mercoledì 30 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/206: entrare nella stagione fredda attraverso un arco di neve

 


Per lasciare spazio alla poesia non dobbiamo sottrarre spazio alla vita. Perché di vita la poesia si nutre e quando noi la invitiamo ecco cosa accade:

  

Gli ospiti chiamati all’immensa tavola del mondo

 

Alla tavola imbandita non posso

più chiamare nessun nome,

nessuno si presenterà anche se

alzerò la voce, nessuno spezzerà

il pane o verserà il vino.

Per ogni commensale ho scelto

la pietanza più amata, il cibo

preferito, ma anche così so

che gli invitati sono ombre

e di aria nutrono i loro

corpi sottili che solo nell’ora

incerta che tra la notte e il giorno

sta, diventano visibili.

Per voi che siete stati

ospiti all’immensa tavola

del mondo, alla chiara

tavola che ospita non solo

cibo ma anche le mie parole,

ho preparato un pasto per

ricordarvi tutti.

Pomodori rossi e peperoni verdi,

pane impastato e cotto da mani

antiche, acqua presa alla fonte

dove si abbeverano ancora

i nostri desideri, dolce e fresca

più dell’ombra meridiana.

Miele raccolto dai favi, scintilla

d’oro e sillaba perduta,

latte nero dell’alba che

disseta la poesia, poi bianco

nella brocca, schiumoso quanto

le nuvole che ho invitato

a farmi compagnia.

Olio distillato dagli ulivi antichi

dove sedevamo nei pomeriggi

estivi, vicino alla quercia immensa

che tiene nel tronco le mie prime

parole, che tiene il tuo sguardo

che per primo le ha sillabate.

Abbiamo avuto tutto ciò che

ci occorreva e per chiudere

questo banchetto di ricordi e

nostalgie, sgranerò questo

primo melograno e lascerò che

il suo succo aspro coli lungo

le mie mani e il profumo invada

ogni aria intorno e il tuo piatto

di nuovo vuoto, la sedia

scostata, mi diranno che qui

sei stato e ora a un altro

tavolo porti quel che qui manca:

il tuo vero sentire.

 

Il primo melograno l’ho sgranato chicco a chicco e ogni grano ora risplende sulla porcellana bianca, pronto a diventare una lieve offerta che i venti della stagione già stanno gridando in giro.

Potrei offrire questo dono al Re dei regni inferi, ma so che in cambio otterrei solo ombre che mi conoscono già e lui non ama questo frutto che gli ricorda la sua sposa ribelle.

Se offro il melograno alla Dea della memoria, andrà meglio, perché un’immagine di sicuro mi arriverà e sarà qualcosa che ho dimenticato, qualcosa che tornerà a essere vivo o viva e mi accompagnerà lungo il crinale della sera.

Mi resta una terza via, chiedere alla Signora dell’immaginazione di accettare questo dono terrestre, succoso e profumato e, in cambio, farmi accedere alla dimensione celeste dove lei regna senza rancori, senza rimpianti e si ciba del tenue azzurro dei giorni che saranno.

Poi guardo la sua tavola e scopro che accanto al mio melograno, al mio vero sentire, stanno la cenere e il fuoco dei regni sotterranei, stanno le tele tessute da Mnemosine e dalle sue ancelle.

Tutto è pronto per il banchetto serale e io capisco che non ci sarà festa senza che i doni terrestri e celesti, sotterranei o verdi, non vengano aspersi dalle acque di ogni regno, senza che i venti ne abbiano portato l’aroma su ogni tavola.

È un rito questa festa, è una fine e un nuovo inizio. Così indossiamo i mantelli e andiamo.

 

Le foglie che ci aspettano

 

Entrare nella stagione fredda come

si varca una porta. Scoprire che

la porta è un arco di neve che ci

sta sognando, lasciare che il sogno

parli alla memoria, scoprire, infine

il vero colore dei tuoi occhi. Che è

il colore di tutte le foglie rannicchiate

nell’alba, silenziose e in attesa.

Accarezzare i venti e aspettare che

il sogno diventi vero e le nostre

fiamme danzino all’unisono.

Guardare le foglie che si abbandonano

al fuoco, diventano rosse e poi

svaniscono anche nei nostri

sguardi che restano rossi però, perché

guardiamo le mele sul tavolo e

scriviamo nuove poesie.

 

Ecco, settembre ci sta salutando con un inchino, il sole è già tramontato, l’aria si raffredda.

Questa Cronaca 206 ci saluta in un turbinio di foglie e di poesie.

Gli ospiti chiamati all’immensa tavola del mondo l’ho scritta su invito di Guido Oldani per il volume Il segreto delle fragole Lietocolle, 2015, dedicato al tema del cibo in occasione dell’EXPO a Milano, e l’ho poi pubblicata nella raccolta Scrivere il vento, Atì editore 2016. Le foglie che ci aspettano è inedita, scritta per questo trentesimo giorno del nono mese dell’anno senza Carnevale.

martedì 29 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/205: settembre è una cantilena, è il volo gentile delle foglie tra le braccia del vento

 Giornata quieta, prima fresca, poi calda. Molto da fare qui nella città silenziosa e anche nella Casa delle Parole. Lunghi dibattiti sul senso del nostro fare, su questo autunno incerto, sul mondo in bilico tra due mondi. Sui cambiamenti che stentano a manifestarsi, sulla tristezza che è il primo frutto di questo autunno, sulle foglie che cambiano colore e poi si schiantano.

Settembre è quasi finito, così ho deciso di salutarlo con un brano dal mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese che ancora oggi continua a raccontare con la sua stessa voce Milano, città che amo e amo sempre più. Non so se ho ancora nostalgia del mondo raccontato in quel capitolo che oggi, mi appare ancora più remoto. Ed è davvero remota, questa Milano che non esiste più se non nei nostri ricordi.

Settembre, al Molinetto del Lorenteggio

 

Il mese delle tane. Nell’aria si sente l’odore dell’inverno che si avvicina. Nelle strade risuonano i passi di chi sta cercando rifugio. Le albe arrivano piano, ammantate dalle prime foschie. Odore di bagnato, è questo che regalo a settembre. Fermarsi nell’autogrill al casello di Melegnano, annusare l’aroma forte della benzina, nei bagni dietro la stazione, quello acre di chi ha trascorso la notte viaggiando. Entrare nel bar e ordinare un caffè e un cappuccino, comprare il giornale, leggere i progetti nei visi stanchi degli altri viaggiatori. Tra poco saranno a Milano, le vacanze sono davvero finite. È questo l’inizio dell’anno nuovo. Rituali di un mondo in estinzione, si compiono di nuovo in questo inizio di mese. Riaprono le grandi fabbriche del nord, benché non si sappia fino a quando. L’aria già pesante si ispessisce ancora di più. Entrano gli operai, ormai invisibili nelle statistiche e nella nuova sociologia. Finito il lavoro, finita la fabbrica come luogo di creazione di identità. Finito il modello fordista, dicono. Chi lo viveva, quel modello, ne sentirà davvero la mancanza? Non credo, come si può sentire la mancanza di otto ore di schiena spezzata, a mettere insieme pezzi di oggetti destinati all’usura e in quei gesti consumare la propria vita? Ma almeno si poteva dire: sono un operaio dell’Alfa, della Breda, della Marelli, dell’Ansaldo. Ora sono un cassaintegrato, un pensionato, nessuno. Se non produco non sono nessuno, ecco la folla degli invisibili che sale, come un’onda di marea, per le vie deserte della città.

Tra poco riapriranno anche le scuole, il traffico lieviterà come un fungo impazzito, madri frettolose e padri distratti porteranno i figli sino al portone delle elementari. I negozi hanno cambiato di nuovo colori. Ora è tutto un apparire di zaini sgargianti quasi sempre più grandi dei bambini, di diari di eroi dei fumetti, uno in particolare dovrebbe traslocare a Milano, si chiama Dylan e qui in città lo leggono tutti. I suoi fantasmi, i suoi incubi, già ci abitano in questa città.

Riappaiono puntuali anche i venditori ambulanti, tanto dopo un po’ non ci si fa più caso. Riappaiono gli strilloni dei giornali di strada, sono tanti, anche se forse il più famoso è Terre di Mezzo. Le terre abitate dagli invisibili, da quelli che noi vorremmo non vedere. Ma ritornano, indisponenti come coscienze che non si arrendono allo spirito del tempo. Sono terre che i nostri passi rifiutano di calpestare, sono mondi che i nostri cuori rifiutano di conoscere. Ma sono una delle anime di questa città desolata che non spera in nessuna redenzione e cieca annega, nel lavoro e nelle apparenze, la sua umanità dolente. Ma se si ha questo piccolo coraggio, varcare quella soglia, quest’ora che pare avvolta in veli pesanti, può placare le inutili preoccupazioni delle notizie lette sui giornali, dei pettegolezzi variamente mascherati da attualità e cultura che infestano anche i pochi di buon senso. Ecco che uno squarcio si apre sul mondo degli invisibili, un varco in uno degli universi paralleli che popolano questa città. I più avventurosi, degli abitanti visibili della città, frequentano i ristoranti etnici che aumentano di giorno in giorno: eritrei, senegalesi, indiani. Qualcuno riesce anche a stupirsi della povertà di quelle cucine, meglio non andarci più di un paio di volte all'anno.

Ma queste porte sugli altri universi si chiudono tanto veloci quanto veloci si sono aperte. A nessuno è dato di abitare per più di qualche ora in un mondo che non gli appartiene.

Tutti tornano alla fabbrica, alla banca, all'ufficio, ai panini veloci, mangiati in piedi, tornano ai telefoni che squillano incessanti, tornano alle code serali del supermercato, all'aperitivo rubato prima di tornare a casa, allo sguardo prolungato di un collega nuovo che lavora al secondo piano. Se avessi un respiro sarebbe il respiro di un sofferente.

A settembre non piove quasi mai, a causa dell’ozono si sconsiglia a vecchi e bambini di uscire per strada. Ma uscire per strada, per fare cosa? Intrappolarsi in corso Vercelli o in Corso Buenos Aires a guardare i negozi, ecco che appaiono i primi vestiti invernali. Quest’anno ancora le scarpe con le punte quadrate, come quando eri bambina. Vedere tornare di moda capi d’abbigliamento di adolescenze e infanzie lontane, questo è segno dell’essere passati di moda. Grande intuizione e addio moda, tra poco cominciano le sfilate di non si sa mai quale futura stagione. Chissà se faremo vacanze l’anno che verrà. Cos’altro succede di questi tempi?

Escono i nuovi film nelle sale di prima visione, pare che ci sia più gente che in passato al cinema, soprattutto di pomeriggio. Escono mucchi di nuovi libri, è un po’ una rentrée, anche se di consistenza di molto inferiore a quella francese o americana. Questo preteso cosmopolitismo è la mia più evidente malattia che finisce con il far risaltare tutti i tratti da città di provincia che posseggo. Però riprendono anche le attività culturali, fioriscono le associazioni e questo è un tratto che della città piace, e non solo agli intellettuali.

Libreria Utopia, Casa della Cultura, Punto Rosso, Libreria delle Donne, Casa Zoiosa, Libera Università delle Donne. Ce ne sono tanti, ma non abbastanza per sfamare tutti i bisogni inconfessati dei divoratori di libri, degli affamati di idee. Ce ne sono più di quanti non si creda in questa strana città. Consumatori abituali di razioni massicce di parole stampate.

Leggere per essere altro da quel che si è, leggere per scoprire quel che si è, leggere per essere altrove, leggere per alzare gli occhi e non vedere intorno a sé solo palazzi e visi annoiati, ma scorgere la nuvola a forma di drago, i bambini che corrono tra passanti esausti, vecchi che giocano con i cani.

Ma è settembre, settembre, ripeterlo come una cantilena.

È settembre, le giornate si accorciano, gli amori finiscono. Meglio non innamorarsi a settembre, questi amori nascono difettosi, è raro che vadano oltre le lunghe nebbie dell’inverno.

Meglio prepararsi, preparare le tane, foderarle di libri e scorte contro il freddo e contro il buio. Chiudersi nelle proprie piccole malinconie, andare a letto presto la sera. Ma prima uscire a passeggiare poco dopo il tramonto, mentre i lampioni si illuminano e per un momento quasi impercettibile tutto si acquieta e io divento silenziosa. Poi tornare in casa, ascoltare Köln Concert di Jarret e respirare l’aria umida della sera incombente. Indossare abiti neri e prepararsi a una notte di festa, anche senza molta voglia di stare in mezzo alla gente.

 

Sì, è davvero tutto cambiato nella città dove vivo. Anche senza la pandemia le cose sono mutate, un po’ grazie all’Expo, molto a causa delle tecnologie e dei social. Come se quest’epoca di relazioni virtuali avesse scelto il Covid-19 come virus prediletto, per costringerci a stare lontani, a stare chiusi nelle nostre case.

 

Questa Cronaca 205 è molto sociologica e un po’ nostalgica e accompagna il ventinovesimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale. La foto l'ho scattata dal tram 12 qualche anno fa.

lunedì 28 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/204: quieta e limpida, è un canto l’ape che riposa in compagnia, nella luce scura dell’arnia

Mi chiedo da sempre cosa accade alla luce quando non la guardiamo. Smette forse di risplendere? Diventa buia?

Da sempre mi chiedo cosa accade agli oggetti di casa quando usciamo. Si muovono, giocano, cercano un posto migliore, si amano come fanno il soldatino di piombo e la ballerina?

Il mondo esiste senza i nostri occhi? Esiste senza il nostro sguardo? Dovrebbe essere così ma, poeticamente, ne sono sempre meno sicura.

Senza lo sguardo dell’amante, l’amata non esiste ancora. Sono l’occhio amoroso e le parole che lo accompagnano, a creare il nuovo mondo dove l’amore germoglia come se primavera avesse toccato lieve i suoi rami.

Così, mentre oggi mi stavo chiedendo del volo incantato delle api nei cieli d’autunno, questa poesia mi ha trovata:

 

Va l'ape gialla da incavo in incavo,

non breve la sua corsa nella luce;

vola fuori gioiosa nella grande pianura,

bello il convegno: ritrovarsi nell'arnia.

 

Ecco che ho avuto la mia risposta, gialle come un’ape e luminosa. Nell’arnia ci sono riparo, miele, le compagne e la Regina. Ma non la luce che è solo intorno e fuori. Allora forse non sempre la luce è necessaria alla poesia?

La poesia si nutre anche di miele e luce, di neve e nitore, di angeli e api che cedono la loro forma ai versi:

 

 

Per questo Doire mi è cara;

perché è quieta, perché è limpida;

è tutta piena di angeli bianchi

da un canto all'altro.

 

 

Quieta e limpida è stata la mattina di questo giorno freddo e ho inseguito con lo sguardo gli angeli in cima ai palazzi. E non erano solo angeli di pietra.

E il canto della breve quartina che avete letto non è solo, non indica solo che gli angeli hanno una voce, ma che la voce si diffonde da un angolo all’altro del cielo.

Che ricco bottino di immagini e antichi versi. Leggere le parole che arrivano da secoli remoti, pensate e scritte da donne e uomini senza volto, mi emoziona forse ancor di più che leggere i versi di autori moderni e contemporanei. Ma arriva un momento, in ogni tempo, in cui il poeta svanisce nei versi che ha scritto e quel che resta è solo quel canto limpido e alto.


La Cronaca 204 ci introduce nella trentesima settimana da che ho iniziato a scrivere dell’anno senza Carnevale. Oggi è l’ultimo lunedì di settembre, il suo ventottesimo giorno.

La prima quartina risale al Secolo IX, frammento tratti dal Libro di Uì Mhaine e dal Libro di Ballymote.

La seconda quartina è del Secolo VI; frammento attribuito a San Columcille. (Doire è l'antico nome di Derry, la città dove San Columcille aveva fondato un monastero) e me l’ha segnalata e letta il poeta Danilo Bramati che ha evocato Emily Dickinson, come se lei si fosse affacciata da questi antichi versi.

domenica 27 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/203: una voce stonata nel coro del mondo (che continua a cantare)

Tutto il parlare e leggere di scuola, bambini e didattica a distanza continua a farmi riflettere su come stanno i bambini, su chi sono i bambini.

 Prima di tutto i bambini non sono angioletti innocenti, i bambini sanno essere crudeli tra loro, sono egoisti e testardi, certo. Ma non c’è sguardo di bambino sul mondo che non abbia la freschezza di un’alba neonata.

 Vi ricordate com’era essere bambini? Vi ricordate la gioia del ritrovare i compagni di gioco e di scuola? La gioia di stare in braccio a mamma, papà o qualunque altra persona adulta ci volesse bene?

 Non sto cercando di dipingere un ritratto idilliaco dell’infanzia e dei bambini, tanta gente rimuove il dolore e la crudeltà dell’infanzia. Quelli che ricordano molto, di solito, sono gli artisti. Come se non avere interrotto l’esile legame con l’alba della propria vita, fosse una condizione necessaria per creare nuove opere anche quando il tramonto si avvicina.

 Correre mi piaceva più di tutto. E saltare verso il cielo per vedere se ero abbastanza brava per arrivarci. Anche mia madre saltava allo stesso modo. Andare in bicicletta, giocare a nascondino. Stare con la testa immersa in un libro per tutto il pomeriggio.

Libri e bambini sono sempre un binomio vincente, perché i bambini conoscono le parole come se fossero farfalle posate sui fiori e amano le storie, perché sanno con il corpo e con la mente, per puro istinto, che noi esseri umani siamo fatti di storie ripetute, di boschi immensi e minacciosi, di sorgenti e sentieri. I bambini conoscono ancora la strada per la terra delle fate e di notte arrivano in quella del sogno molto prima di noi.

Per questo leggere storie e favole ai bambini è importante e fa bene sia a loro che a noi adulti. Mi dispiace, e pure mi irrita, quando altri adulti mi dicono “sì, ma mica tutti i bambini sono così fortunati, le guerre e le carestie e le migrazioni…”. So queste cose, le so molto bene e proprio per questo sono sempre più convinta che la scelta quotidiana di fare del bene, la scelta di lottare contro il male che ognuno ha dento di sé, sia ancora più importante. Il bene si comincia a farlo con chi ci sta intorno. È nel qui e adesso che possiamo fare qualcosa per il mondo.

Noi occidentali siamo stati formidabili nel creare e prolungare all’infinito l’infanzia e ancor più l’adolescenza. Che sono fasi della vita provvisorie che conducono alla maturità e poi al declino e alla scomparsa. Tutti i sistemi complessi, e anche quelli semplici per dirla tutta, si comportano allo stesso modo.

Non tutti gli adulti si ricordano dei bambini che sono stati, non tutti riescono a prendersi cura perché hanno dimenticato. Non ricordano com’era cantare in un coro e pensare di essere l’unica voce stonata. Non tutti ricordano la paura di non farcela, la paura di deludere i genitori, di non essere all’altezza delle aspettative delle maestre.

Cerchiamo le tracce dei bambi che siamo stati, gioiosi o tristi lo siamo stati tutti. Cerchiamo quelle tracce nella nostra memoria, cerchiamole nei libri e lasciamo che quei bambini tornino ad affacciarsi e ci donino lo sguardo nuovo sul mondo che le difficoltà della vita hanno offuscato.

Parliamo con i bambini e ridiamo con loro, giochiamo, leggiamo le stesse favole e lasciamo che la gioia ci sorprenda e ci salti al collo come fanno i gatti, così, all’improvviso e senza motivo.

 

Questa Cronaca domenicale nasce il ventisettesimo giorno dell’anno senza Carnevale e mi fa compagnia insieme alle favole che sto rileggendo, mentre la bambina che sono stata mi sorride in una foto del giorno del mio primo compleanno. 

sabato 26 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/202: la bambina che voleva essere una biblioteca nella città silenziosa

Come chiamavamo quei giorni sospesi tra la fine dell’estate e l’inizio della scuola? L’erba nei prati ritornava cosa viva, il pastore guidava ai rifugi autunnali il suo gregge di pecore che sembrava sempre più numeroso di quello che era passato in primavera.

Eravamo stretti tra il buio della sera iniziata il giorno prima e il buio della nuova sera che arrivava. La luce rimpiccioliva a ogni tramonto come un abito di seta lavato troppe volte in lavatrice.

Noi eravamo vivi in compagnia della luce morente, ogni mattino speravamo che non piovesse, che l’autunno fosse gentile, che il profumo del pane appena sfornato continuasse a solleticare le nostre narici. Nelle poche ore pomeridiane ancora libere dai compiti, giocavamo a palla fuoco senza sosta.

Il fuoco era dentro di noi, non solo nel cielo e nei camini, non solo nelle cucine. Era così facile immaginare che poi, dopo, tra qualche anno, una volta finite le corse e i giochi di palla, avremmo ripensato a quei pomeriggi senza nome sospesi, però, nel nome della stagione nuova che non portava speranze, ma nidi vuoti e ali ripiegate.

C’erano i libri, c’erano i libri e in compagnia di un libro non ho mai avuto paura o nostalgia. Non so se i libri mi hanno cercata per farmi compagnia nella mia solitudine o è stata la solitudine che ha cercato i libri e li ha schierati come una guardia medioevale fuori dalla mia torre, almeno all’inizio.

Poi ho scoperto che i libri aprivano porte invisibili, mi lasciavano accedere a mondi reali immaginati o ricordati o tutte e due le cose insieme.

Ho imparato dai libri che le emozioni hanno un sentimento accanto, ho imparato a dare un nome a ciò che provavo, ho imparato a rendere grazie perché la mia vita era piena di libri e la compagnia di un libro era la gioia più pura che sentivo intorno a me. Ero avvolta da misteri e amore, fughe e speranze. Non erano molti i bambini che avevano libri in casa e genitori che amassero leggere. O che avessero tempo e desiderio di leggere. Ci muovevamo in transumanza, come quelle pecorelle che vedevamo passare due volte all’anno, ma i miei amati libri mi avevano resa una diversa. Spesso il pomeriggio ero l’ultima a scendere in cortile a giocare, perché avevo letto e riletto lo stesso libro, magari Il richiamo della foresta per due volte di fila come ricordo di avere fatto.

Leggere un libro quando si è bambini è finire in una macchina del tempo, basta anche un frullatore fatato, forse, e uscirne irrimediabilmente altro da sé.

Per questo ho riconosciuto quel brivido, mai perduto, e che l’autunno mi riporta ogni anno, quando ho letto queste parole di Amos Oz, tratte dal suo magnifico romanzo autobiografico Una storia d'amore e di tenebra:

  

“Solo di libri, da noi, c’era abbondanza da una parte all’altra, in corridoio e in cucina e in ingresso e sui davanzali delle finestre e dappertutto. Migliaia di volumi, in ogni angolo della casa. C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, i libri invece godono di eternità. Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore non è difficile ucciderlo. Mentre un libro quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca, a Reykjavik, Valladolid, Vancouver”.

 

Il desiderio di essere un libro in me era già andato oltre, perché da bambina avrei voluto essere una biblioteca, non in ordine alfabetico o tematico, la mia biblioteca sarebbe stata in ordine di passione e d’amore, che come sappiamo a volte si intrecciano e si fondono. Altre volte si combattono sino a distruggersi a vicenda. Quel che resta dopo lo scontro, è la gioia di essersi incontrati, la gioia che avvolge anche questo giorno luminoso e freddo, dove donne e uomini mascherati non hanno lasciato impronte nei miei occhi, dove ho cercato di guardare le loro mani per capire in che angolo della foresta che è il nostro mondo, si fossero rifugiati tra scimmiette urlanti e pappagalli copioni, i loro cuori.

Intorno la città era una teoria di finestre cieche, negozi abbandonati, strade deserte e rumori sordi che inseguivano il silenzio.

Ero con mio fratello Alessandro e mio nipote Andrea, quando una ragazza distratta ha attraversato in bicicletta e sulle strisce mentre il suo semaforo era rosso. Qualunque cosa stesse pensando non la dimenticherà mai, l’auto di un vigilante l’ha urtata. Per una frazione di istante, per pochi centimetri, anziché essere sbalzata in aria tutta intera, l’urto ha fatto volare verso di noi la catena della sua bicicletta e lei ha solo perso l’equilibrio senza neanche cadere.

Gli angeli affollati sui tetti si sono congratulati l’un l’altro per lo scampato pericolo. Dalle terrazze i fantasmi si sono mostrati nei loro profili evanescenti e hanno capito che non ci sarebbero state nuove visite questa mattina.

Insieme a fantasmi ed angeli entro ed esco da questa realtà e dalla città silenziosa e torno nella Casa delle Parole, dove il camino è acceso e David il poeta attendeva il mio ritorno.

Benvenuto buio che accompagni gli occhi al riposo, benvenuta notte che pacifichi il giorno e lo conduci al suo declino senza proteste.

La cesta dei giorni che sono stati è accanto al camino, i ciocchi alimenteranno il fuoco della memoria nel tempo che sarà.


Questa Cronaca 202 è figlia del vento - forse di tramontana? – che ha insidiato la città silenziosa e le Montagne della Nebbia senza mai fare una sosta. Oggi è stato il ventiseiesimo giorno del mese di settembre dell’anno senza Carnevale. La Poesia sonnecchia come un gatto nella cesta dei giorni, ma ascolta tutto e presto tornerà per dire. 

venerdì 25 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/201: il poeta prima trova e poi cerca, sorretto da ali splendenti, nutrito da radici profonde

 Crediamo che lo sguardo della memoria si affini con distanza, lontananza e tempo. Più il passato rapisce e frammenta gli episodi della nostra vita, più i paesaggi, le persone e le cose diventano minuscoli puntini in un firmamento del nulla, più pensiamo che ecco, che finalmente capiremo.

 

Ma questo è un errore di prospettiva, non bisogna concentrarsi su questi frammenti quasi invisibili e ricostruire una trama come si fa con certe figure nascoste in un disegno dove bisogna unire dei numeri per scoprire l’intero.

Non bisogna fidarsi della lontananza, bisogna forse accettare il fatto che la memoria funziona come un microscopio e non come un cannocchiale.

Così se guardo ad avvenimenti molto, molto lontani nel tempo, vedo i protagonisti così vicini e le loro parole risuonano alte come se fossimo ancora accanto.

E guardando con gli occhi della memoria, che non sono più gli stessi e forse non sono nemmeno più i miei, mi sono resa conto che non basta tornare a curare le radici dei bambini che siamo stati, bisogna tornare a curare le ali degli adolescenti che siamo o non siamo riusciti a essere.

Bambini e radici? Sì, bambini e radici, perché i bambini sono creature abitudinarie, amano mangiare gli stessi cibi, ascoltare le stesse favole ancora e ancora. In questi frammenti di tempo ripetuto le radici si fortificano e irrobustiscono. Poi quel tempo finisce e sono nuove e diverse le abitudini. Di nuovo cambiano i bambini e si arricchiscono, mi fanno venire in mente quelle pianticelle, come i potus o i ficus, messi a dimora nell’acqua perché mettano radici. Le vediamo crescere nel vaso trasparente, sappiamo che arriverà un giorno in cui le radici, più ancora che la pianta, saranno pronte per affondare nella terra.

Associare adolescenti e ali è molto più semplice, ma non tutte le ali sono abbastanza robuste per reggere il peso del nuovo corpo che nell’adolescenza si allunga, si allarga, cresce, tiene ancora per un po’ le rotondità e le indecisioni dell’infanzia. Ma poi, nel giro di pochi mesi diventa un giovane corpo adulto dominato dagli ormoni.

Le ali sono fragili, sono invisibili e ribelli, chiedono aria e spazio. Chiedono il cielo libero, l’immaginazione, stelle da raggiungere e nuove terre da scoprire.

Questa dimensione di libertà fisica e immaginativa alla mia, alla nostra, generazione era concessa. Ma le giovani generazioni hanno radici profonde e ali forti?

Mi interrogo ogni giorno su questi temi, in parte per questioni legate al mio lavoro, in parte perché sento la necessità profonda di fare qualcosa per loro, di insegnargli l’amore per la bellezza, la gioia dello studio, il desiderio di custodire quanto di bello e buono c’è nel mondo.

La poesia può essere uno strumento potentissimo, perché nutre le radici e fortifica le ali.

Prima di tutto leggendola, perché l’anima e le radici dell’essere si nutrono alla stessa fonte.

Poi, anche scrivendola, molti da piccoli e da adolescenti lo hanno fatto. Molti continuano a farlo, purtroppo senza ricordarsi che, come scriveva Alain Bousquet, il poeta prima trova e poi cerca.

Per augurarvi un lieto venerdì sera, mi congedo con una poesia che avevo già inserito nella Cronaca 22 del 30 marzo e che è tratta dal mio ultimo libro Un’estate invincibile.

 

Le storie portate dal vento

 

Se potessi scegliere come

volare, aprirei le mie ali di

rondine e ogni anno tornerei

là dove sono nata e ogni anno

partirei verso il mare che

diventa oceano per scoprire

quanto forti sono queste mie

ali e quanto immenso quel

desiderio di acqua rissosa

come è il mare nei giorni

di vento, infinito, ingannevole

come l’oceano è, quando mi

fermo a riposare.

 

Ma qui le ali devo tenerle

piegate per non spaventare

chi cammina soltanto e mai

guarda in alto, dove le foglie

anelano la pioggia e l’albero

è il segreto che custodisce nidi,

e il mio cuore sta appeso

alla grondaia da dove guardo

i libri e la libreria, altri alberi che

ora sono caduti e non ascoltano

più le storie portate dal vento.

 

 

Questa Cronaca 201 è figlia di un giorno livido e freddo, freddo come se fossimo già in inverno e invece è solo il 25 settembre dell’anno senza Carnevale.

Il titolo della Cronaca è la riebolarazione di un aforisma di Alain Bosquet tratto dalla raccolta Le gardien des rosées. In francese suona così: “Le poète trove d’abord. Il cherche ensuite”.

giovedì 24 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/200: il mare è un trattato di pace tra la stella e la poesia


La fine di settembre, la pioggia, l’autunno piovoso, i giri intorno alla torre senza sapere se sono un falco, una tempesta o un grande canto. Giro, e la torre rotonda ha angoli che non avevo visto e che mi offrono un luogo dove sostare.

Non è necessario che i luoghi siano reali, un luogo può essere in un angolo del cuore o in un filamento della nostra anima. Sappiamo ormai che anima e cuore non sono la stessa cosa, e non lo sono lo spirito, l’intelletto, la mente, la coscienza e il cervello.

È uno strano fiore la nostra vita che nasce da mutazioni e rifondazioni, che porta con sé il fardello delle vite dei nostri antenati. Tutto nasce da qualcosa o qualcuno che esisteva già prima di noi. Ogni dolore e ogni gioia li lasceremo in eredità ai nostri discendenti fino nel cuore profondo dei loro geni.

Continuo a girare intorno alla mia torre e vedo il temporale avanzare da sud, mi sposto più veloce che posso, ma il vento tira la pioggia verso di noi e le foglie si arrendono e cadono, non hanno più la forza di lottare.

Cadere, cadere senza opporre resistenza, così la terra è un letto soffice di piume e non l’arduo selciato che ci sostiene i passi.

Chiedo al mio mare interno di firmare quel trattato di pace, di essere un trattato di pace prima e un carro poi, tirato da cavalli mansueti e che porti le stelle e la luce vivente che noi vediamo sino agli angoli di questa poesia che gira con me intorno alla torre e chiama la notte per nome.

 

Settembre, notte

 

Ora solo il linguaggio può ridire quei gesti

scriverne piano ripetendo l’ardore con cautela

fissando perché restino ancora in questa stanza

le grandi ombre di allora.

 

Schianta ancora il tuo petto contro il mio

perché questa è l’unica orma dell’amore

l’autunno che replicava

stelle quasi da un mondo uguale

la finestra, la cornice di abete

l’addolorato trattenersi delle schiene.

 

 

Lasciamo che gli amanti e gli amati si schiantino in un abbraccio serale. Lasciamo che l’autunno si intrometta e replichi le stelle che il mare stava pacificando.

Noi entriamo nella torre, accendiamo il fuoco, guardiamo il nero mondo di fuori che cerca di attrarci. Ma subito giriamo la schiena, raccogliamo il foglio e iniziamo a scrivere.


Questa Cronaca 200, nasce il ventiquattresimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale. Come tutte le cifre tonde fa impressione. E fa impressione perché 200 sono i giorni in cui siamo consapevoli di dover convivere con un virus.


Il titolo della Cronaca è un aforisma di Alain Bosquet tratto dalla raccolta Le gardien des rosées. In francese suona così: “La mer est une traité de paix entre l’étoile et le poème” e ringrazio mia cognata Monica che me l’ha segnalato.

La poesia è di Antonella Anedda, tratta dalla sua raccolta che più amo: Notti di pace occidentale, Donzelli 1999.

 


mercoledì 23 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/199: la rosa è fuori città, l’acero indossa una sciarpa gaia e la campagna una gonna scarlatta


Il canto dell’autunno è un canto sommesso, o almeno così crediamo. Ma non c’è niente di cauto o sottotono, quando gli alberi lasciano andare le foglie nel vento, quando l’ultimo fulgore fa risplendere il verde e lo tramuta in giallo, arancione e rosso.

Cadiamo tutti nell’abbraccio della stagione, ripieghiamo le ali, cerchiamo un nuovo nido per affrontare l’inverno.

Da oggi ogni giorno sarà sempre un po’ più corto, ci sveglieremo prima ogni mattina per inseguire la luce, ma saremo come cavalieri in fuga dopo la disfatta e il giorno sarà un mantello troppo corto per proteggerci dal vento.

Nella luce dell’alba nuoto, è un mare di piombo questo cielo, è un cielo di ferro quest’acqua.

Ma io nuoto e fendo l’aria, respiro come un pesce e le onde mi sorreggono mentre la prima pioggia avvolge ogni sguardo e resto io sola con l’acqua sopra e intorno.

Ritorno alla riva, vorrei abbandonarmi al tepore della sabbia, ma il calore ci ha già lasciato.

Ritorno nella Casa dove le parole si sono rifugiate come rondini nel nido, mi accolgono gridando, sono felici di vedermi. Io pure sono felice e le accarezzo con la voce. Dalle ceste escono le parole-gatto e mi saltano in braccio.

Ecco, questo piccolo mondo è completo e tiepido, il tè è nella tazza, la legna brucia nel camino.

Occorre una poesia, una poesia perfetta per queste ore semplici e rotonde.

 

 Autunno

 

Sono più miti le mattine

e più scure diventano le noci

e le bacche hanno un viso più rotondo.

La rosa è fuori città.

L’acero indossa una sciarpa più gaia.

La campagna una gonna scarlatta,

Ed anch'io, per non essere antiquata,

mi metterò un gioiello.

 

Il cerchio dei giorni si intreccia con le spirali della poesia e io sono felice di leggere e respirare.

Questa Cronaca 199, nata il ventitreesimo giorno del nono mese dell’anno senza Carnevale, scintilla come un pesce che salta fuori dall’acqua, risplende come la campagna agghindata per una festa.

La poesia è di Emily Dickinson, di seguito l’originale.

 

 XXVIII.

Autumn

 

The morns are meeker than they were,

The nuts are getting brown;

The berry's cheek is plumper,

The rose is out of town.

 

The maple wears a gayer scarf,

The field a scarlet gown.

Lest I should be old-fashioned,

I'll put a trinket on.