivamente homonyms, homophones, homographs) – con il suo caratteristico accento britannico. «Ogni giorno sono sorpreso da una nuova parola», commentò un giorno, raggiante, a proposito di un vocabolo che, all'improvviso, gli era balenato in mente. Spesso questo fenomeno gli capitava mentre nuotava – «quando nuotava a dorso idee e interi paragrafi» si affacciavano distintamente, dopo di che lui si precipitava a riva o a bordo piscina per annotarle su carta – come ha colto Dempsey Rice in un affascinante film di prossima uscita intitolato The Animated Mind of Oliver Sacks. A casa, invece, di frequente – come ha fatto per anni – scriveva parole e idee direttamente sulle pagine dei libri che stava leggendo. Per buona parte della nostra relazione, durata sei anni, mi sono riferito spesso a Oliver chiamandolo “dizionario ambulante” (anzi, un OED ambulante da “Oxford English Dictionary”) perché ricordava l’ortografia e le definizioni delle parole con grande precisione. Malgrado ciò, Oliver rimase sempre umile, non si vantava mai del suo lessico straordinario e, in caso di dubbio, andava a controllare l’Oed (possedeva tutti i venti volumi che lo compongono), oppure il più compatto e sintetico Chamber’s Dictionary, una copia del quale gli era stata regalata dalla zia preferita in occasione del suo nono compleanno. Oliver adorava così tanto le parole che spesso le sognava e, in qualche caso, le inventava addirittura. Una mattina di sei anni fa trovai scritto sulla lavagnetta in cucina “ore 5. Nepholopsia.” «E che diamine vuol dire?» chiesi mentre preparavo il caffè. Oliver ridacchiò, poi si lanciò nella descrizione di un sogno molto complicato che aveva fatto quella notte nel quale, bloccato su un pianeta alieno, aveva visto alcune nuvole antropomorfe trasformarsi in modo minaccioso e riversarsi dall'alto “con intenzioni omicide” sulla Land Rover che stava guidando. Un “incubo nebuloso”, aggiunse, quasi si trattasse del primo che aveva. Per non dimenticarsene, lo aveva annotato alle cinque del mattino. (Parlò poi di questo suo sogno allo psicanalista freudiano da cui si recava due volte a settimana). «Nepholopsia – mi disse – significa “vedere le nuvole” oppure “essere avvolti dalle nuvole”». Poi aggrottò le sopracciglia. No, non ne era molto sicuro. «Controlliamo su un buon testo» disse, e insieme andammo a consultare l’Oed (la “mia Bibbia” lo chiamava spesso Oliver, ateo convinto). Nell'Oed trovammo “nefologia”, che significa studio delle nuvole (dalla radice greca nephos), ma non “nepholopsia”. Saltò fuori che per puro caso aveva coniato una parola nuova. 

(...)

«Il massimo che possiamo fare è scrivere – in modo intelligente, creativo, critico, evocativo – di quello che vuol dire vivere in questo mondo in questa epoca». (Oliver Sacks al suo compagno Bill Hayes)

Bill Hayes
Repubblica 31 agosto 2018

sabato 11 agosto 2018

Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.

La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora.
Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.
Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.
Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio, è scrivere. Dunque è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.
Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.
Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.
Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.
«Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo».
Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.
Non so che cos'è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti.
Marguerite Duras
Scrivere  
traduzione di Leonella Prato Caruso
Feltrinelli 1994


(grazie al blog Il mestiere di scrivere)

venerdì 10 agosto 2018

La poesia non è parole, né un’azione che culmini in fatti

Forme di pensieri

7

La poesia non è parole, né un’azione
che culmini in fatti. Ed è una difficile cosa
e tu non puoi misurarla se non con la tua propria
misura
ed è la tua patria, promessa oppure no.
E lei ti misurerà sul palmo della mano,
ti sedurrà col bene e anche col male, in essa
costruirai la tua casa, altra casa non avrai
anche se il fuoco la divorerà o se d’un tratto sarà
distrutta
Tu senti ancora ciò che dicono nella stanza accanto
e di là dalla finestra
e ascolti o tiri su una tenda
e non c’è nulla là tranne l’eco
e questa è la via del mondo
e questo è il chiuso
oltre cui non passerai.



Nathan Zach
Sento cadere qualcosa
poesie scelte 1960 - 2008
a cura di Ariel Rathaus
Einaudi 2009

giovedì 9 agosto 2018

Un po' del tuo sale azzurro

Arrivederci fratello mare

Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po' della tua ghiaia
un po' del tuo sale azzurro
un po' della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po' più di speranza
eccoci con un po' più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.

Nazim Hikmet

mercoledì 8 agosto 2018

Un sapore proustiano, un profumo, la musica di una frase

Quota 84

Nel giorno del mio compleanno

Dalla torre degli anni che chiamo vita
Guardo nel pozzo: non tempo ma spazio, non qui ma laggiù,
Non senso ma memoria, ovunque in nessun luogo –
La storia incerta, il nodo al fazzoletto,
Il dove-siete-morti-onnipresenti, i vostri nomi
In un istante mi riportano all'infanzia, a ritroso percorro
La lunga strada fino al Natale e i suoi doni.
Così il DNA modella la sostanza dei sogni,
E la vecchiaia non ha motivo d’essere.
Un sapore proustiano, un profumo, la musica di una frase
Sfidano la legge naturale cui si sottraggono.
La vita sarà mia fintantoché io sarò la mia mente
E la gioventù? Sofferenze, ansie e ferite
Meglio ricordate che rivissute.


At 84

On my birthday

I look from the tower of years I call my life
Into the pit: no time but space, no here but there,
No sense but memory, everywhere nowhere –
The doubtful story, the knotted handkerchief,
The where-are-you ever-present dead, whose names
Transport me instantly to childhood, tracking
The long way back to Christmas in a stocking.
So DNA designs the stuff of dreams,
And old is age that doesn’t need to be.
Some Proustian taste or scent or singing phrase
Defies the natural law it disobeys.
Life will be mine as long as my mind is me.
While youth? Its wounds, anxieties and pain
Are best remembered, not endured again.



Anne Stevenson
Le vie delle parole
traduzione di Carla Buranello
Interno Poesia 2018

martedì 7 agosto 2018

Devi abitare la poesia se vuoi fare poesia

Fare poesia

‘Devi abitare la poesia
se vuoi fare poesia’.


E cosa significa ‘abitare’?

Significa portarla come un abito, indossare
le parole, sedendo nella luce più netta,
nella seta del mattino, nel fodero della notte;
un sentire spoglio e frondoso in un’aria che sorprende;
familiare…insolita.


E cosa significa ‘fare’?

Essere e diventare il clima mutevole
delle parole, il servo della musa a condizioni
atroci, intraprendere viaggi sopra voci,
evitare la collina dell’ego, il pozzo dell’afflizione,
la sirena che sussurra stampare, successo, stampare,
successo, successo, successo
.


E perché abitare, fare, ereditare poesia?

Oh, è la commedia condivisa della peggiore
benedizione; il suono che guida la mano;
la parola vitale che scorre da una mente all'altra
attraverso le stanze lavate dei sensi;
una di quelle stregate, indifendibili, impoetiche
croci che pur dobbiamo portare.



Making Poetry

‘You have to inhabit poetry
if you want to make it.’


And what’s ‘to inhabit’?

To be in the habit of, to wear
words, sitting in the plainest light,
in the silk of morning, in the shoe of night;
a feeling bare and frondish in surprising air;
familiar…rare.


And what’s ‘to make’?

To be and to become words’ passing
weather; to serve a girl on terrible
terms, embark on voyages over voices,
evade the ego-hill, the misery-well,
the siren hiss of publish, success, publish,
success, success, success
.


And why inhabit, make, inherit poetry?

Oh, it’s the shared comedy of the worst
blessed; the sound leading the hand;
a wordlife running from mind to mind
through the washed rooms of the simple senses;
one of those haunted, undefendable, unpoetic
crosses we have to find.



Anne Stevenson
Le vie delle parole
traduzione di Carla Buranello
Interno Poesia 2018

lunedì 6 agosto 2018

Le vie delle parole


Come arrivano le poesie

Rigirale in bocca sottovoce
Poi lasciale vagare nella mente
Finché un significato prende forma.


Come l’amore, sono più forti se accolte alla cieca,
Giudicate all'istante, percepite con sensi acutizzati
Mentre ancora non è chiaro se siano necessarie.


L’emozione imprecisa – intensa
Quanto un’azione adrenalinica –
Si nutre di sé stessa, e a sua difesa


Si immagina un ruolo umanitario,
Ma le poesie, siano maschi o femmine, sono vanesie
E traggono le proprie soddisfazioni dall'interno,


Sfoggiano vocali, o esibiscono catene
Di elle ed emme d’argento per fare mostra
Di intimità o di biasimo, di gioia o di dolore.


Le vie delle parole sono strette ed egoiste,
Esige ognuna uno spazio adeguato al proprio peso.
Non serve scandire i versi ad ogni frase,


Ma una sorta di battito deve integrare
Il suono che la poesia fa quando è inventata.
Sennò, scrivi prosa. Oppure aspetta


Che arrivi e sia lei il proprio intento a dichiarare.

How Poems Arrive

You say them as your undertongue declares
Then let them knock about your upper mind
Until the shape of what they mean appears.


Like love, they’re strongest when admitted blind,
Judging by feel, feeling with sharpened sense
While yet their need to be is undefined.


Inaccurate emotion – as intense
As action sponsored by adrenaline –
Feeds on itself, and in its own defence


Fancies its role humanitarian,
But poems, butch or feminine, are vain
And draw their satisfactions from within,


Sporting with vowels, or showing off a chain
Of silver els and ms to host displays
Of intimacy or blame or joy or pain.


The ways of words are tight and selfish ways,
And each one wants a slot to suit its weight.
Lines needn’t scan like this with every phrase,


But something like a pulse must integrate
The noise a poem makes with its invention.
Otherwise, write prose. Or simply wait


Till it arrives and tells you its intention.

Anne Stevenson
Le vie delle parole
traduzione di Carla Buranello
Interno Poesia 2018

domenica 5 agosto 2018

Guardare un albero, scrivere un film: un periodo di astrazione e acutezza, di umidità

Una domanda antica e persistente.
     Come nasce un'idea? E in particolare l'idea di un film?
     Chi risponderà che l'idea gli è venuta mentre guardava un albero dirà una verità e una menzogna.
     Verità, nella misura in cui durante una passeggiata si è fermato a guardare un albero, senza una ragione precisa, mentre nulla sembrava costringerlo a farlo. Né la forma dell'albero, né il colore, né la vecchia ferita sul suo tronco conducevano a un'idea.
     Menzogna, nella misura in cui quando si è fermato a guardare l'albero, qualcosa - una frase ascoltata per caso in strada, tempo addietro, oppure letta in un libro, una notizia irrilevante comparsa sui giornali, un'immagine, intorpidita o dormiente in fondo al magazzino delle immagini che ognuno possiede - dopo un lavorio sotterraneo, di giorni, di mesi o di anni che si compiva segretamente dentro di lui - in quel preciso momento gli si è ripresentato, trasformato. Quel momento è diventato così, in modo inatteso, un incontro privilegiato con l'indicibile.
     L'albero non c'entrava proprio niente. Era innocente. In questo senso, tra verità e menzogna, potrei dire che l'idea delle nozze sul fiume nel Passo sospeso della cicogna è nata sull'autobus che mi portava da Broadway al Bronx, mentre attraversavo Harlem in una strana primavera del 1987.
     Ma cos'è che si è risvegliato in quel momento, trasformato e reso quasi irriconoscibile dall'oblio?
     E perché?
     Una lettura, probabilmente su un giornale del 1958.
     La lettura potrebbe essere la storia della sepoltura di un pastore, in un'isoletta a qualche decina di metri da Creta ma ancora nella sua ombra, dalla parte meridionale, verso il mar Libico. Inverno, mare in tempesta: impossibile fare la traversata in barca e un pastore morto aspetta di essere seppellito.
     Il papàs del paese più vicino a Creta era stato avvertito con delle segnalazioni. Venne, salì su una roccia, con l'abito che garriva al vento e si mise a dir messa al mare, mentre i pastori, dall'altra parte, sull'isoletta, seppellivano il morto. 
     Ma era proprio questo? O c'era qualcos'altro? In quel momento quale associazione di idee si completava nel silenzio, eppure in modo tanto decisivo, da sovrapporsi a quel che vedevo dal finestrino dell'autobus? (Harlem, nel sole del pomeriggio, magica e terribile al tempo stesso.) Come ha interferito (proprio come un altro canale interferisce improvvisamente con quello che stavamo guardando in televisione) l'immagine fantastica di un fiume, che fa da confine tra due Stati, con la bianca figura della sposa da una parte e dello sposo dall'altra?
     Il periodo che precede la realizzazione di una sceneggiatura è un periodo di umidità, con strane variabili, strane percezioni apparentemente irragionevoli. Un'alternanza di astrazione e acutezza. È un periodo di doppia vita. La parte rumorosa di te vive la quotidianità come sempre, mentre quella silenziosa tesse in segreto, con materiali invisibili, ciò che, a un certo punto, maturerà e uscirà in superficie, quando meno te lo aspetti, attraversando con stupefacente facilità tutti i filtri della quotidianità.
     Chi dirà che l'idea di un film è nata guardando un albero dirà la verità.

Theo Anghelopoulos
In luogo del prologo
in
Petros Markaris
Diario di un'eternita
Io e Theo Anghelopoulos
traduzione di Andrea Di Gregorio
La nave di Teseo editore 2018