mercoledì 30 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/479. Nuvole e grattacieli di Milano

 


Oggi è stata una bellissima giornata estiva, soleggiata e ventilata. Si lavorava bene chiusi in casa al fresco. Fuori almeno la metà delle persone passeggia con ancora indosso la mascherina, nei negozi e in biblioteca tutti la indossano come prima. Qui nella città mai più silenziosa ci si muove guardinghi, mezzo anno è già passato e la fine della pandemia è ancora un miraggio. Nel tardo pomeriggio sono passata in biblioteca a ritirare il monumentale volume delle Lettere di Oscar Wilde e mi sono fermata per qualche minuto ad ascoltare le cicale. Sì, proprio le cicale come se fossimo in campagna ed era proprio bello. Con il sole in faccia mi sono lasciata cullare dal vento in un momento magico e pieno di altrove, perché paesaggi di altri luoghi mi sono venuti in mente e mi sembrava di essere in vacanza. Così sono andata a caccia di nuvole che, a loro volta, erano a caccia di grattacieli. Ormai ce ne sono molti anche a Milano e sono riuscita a scattare qualche foto con le nuvole che li incorniciavano e addirittura una nuvoletta che sembrava li stesse cacciando davvero. Il bello dell’estate è che spesso non c’è niente altro da raccontare che la pienezza del vivere, i profumi nell’aria, i suoni, le rondini, e ancora le cicale, i bambini che giocano in piazza e fanno subito paese, le ragazze che studiano ai tavolini del bar per la maturità o l’ultimo esame universitario prima delle vacanze, i muratori ricoperti di calce e pittura che hanno finito la loro giornata di lavoro, le coppie di anziani che passeggiano mano nella mano, e tutto intorno si sente un solo grido di gioia: “Fuori, su stiamo fuori. È estate, è bellissimo. Siamo vivi, siamo vivi e le cose andranno meglio”. A dire il vero era lo stesso sentimento dell’anno scorso, chissà se davvero stiamo per vivere una replica peggiorata dell’autunno passato. Ma intanto viviamo, crediamo al sole e all’aria, al canto delle rondini.

 

La memoria è fatta di attimi

 

Bisogna fermarsi proprio

in questo istante e credere

nella gioia che si avvicina.

La vita è un flusso ma noi

ricorderemo solo lo splendore

degli attimi, ognuno sarà

il frammento della nostra

memoria per i giorni che

verranno luminosi e quieti

come le prime fiamme

d’autunno.

 

 

Questa Cronaca 479 di mercoledì 30 giugno del secondo anno senza Carnevale è breve come la notte che si avvicina, adesso me ne torno a guardare le rondini dal terrazzo più alto e a respirare i gelsomini che sono ancora fioriti.

martedì 29 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/478. L’infanzia era un’unica, lunghissima estate

 

C’erano molti modi semplici e facili per uscire dallo stato abituale di coscienza. Il primo era restare a giocare per molto tempo sotto il sole, lasciare che i capelli e la testa si scaldassero, lasciarsi andare tra il grano maturo e guardare la luce, sentire che la temperatura del corpo era in salita e poi correre in casa, nel buio della cucina, respirare l’odore della legna bruciata, a volte del cibo nelle pentole sul fuoco, poi afferrare un gummulo di terracotta e bere a garganella, lasciar scendere l’acqua in gola, poi sul viso e tra i capelli. Pian piano impadronirsi della nuova visione e passare dal nero totale a un colore via via più chiaro, indefinito, comunque totalizzante, perché copriva tutti gli altri colori. In questa attesa lasciare che tutto il corpo si abituasse a questo repentino cambiamento e vederlo riapparire con stupore, come se in quel tempo buio si fosse stati in un altrove.

Anche il secondo modo era legato alla luce solare, al mezzogiorno, con l’astro più lucente a picco sulla testa. Anche in questo caso bisognava aspettare che il corpo reclamasse un refrigerio qualunque, che saltasse in piedi e che corresse verso il mare. Il differenziale di temperatura era sconvolgente ogni volta, anche se si era preparati. Mille aghi salivano dalle gambe verso il petto, le spalle e la testa. Era quello il momento in cui bisognava tuffarsi, sprofondare nelle onde, non respirare per qualche istante e poi sbucare qualche metro più in là. L’acqua salata gocciolerà allora dai capelli negli occhi, nelle narici già in affanno e il cuore batterà, come se stesse cercando un nuovo angolo dove respirare.

Il terzo modo era salire in cima alla balle di fieno nel fienile, respirarne l’aroma profondo e un po’ selvatico, sentire anche l’odore delle mucche che ruminavano all’ombra con il muso nella mangiatoia. Quanti metri potevano essere? Sette, otto, non di più. Ma c’era la prova di coraggio e bisognava saltare da lassù sino al fieno che non era stato imprigionata e aspettava di sapere cosa ne avrebbero fatto. Era pericoloso quel salto? Sì, era pericoloso, perché bisognava farlo prendendo la rincorsa e bisognava farlo a memoria, e cercare di non finire oltre, sulle pietre e rompersi qualche osso. Quel volo di pochi metri era un’impresa epica ogni volta, e ogni volta la Pisana e l’altra Maria, ancora bambine, lo facevano quel salto tenendosi per mano. Poi, a volte insieme, più spesso ciascuna per conto suo, se ne salivano sulla collinetta dietro la casa d’infanzia dell’altra Maria, ad aspettare il tramonto che aveva sempre un profumo particolare. Era di oleandro e menta selvatica quel profumo e, mentre l’oleandro non si poteva masticare, pena la morte, la menta selvatica preparava la bocca al pasto serale, spesso solo una grande insalata di pomodori maturi, peperoni verdi crudi, cipolle rosse di Tropea e pane cotto nel forno a legna.

Il volo, la caduta, l’esserci senza esserci, sapere di esserci stati perché il corpo ricordava sempre quelle sensazioni, non aveva bisogno che la mente si impegnasse a ricordare.

E poi? Poi ci si arrampicava su un albero, un susino, o la grande quercia, o il fico più vecchio e si restava nascoste tra le frasche mentre le madri le chiamavano per farsi aiutare a fare il bucato nell’acquaro e, siccome le bambine sapevano che lo avrebbero fatto poi per tutta la vita, perché non allontanare un po’ quella routine giornaliera? Ecco, a nessuna delle due era mai venuto in mente di potersene andare da quella terra. Non che non ci avessero pensato, molti compaesani e qualche compaesana lo avevano fatto e poi tornavano solo d’estate e qualcuno a Natale, stimandosi tutti nei loro vestiti di città, qualcuno anche con l’auto nuova. Ma vuoi mettere l’aria che respiravano e il paesaggio che vedevano lì a Milano e a Torino? Uno dei fratelli dell’altra Maria viveva proprio a Milano, si era pure sposato con una ragazza che loro chiamavano la Milanese ma che veniva dalle Puglie. Era bellissima quella ragazza e aveva fatto con il marito una prima figlia bella quanto lei che era ancora molto piccola e che aveva già intrecciato una grande amicizia con una delle nipoti dell’altra Maria. La Pisana osservava in silenzio e annotava sul quaderno delle cose quello che l’aveva colpita.

La cosa mille e sedici fu: “restare sotto il sole fino a che la testa non picchia e poi tornare in casa di corsa a bere l’acqua fresca. Per il mare lo faccio la settimana prossima”.

Così fece, si rinfrescò e poi andò a prendere la corriera per salire in paese a comprare i sussidiari e i quaderni. All’altra Maria disse che aveva finito il filo per ricamare, non era ancora il momento di rivelarle il suo nuovo proponimento.

Mentre saliva in corriera, guardava come sempre il paesaggio intorno e si stava chiedendo perché le sembrava che tutta l’infanzia non fosse stata che un’unica, lunghissima estate.

 

È proprio così, anche la mia infanzia è stata quell’unica, lunghissima estate quando ci penso. Poi, via via riaffiorano anche le altre stagioni, i panorami diversi. Ma il mio cuore batte ancora sotto quel sole di Calabria, una delle mie tre radici, uno dei miei rami che ho voluto cantare così, in questa Cronaca 478 di martedì 29 giugno del secondo anno senza Carnevale, un giorno in cui sto festeggiano il mio compleanno.

lunedì 28 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/477. Andare al mare, ritornare, respirare

 

 

 

Alla fine ci erano riuscite, avevano organizzato il viaggio con cumpa Attanasio che doveva andare a Cetraro a comprare il pesce per il negozio. Così erano partite la mattina prestissimo, albeggiava appena e prima delle sei erano in spiaggia con lui a guardare le barche dei pescatori che rientravano nel porticciolo. Si erano tolte subito le scarpe ma non ancora gli scamiciati. L’aria non era ancora calda e volevano spostarsi oltre il porto per mettere giù l’ombrellone e le sedie. In effetti erano partite attrezzate quasi come per un safari e l’altra Maria aveva deciso che per quella prima gita al mare non voleva tra i piedi nessun nipote. Solo loro due, tranquille, come al solito lei avrebbe parlato e la Pisana ascoltato e detto poche cose ma molto sagge. Man mano che il sole saliva, il colore dell’acqua cambiava e da grigio argento era diventato trasparente, così che si potevano vedere i buchi di areazione delle vongole e i pesciolini argentati che si avventuravano sino a riva. Attanasio si accomiatò
dopo avere scelto le dieci cassette di pesce che gli servivano per il negozio. Nel retro del furgone c’erano i cassoni con il ghiaccio e il pesce sarebbe arrivato sui banchi di pietra ancora bello fresco. Quando Attanasio salì al posto di guida, si girò a lanciare uno sguardo un po’ troppo lungo all’altra Maria, così la Pisana non ebbe bisogno di immaginare oltre cosa sarebbe successo. Attanasio sarebbe passato il giorno dopo a consegnare il pesce, Maria gli avrebbe offerto il caffè, Attanasio se ne sarebbe andato via dopo un’oretta rosso e congestionato che l’altra Maria toglieva il respiro ai suoi amori. Lei non li chiamava mai amanti, diceva che la parola amante suona di triste e peccaminoso. Invece gli amori suoi erano amori che duravano qualche decina di minuti ogni volta, ma di amore si trattava, sempre. Perché lei era una donna onesta e senza amore non si sarebbe mai concessa. La Pisana si divertiva sempre molto ad ascoltare le spiegazioni ardite della sua amica che, nel frattempo, si era tolta lo scamiciato e aveva messo in mostra le belle gambe lunghissime da vera normanna e il seno generoso a malapena contenuto dalla parte superiore del castigatissimo costume nero di lana che diventava una specie di zavorra quando faceva il bagno. Ma l’altra Maria non si allontanava mai da riva benché avesse imparato a nuotare da bambina, quindi non rischiava di morire affogata, trascinata a fondo dal costume. La Pisana aveva indossato un costume che si era cucita da sola. Era di maglina con una fantasia in varie tonalità di verde che ricordavano le onde del mattino presto. Lo aveva foderato con una fodera di tonalità più scura e aveva nascosto l’attaccatura delle cosce con un gonnellino, come ancora si usava in quegli anni. Le spalline larghe sostenevano un reggiseno a fascia e lo stomaco e la pancia restavano ben contenuti. Non che alla Pisana interessasse molto l’opinione del prossimo, ma voleva stare bene con se stessa. Dopo poco che erano sdraiate, l’altra Maria comunicò che andava a comprare il pane e magari qualche fetta di mortadella. I negozi erano vicini alla spiaggia, quindi ci mise pochissimo a ritornare. Fecero il bagno a turno perché non si fidavano di lasciare le loro cose incustodite. Poi mangiarono i panini con la mortadella, buoni come quelli che faceva Don Noschero in paese. Nessuna delle due parlò più. Si limitavano a guardare il mare, ognuna persa in diversi pensieri. La Pisana pensava alla soddisfazione quando, quella mattina prima di uscire, aveva scritto la cosa mille e sedici: “andare al mare con l’altra Maria”. Aveva dovuto rimandare l’acquisto dei sussidiari, ma era contenta lo stesso. Quando stava sdraiata in riva al mare, non che ci fosse stata molte volte, le piaceva perdersi nel rullio delle onde, che le sembrava stessero parlando proprio con lei. L’odore del mare era cosa rara, solo lì lo si poteva usmare. Un odore che era un misto di salsedine, pesce, gigli marini, alghe. La mattina passò così veloce che neanche si erano rese conto del tempo che sfuggiva proprio come la sabbia tra le dita. L’altra Maria aveva prenotato anche un tavolo nella trattoria da Vincenzo, quando era andata a comprare i panini. Non che avessero proprio fame, ma non potevano certo perdersi un pranzo di pesce! Non pensarono neanche a cosa ordinare perché Vincenzo, che già conoscevano, portò in tavola un’insalata di mare tiepida, seguita dagli spaghetti con le vongole e poi una gigantesca grigliata mista con gamberi, calamari, pesce spada e spigola, una vera bontà. Dopo pranzo tornarono in spiaggia e rimasero di nuovo in silenzio a guardare il mare, fino alle cinque, quando andarono in piazza per prendere la corriera e tornare a casa. Dato che la corriera faceva un giro lungo su in paese prima di scendere dalle loro parti, preferirono scendere al Varco del Bufalo e farsi un chilometro, più o meno, a piedi. Era stata una giornata perfetta, erano contente e si ripromisero di tornare a Cetraro quanto prima. L’altra Maria era molto affezionata a quel luogo perché ci era nata sua madre e a lei sarebbe piaciuto andare a viverci. Per uno strano giro di eredità e lasciti la casa di famiglia era finita nelle mani di un vecchio cugino di sua madre. Vecchio era vecchio, zitello era zitello, l’altra Maria si teneva informata sulle sue condizioni di salute e decise che sarebbero andate a trovarlo la settimana successiva. Preparò subito un biglietto che gli avrebbe spedito la mattina dopo e tutta contenta se ne andò nell’orto a raccogliere pomodori e peperoni per la cena.

Alla Pisana non restò che continuare la strada fino a casa sua. Tutto era a posto, i panni che aveva steso il pomeriggio precedente erano belli asciutti e profumati. Ancora era troppo presto per pensare alla cena, così prese uno dei telaietti e ricamò a memoria il mare e la spiaggia. Era proprio stata una bella giornata.

 

Mentre le due Marie sono tornate alle loro abituali occupazioni, io sto ancora gironzolando per Cetraro alla ricerca delle tracce della famiglia della marinota, la donna che veniva dal mare, così era soprannominata la madre dell’altra Maria. L’aria è magnifica e profumata, e il porticciolo delizioso. Chissà se esiste ancora la trattoria da Vincenzo, vado a vedere.

Oggi è lunedì 28 giugno del secondo anno senza Carnevale e io gironzolo ancora in compagnia della Cronaca 477.

domenica 27 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/476. Le domeniche sono un’unica infinita domenica, il prologo a ogni lunedì in una casa senza pensieri

  


Erano pochi giorni che Caterina era ritornata a vivere nella casa segreta. La domenica mattina si svegliò convinta che fosse lunedì e si affrettò a fare gli auguri alle sua amiche che entrambe si chiamavano Paola. Ci rimase un po’ male quando nessuna delle due rispose al messaggio. Prima di uscire per fare una passeggiata, accese il pc per leggere qualche notizia. Anche il pc si sbagliava, perché si era fermato sulla giornata di domenica e oggi era lunedì. Consultò allora il suo quotidiano online e anche lì la data era sbagliata. Ma si erano addormentati tutti? Pian piano fu lei a svegliarsi e a rendersi conto di essere ancora immersa in uno stato ipnagogico e che le date sul pc e sul telefonino erano corrette, era lei ad avere saltato un giorno e a essere corsa sino al lunedì. Fu una sensazione strana, perché non le era mai accaduto, forse era colpa del silenzio della campagna, dei suoni della natura che lei chiamava silenzio, delle rondini che volavano basse, dei sogni che svanivano ben prima del risveglio. Andò in cucina a preparare il caffè nella vecchia caffettiera che era stata di sua madre, prese dalla credenza una di quelle tazzine marroni che una volta si usavano nei bar e poi spalmò un cucchiaino di marmellata di arance su ognuna delle due fette biscottate che aveva messo nel piatto. Nella ciotolina di Limoges decorata con dei tralci di rose, anche questa parte dell’eredità materna, mise una manciata di ciliegie mature e due albicocche. Il caffè lo beveva amaro e con un goccio di latte freddo. Rabbrividì davanti al frigorifero e si specchiò per un attimo nel vetro di una finestra, dove il gioco delle ombre faceva tralucere la superficie che, a tratti, rifletteva il mondo da questa parte. Ne aveva visto abbastanza di mondo Caterina, per non avere la voglia di vederne uno speculare. Di tutto il mondo che aveva visto era rimasta traccia negli oggetti che aveva deciso di portare nella casa segreta. Tra gli abiti aveva scelto un vestito da sera in velluto grigio argento che aveva indossato alla Scala per assistere al Don Chisciotte interpretato da Rudolf Nureyev. La stola giocata sul contrasto di colore, era della stessa tonalità di un melograno maturo e stava bene con quell’argento cangiante. Aveva poi portato anche i due abiti indiani di seta che aveva comprato durante un viaggio, non in India, ma in Gran Bretagna. Nel quartiere londinese di Camden c’era un negozietto che importava abiti originali e i due che aveva scelto giocavano sull’alternarsi di quattro colori su fantasie floreali e ghirigori. Blu e azzurro, rosa e viola in uno; verde chiaro e verde scuro, giallo e arancione nell’altro. Nella stanza che aveva adibito a guardaroba c’erano due grandi armadi ottocenteschi, un cassettone, una pettiniera con il ripiano per riporre gli oggetti per la toeletta e un grande specchio ovale. Appese ciascun abito su una gruccia dopo averlo avvolto nella carta velina e poi rinchiuse il tutto in una custodia di tessuto grezzo a prova di tarme, contro le quali aveva già comunque preparato palline di legno imbevute in olio essenziale di lavanda  e di eucalipto e stecche di cannella. Sulla pettiniera dispose le spazzole d’argento, e la trousse di pelle dorata, originale degli anni Cinquanta, che aveva comprato in un negozio vintage quando era solo una ragazza. C’erano ancora un moncone di rossetto rosso fiamma e i rimasugli di una cipria chiarissima che avevano imbellettato il viso di una donna, le sarebbe sempre piaciuto sapere chi fosse stata l’antica proprietaria. Via via che apriva le valigie, vide la sua vita passata fluire dalla casa milanese sino alla casa segreta tra le colline al confine tra le province di Piacenza e Pavia. Voleva svuotare la casa milanese e creare una sorta di museo in quella di campagna. Era arrivato il momento di fare ordine nella sua vita e proprio a partire dagli oggetti. Finito quel primo round di riordino, era arrivato il momento di andare nell’orto a raccogliere la verdura per il pranzo. Durante le sue assenze c’era Manlio, il contadino che si occupava di lavorare nella proprietà e l’orto era perfetto, in pieno rigoglio estivo. Raccolse una piccola cipolla rossa, pomodori molto maturi e basilico perché aveva voglia di mangiare un piatto di pasta al pomodoro. Già che c’era prese anche un peperoncino verde e tornò in casa per mettere su il sugo. Il tempo della campagna scorreva diversamente rispetto al tempo del mare e al tempo della città. In montagna ci andava di rado anche se le piaceva, ma non quanto lo sgomento che le creava ogni volta il mare o la quiete che le scendeva dentro quando era in campagna. Ritornò a pensare allo strano risveglio dove aveva fatto un balzo in avanti, cancellando la domenica che ancora non c’era stata. Le domeniche si assomigliavano tutte e tutte avevano in sé la gioia del giorno festivo e la tristezza della fine del giorno festivo. Il lunedì incombeva sempre nell’anima, a prescindere da quale lavoro la stesse aspettando. Quella domenica l’avrebbe ricordata come la domenica scomparsa, scrisse nel diario quella stranezza e poi cucinò il pranzo. I gesti lenti con le mani sotto l’acqua corrente per lavare i pomodori, il coltello con cui fece a fette la cipolla e a piccoli pezzi i pomodori e il peperoncino, le foglie di basilico sminuzzate a mani nude, tutti i profumi che salivano dal lavandino e poi dalla pentola. Non aveva bisogno di pensare ad altro. Il mondo intorno era impazzito del tutto, preda ancora della pandemia, si era aggrappato a una specie di normalità estiva, ma la gente vacillava, aveva paura e non sapeva e temeva quello che sarebbe accaduto in autunno. Lunedì Caterina sarebbe tornata in città a prendere altra roba, voleva accelerare il trasloco, in maniera tale da poter poi restare qualche settimana in campagna senza pensieri. Senza pensieri, decise che la casa segreta si sarebbe chiamata proprio così.

 

Oggi è domenica 27 giugno del secondo anno senza Carnevale e questa mattina mi sono svegliata davvero pensando che fosse lunedì 28, così non potevo non utilizzare questo strano episodio come spunto narrativo per la Cronaca 476 che ci ha riportato nella casa segreta di Caterina.

sabato 26 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/475. Nel giorno dell’oleandro rosa, il mondo gli sarebbe cresciuto intorno


 

Immagini del mondo in gioventù: un grappolo dì uva bianca e dolce mangiata non appena raccolta; un’anguria matura e profumata, comprata da Fragghiaco, nella sua capanna di frasche di granoturco proprio davanti alle fontane di Spezzano Albanese; dondolarsi sull’altalena grande, dove con una spinta forte si arrivava oltre il crinale del burrone e sembrava di volare.

Maria la Pisana scrisse nel quaderno delle cose queste immagini del mondo, non sapeva se fosse meglio una cosa soltanto o almeno tre. Decise per la cosa mille e quattordici perché le erano venute in mente tutte insieme ed era forse la prima volta che in tutta la sua vita si fermava a pensare alla sua gioventù, una gioventù vissuta nel corpo e con fatica, con molti slanci e voluttà, ma senza che mai i desideri del corpo prevalessero sul suo bisogno di solitudine. L’altra Maria non aveva mai fatto mistero della sua passione per gli uomini e poi per le gioie che diventare madre le avevano permesso di conoscere. La Pisana non aveva mai avuto bisogno di provare le cose per conoscerle, le bastava immaginarle. Questo era vero soprattutto per quanto riguardava la maternità, per l’amore e gli uomini era stato diverso. Non lo sapeva nessuno perché Romeo, sì proprio così si chiamava il suo bello, era partito per il Brasile a cercare fortuna e nessuno aveva mai più avuto sue notizie, tranne lei che custodiva in fondo al quaderno delle cose l’unica cartolina che lui le aveva inviato. “San Paolo è bellissima, mi piacerebbe che tu fossi qui con me”. Maria non si era né disperata né offesa per il silenzio infinito che era seguito a quel messaggio. Aveva osservato, sempre in disparte e sempre in silenzio, come nascevano e morivano le storie d’amore. Ed era sempre più convinta che l’amore fosse una questione di gioventù, di corpi infuocati che si cercavano anche se era proibito, dalle famiglie, dai padroni e dai parroci. Lei, Romeo lo aveva amato in tutti i modi in cui una ragazza poteva amare e la prima volta che aveva deciso di cedere alle sue continue insistenze, mise anche in conto che avrebbe potuto essere solo per una volta e che poi, avuto quel che voleva, come metteva in guardia le ragazze zia Annina, se ne sarebbe fatto vanto e poi sarebbe sparito. Ma anche Romeo era innamorato della Pisana e custodì il loro segreto e fu pieno d’orgoglio perché loro erano una coppia vera adesso, anche se non si erano sposati davanti a un parroco, Dio gli era testimone che aveva intenzioni serie e che un giorno avrebbe sposato la Pisana. Forse era colpa dell’estate che lei finiva col pensare alla gioventù, forse perché le cicale e le rondini riempivano tutta l’aria intorno, e poi c’erano tutti quei profumi. Chissà se Romeo era ancora vivo, se si era sposato e aveva fatto dei figli con una bella ragazza brasiliana. Tanti compaesani lo avevano fatto e quelli più ricchi tornavano al paese ogni due o tre anni per sfoggiare mogli e figli. Alla Pisana non dispiaceva non avere famiglia, le bastava quella dell’altra Maria, dove tutti la consideravano come se fosse una zia di sangue. Intanto che rimuginava sulle immagini di gioventù, dato che aveva già finito tutti i lavori del mattino, andò a sedersi all’ombra del pergolato con tutti i suoi attrezzi da ricamo e si guardò intorno. Quello era il giorno dell’oleandro rosa, molto diverso per come i rami si tendevano verso il cielo rispetto all’oleandro bianco che cresceva in riva all’acquaro davanti alla casa dell’altra Maria. La seta che aveva comprato era della stessa sfumatura dei fiori e così iniziò proprio da loro e il resto del mondo sarebbe cresciuto intorno. Era brava con tutte le attività femminili, come le chiamava il parroco, ci si guadagnava anche da vivere bene. Ma in quel giorno d’estate, tra il quaderno delle cose e il ricordo di Romeo, sentì che c’era una mancanza, un vuoto dentro e che il ricamo era come una merenda quando invece vorresti essere stata invitato a un pranzo di nozze. Non era facile trovare le parole, Maria la Pisana lo sapeva che il fatto di non avere studiato di certo non la stava aiutando. Decise allora di andare in paese il giorno dopo, nella cartoleria-libreria della famiglia Garofalo a comprare i sussidiari delle scuole elementari. Tanto nessuno avrebbe immaginato che fossero per lei, avrebbero pensato che fossero per uno dei nipoti dell’altra Maria. La cosa mille e quindici fu quindi: “comprare i sussidiari dai Garofalo e anche tre quaderni per italiano, storia e geografia”.

Mentre sognava i suoi libri di scuola e annotava mentalmente quello che avrebbe scritto nel quaderno delle cose, le sue mani avevano finito gli oleandri nel ricamo, e senza sapere come avesse fatto, vide che su di un ramo i fiori erano rossi.

 

Oggi ho passato un bel pomeriggio con Maria la Pisana, i suoi ricordi, i suoi ricami e i suoi desideri. Così questa Cronaca 475 di sabato 26 giugno del secondo anno senza Carnevale, si ritira nelle sue stanze che risplendono di oleandri rosa e sussidiari intonsi.

venerdì 25 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/474. Nella casa segreta ogni ricordo ha la sua fotografia

 

 


Si era svegliata all’improvviso con in testa una sensazione di incompiuto che non riusciva a collocare tra il sogno e la realtà. Gli scuri erano chiusi e le ante della finestra aperte, così una brezza lieve e piacevole attraversava la stanza e le riempiva il respiro. La luce che penetrava dalle fessure, creava forme geometriche sul soffitto, alcune ferme, come dipinte di nero, altre, che proiettavano la forma delle tende, svolazzavano in una moltitudine di grigi che faceva da contorno alle altre figure. Ricordava solo di essersi sdraiata dopo pranzo, ma non perché il sonno l’avesse colta così prepotente, come se non avesse dormito da giorni e invece aveva trascorso una notte serena. Più cercava di ricordare, più si impossessava di lei la sensazione di essere stata chiamata dai sogni. Sapeva quanto questo richiamo potesse essere prepotente  e ineludibile. I sogni avevano necessità di irrompere nella nostra vita in veglia e di interrogarla per mostrarci cose cui non avremmo mai pensato. Ma, molto più spesso, i sogni si incaricavano di confonderci e di sviarci, parlavano lingue sconosciute e riportavano in vita persone e animali morti da anni. Il più delle volte era una consolazione poterli rivedere e parlare con loro, mentre a volte una tristezza d’acqua si impadroniva del sognatore perché non riusciva a comprendere le parole dei sognati e il varco di spazio-tempo che li separava diventava ancora più profondo. Nessuna di queste riflessioni aiutò la donna a dare un senso a quel sonno profondo. Poteva alzarsi, allora, e rinfrescarsi prima di decidere come dare una svolta al suo pomeriggio. Preferì infilarsi direttamente sotto l’acqua di una doccia tiepida e svegliarsi con la luce pomeridiana che si stava arrotondando con il passare delle ore. Per asciugarsi utilizzò uno di quegli asciugamani di lino che aveva portato da Milano e che non aveva mai usato nella vita. Era leggero e un po’ ruvido, piacevole da sentire sulla pelle, profumato di fiori, in particolare sentiva i petali essiccati delle rose in fondo al giardino che aveva raccolto durante la visita precedente e subito sparso nei cassetti della biancheria. Non era da lei essere così attenta ai dettagli, prima non aveva mai avuto il tempo di farlo, ma la lentezza acquisita e la pazienza le avevano dato modo di imparare a stare nel presente e a non cercare di intrufolarsi nel futuro, ancora tutto da scrivere, né a rievocare un passato che meritava solo di stare dov’era, in ricordi vaghi e senza attrattive. Dopo essersi asciugata, ma non del tutto, perché le piaceva la sensazione di fresco che restava appiccicata alla pelle con le ultime goccioline d’acqua, scelse uno degli abiti scamiciati che aveva comprato al mercato per pochi soldi ma che era bello e molto colorato, acceso di verde, giallo e arancione. Uscì poi nel porticato e lasciò che la vista fuggisse su per le colline dove ancora resisteva qualche campo non mietuto e costellato di papaveri e fiordalisi. Poi si accorse che, acquattato sotto il tavolo di pietra, c’era un gatto tigrato grigio che dormiva. Come se l’essere guardato avesse fatto da sveglia, il micio si allungò, sbadigliò e la guardò con enormi occhi verdi e ancor più grandi orecchie. Era un gatto molto giovane, anzi una gatta, come ebbe modo di constatare quando andò ad accarezzarla e lei si lasciò pastrocchiare anche sulla pancia e iniziò a fare le fusa. Caterina fu felice di vedere che uno dei suoi più grandi desideri era stato esaudito dal caso. Tra le scorte che aveva fatto per la casa segreta, c’era anche del cibo per gatti, così andò ad aprire una scatoletta di pappa morbida che la micia gradì molto. Mentre questa divorava il contenuto della ciotola, lei ne riempì un’altra con dell’acqua fresca presa al fontanile davanti casa. E la micia gradì anche l’acqua fresca e poi si lavò e pettinò per bene il musino e le zampe, mentre la donna continuava a guardarla. Finita la toilette, anziché allontanarsi, la gatta le saltò in braccio e riprese a ronzare come uno sciame di api e la donna ricordò quanto le piacesse quel suono anche quando era bambina. Dopo qualche minuto di coccole, la gatta saltò giù e andò a sdraiarsi all’ombra di un grande oleandro rosa e si riaddormentò. Caterina aveva fame e si ricordò che non aveva pranzato. Così andò in cucina e prese dalla grande ciotola sul tavolo una manciata di ciliegie e due albicocche. I frutti erano dolci e profumati, le venne voglia di bere qualcosa di fresco e allora preparò una grande caraffa di acqua, limone e menta e la portò in veranda dove aveva deciso di iniziare a riordinare le vecchie fotografie di famiglia e sue. Erano anni che non metteva mano tra quelle e immagini e non riusciva a immaginare cosa avrebbe provato. Nella prima busta c’erano le fotografie di una delle svariate versioni della “festa dei fichi” che aveva organizzato per qualche anno con il suo amico Fabrizio a settembre nella casa dei suoi nonni a San Pellegrino Terme. Molti tra loro era scomparsi, risucchiati nelle nuvole del tempo e non ne aveva mai sentito la mancanza. Di altri invece avrebbe voluto avere notizie, ma di quelli importanti che erano amici, non dovette rievocarli come fantasmi. Prese il telefono e chiamò Fabrizio:

-      “Quanti metri di pizza mi offri se non divulgo le fotografie dell’ultima “festa dei fichi” a San Pellegrino?”.

-      Fabrizio scoppiò a ridere: “Prima iniziamo a scalare un metro dalle decine che mi devi offrire tu!”, fu la sua pronta risposta.

Gli raccontò del viaggio in campagna dove sarebbe rimasta un po’ di giorni, anche se non sapeva ancora quanti. Lo invitò a raggiungerla se gliene fosse venuta la voglia.

Poi tornò alle fotografie, ma il panorama intorno era molto più interessante, così chiuse la scatola e si avviò per il sentiero verso il confine della sua proprietà con quella di Armando. La gatta, che si era svegliata senza miagolare, la affiancò trotterellando. Fu un attimo perfetto, uno di quelli che le sarebbe ritornato in mente all’improvviso, come accade a volte con i ricordi belli. Quelli brutti, pian piano li dimentichiamo, non per forza di volontà, ma per forza dell’oblio. Continuare a vivere sarebbe stato impossibile, altrimenti.

La casa segreta mi ha chiamato anche oggi e così ho scritto questa frammento della storia di Caterina. Arriverà Fabrizio a trovarla? Cosa farà dopo la passeggiata con la gatta? Ancora non lo so, devo aspettare che il bosco chiami anche me.

Oggi è venerdì 25 giugno del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 474, una fotografia già chiusa nella scatola dei ricordi.

giovedì 24 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/473. Cercare la geometria nelle cose della natura e del mondo

 



 

 

Le notti erano sempre brevi nel mondo di Maria la Pisana, d’estate perché la luce vinceva e c’era sempre da fare intorno e dentro casa. D’inverno perché le cose da fare erano quasi tutte le stesse, ma faceva freddo e bisognava coprirsi bene prima di uscire. D’estate capitava spesso che l’altra Maria fosse già all’acquaro a lavare i suoi panni nell’acqua corrente, limpida e fresca. Quando si trovavano, nel silenzio dell’aria che ancora non stato interrotto dagli uccellini e dalle cicale, era sempre una festa. L’altra Maria aveva sempre i capelli raccolti ed entrava nell’acqua con degli stivaloni da pescatore quando ancora non era giorno, la Pisana preferiva entrarci a piedi nudi, si sentiva più a suo agio e libera. L’altra Maria lavava i panni di casa sua, le lenzuola, le tovaglie, gli asciugamani e i vestiti dei figli, della figlia e dei nipoti. Anche se il figlio più grande era già sposato, era andato a vivere nella casa accanto a quella di sua madre. Giulio aveva già due bambini, uno di un anno e l’altro di tre, e li lasciava spesso da sua madre che ci sapeva fare. Fu proprio quella mattina che alla Pisana venne in mente che l’altra Maria avrebbe potuto fare un piccolo asilo dove tenere i bambini delle donne che andavano a faticare nei campi e glielo disse. Maria la Grande, era il suo secondo soprannome, si fermò solo un attimo a riflettere ma l’idea la convinse subito. I bambini potevano stare con lei durante le faccende, avrebbe dato loro una buona colazione con il latte di vacca appena munto e i taralli del forno delle Pianette, i più buoni di tutti secondo lei e anche secondo la Pisana. Il rito del bucato condiviso, che non avveniva tutti i giorni, ma quasi, proseguiva per almeno quattro ore e poi, a seconda dell’istinto dell’altra Maria, finivano con il fare colazione o con una fresa conzata con aglio, olio e pomodori appena raccolti, o con una tazza di latte appena munto e un caffè forte fatto con la caffettiera napoletana e addolcito con molti cucchiai di zucchero di cui l’altra Maria era ghiotta. Quella mattina vinse il desiderio di dolcezza, non bisognava mai osteggiare quelle voglie, anche se non si era in stato interessante. I tre figli maschi di Maria erano già andati a mietere il grano con il padre e la femmina più piccola, insieme alla cugina, avevano ancora la fortuna di essere lasciate a dormire. Le bambine sarebbero state importanti per aiutarla con l’asilo e così le fece alzare per fare colazione con lei e la Pisana, Caterina di anni dodici e Concetta di anni dieci, cominciarono a saltare e cantare perché erano entusiaste della notizia, avrebbero lavorato, così sarebbero state grandi anche loro.

Le tazze del latte erano di porcellana bianca, di forma tonda ma mosse sull’esterno, come se ci fossero state delle onde. Il caffelatte era buonissimo, i taralli si inzuppavano alla perfezione e poi si scioglievano in bocca. Quando ebbero finito l’altra Maria chiese alla Pisana di aiutarla con l’orto perché c’erano molte cose da raccogliere e così, dopo avere reciso peperoni verdi, pomodori e melanzane con grande impegno, la Pisana se ne tornò a casa con un cesto stracolmo di verdura anche se non ne avrebbe avuto bisogno, visto che anche il suo orto era rigoglioso. Scrisse nel suo quaderno delle cose la numero mille e dieci, anche se la mille e nove ancora non l’aveva raccontata all’altra Maria. E già che c’era doveva anche scrivere la mille e undici che non sarebbe stato facile realizzare: andare al mare con l’altra Maria, sua figlia e sua nipote. Scritte che ebbe le cose nel quaderno delle cose, tornò fuori per scaricare dal somarello i cesti con la biancheria da stendere e andò ai fili stesi dietro casa. Avrebbe anche potuto lavare tutto lì, aveva il lavatoio e l’acqua corrente, ma il rito del bucato con la sua amica era qualcosa cui teneva molto e l’acqua del torrentello, che scendeva dalla montagna di Fagnano, lasciava un profumo diverso sui panni. Finito che ebbe di stendere tutti i panni e lisciato quelli che doveva stirare, la Pisana preparò una fresa conzata, che le era rimasta la gulia dalla mattina. Ci aveva strascicato sopra uno spicchio di aglio intero, tagliuzzato il pomodoro più grande e maturo e poi strascicato anche un ramo di origano selvaggio che aveva raccolto lei stessa sulle colline dietro casa. Così dopo pranzo scrisse la cosa mille e dodici che diceva la bontà della fresa conzata, mangiata così, sola, senza bisogno di altro.

Era arrivato il momento di stirare, perché poi sarebbe arrivato l’autista di donna Carmelina a ritirare tutti i vestiti e le cammarere li avrebbero portati a casa delle signore. Stirare le piaceva, le piaceva ridare forma e colori ai tessuti, quando ebbe finito erano quasi le cinque del pomeriggio e i pacchetti coi vestiti li preparò in poco, perché ormai era abituata. Dopo che l’autista aveva ritirato tutte le cose e le aveva lasciato la busta colle banconote, la Pisana poté sedersi davanti a casa, sotto il pergolato, a guardare le colline verso Roggiano, erano tutte uguali, punteggiate di querce e fichi, e quella loro geometria immobile l’avrebbe riprodotta anche nella sua tela del giorno. Ma prima scrisse la cosa mille e tredici: cercare la geometria nelle cose della natura e del mondo, un bel progetto! - scrisse tutta contenta la Pisana.

 

In questa sera d’estate continuo a scrivere le vicende di Maria la Pisana, chissà dove mi porteranno. Oggi è giovedì 24 giugno del secondo anno senza Carnevale e questa, stesa al vento con i panni freschi di bucato, è la Cronaca 473.

mercoledì 23 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/472. Le rondini amano i papaveri e i tetti estivi

 


Il quaderno delle cose era un robusto taccuino rilegato in marocchino rosso che Maria “la Pisana” aveva ricevuto in dono per la Cresima. A farle il regalo era stata la zia Antonetta, sorella di latte di Melina, la madre dell’altra Maria. Ricordava molto bene quel giorno, quando fu comunicata e cresimata nelle stesso momento e meno male che mamma era riuscita a farla battezzare, anche se suo padre non era tanto d’accordo, qualche mese dopo la nascita, che comunque bisognava essere sicuri che le creature sarebbero diventate grandi, le spese per la festa del battesimo erano tante. A partire dal vestito di pizzo che anche i bambini poveri avevano il diritto di avere. Lei non era povera, ma neanche tanto ricca, però era stata battezzata con tutti gli onori e le avevano anche fatto una fotografia con quel vestitino lussuoso e la cuffietta bianca in testa, sempre di pizzo e due guance tonde e belle come due pagnottelle appena sfornate. Anche per la festa della Cresima, la bambina aveva avuto il suo vestito da piccola sposa, con i guanti e le scarpine coordinati a una borsetta dove poteva tenere un fazzolettino, caso mai si fosse messa a piangere. Quel che ricordava meglio di quel giorno erano i pettegolezzi delle altre mamme che commentavano i vestiti delle altre bambine e aveva capito così il significato della parola invidia, quel sentimento livido che impediva alla gente di godere delle fortune altrui, come se ogni cosa buona fosse stata tolta a loro. Dopo la cerimonia ci fu un rinfresco collettivo con altre famiglie nel locale di piazza Selvaggi. C’erano dolci tipici della zona, come le ginette, ricoperte di granella d’argento, torte Paradiso a tre piani, farcite di crema pasticcera con dodici tuorli, bigné lunghi che assomigliavano alle éclaires francesi e biscotti di mandorle. Poi le vennero dati i regali, una catenina con il crocefisso, una medaglietta con San Marco, un’altra medaglietta con la Madonna del Pettoruto, un po’ di soldi, un buono postale al portatore e il taccuino rosso. Non sapeva bene che farci di quel dono che arrivava dalla maestra Arnone, così quando arrivò a casa lo mise nella sua cassapanca e non ci penso più per qualche mese. Ma, poi, un giorno che stava sistemando della biancheria stirata le capitò in mano e così decise di prenderlo per guardarlo bene. E lo guardò, e lo rigirò nelle mani, respirò il profumo della pelle, sfiorò anche la carta che era color avorio ed era un invito a scriverci sopra qualcosa. Mai Maria “la Pisana” aveva immaginato di poter avere qualcosa da dire, ma proprio in quel momento le vennero non una ma ben due idee da scrivere.

La cosa numero uno è questo quaderno rilegato in pelle di capretto tinta di rosso. Questa è la prima cosa che penso e che scrivo. È bello questo quaderno, mi piace guardarlo e accarezzarlo. Per non farlo rovinare lo conserverò in una di quelle federe di cotone pesante che stanno nella cassapanca.

La cosa numero due sono le lenzuola nuove di lino che mamma ha comprato da Rosina la tessitrice. Sono belle e fresche e mi ha detto che dovrò usarle solo d’estate per stare bella fresca, mentre quelle di cotone pesante si usano d’inverno quando fa freddo e le potrò anche passare con lo scaldino prima di andare a dormire per togliere quella sensazione di umidità e di freddo che c’era nel letto d’inverno.

Aveva iniziato così il quaderno delle cose e con una certa regolarità, in quasi trent’anni, era arrivata alla cosa numero mille. Un bel numero davvero e anche molto solenne. Cosa avrebbe dovuto scrivere in quel numero così importante? Sorrise perché non era difficile a pensarci bene.

La cosa numero mille sono i paesaggi ricamati che ho deciso di fare ogni giorno e quindi arriviamo alla cosa mille e uno che è un ricamo della Fontana Banca la mattina presto.

Mentre la cosa mille e due è la grande quercia dietro la casa dell’altra Maria.

La cosa mille e tre è l’acqua profumata di San Giovanni che ho usato questa mattina per lavarmi dalla testa ai piedi.

La cosa mille e quattro è il sacchettino di fiori di lavanda pronto da mettere nella cassapanca.

La cosa mille e cinque è il profumo dei pomodori appena raccolti ancora caldi di sole.

La cosa mille e sei sono le cicale che cantano di giorno e la cosa mille e sette sono i grilli che cantano di notte.

La cosa mille e otto è la contentezza di questo momento che sto scrivendo.

La cosa numero mille e nove è quando nel pomeriggio racconterò all’altra Maria di questo quaderno delle cose. L’ho tenuto segreto sinora, ma se mi succede qualcosa voglio che lo tenga lei che è come una sorella per me.

Ecco, non aveva mai scritto così tanto, ma non tutte le cose che sentiva nel petto erano venute fuori, così scrisse una cosa che non sapeva bene cosa fosse e che aveva anche un titolo.

 

La nostalgia gridata al sole e al cielo

 

Le rondini amano i papaveri

e dopo la mietitura scendono

in picchiata a cercarli, perché

non li vedono più. Anche quei

fiori amavano le rondini, ma

non potevano impegnarsi,

sapevano che avrebbero dovuto

seguire la sorte del grano maturo.

Così piangevano i papaveri quando

cadevano sotto la falce e le rondini

impazzite gridavano tutta la loro

nostalgia al sole e al cielo.

 

 

Maria “la Pisana”, mi toccherà raccontarvi il motivo del suo nomignolo, tanto che a un certo punto la gente la chiamava solo Pisana, mentre la sua amica restò per sempre l’altra Maria.

Ora posso riporre il mio taccuino delle Cronache dagli anni senza Carnevale con questa Cronaca 472 di mercoledì 23 giugno. C’è ancora luce, fa caldo, le rondini volano vicino a questa casa, io sono in pace con il mondo e gioiosa in questa luce estiva che mi commuove ogni anno.

martedì 22 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/471. Le lacrime invisibili della luna che amava le storie calabresi

 


Quando arrivava la notte più corta dell’anno, Maria “la pisana” era pronta per andare a raccogliere le erbe nei campi e nei prati, anche se per trovarle bisognava salire verso la montagna. Come ogni estate preparava il suo asinello e il cesto per le erbe e non appena il sole era calato si avviava ripercorrendo i suoi stessi passi anno dopo anno. La prima volta che era andata a fare la raccolta di San Giovanni, di anni ne aveva meno di dieci e nonna le aveva detto che era importante che lei imparasse prima di diventare una signorina. Le disse anche che nella notte di Natale le avrebbe insegnato il rito per togliere l’affascino, che non era solo il malocchio provocato dagli invidiosi, ma qualcosa di più profondo e sottile che poteva anche turbare le menti più impressionabili e fiaccare la volontà di chi già era messo a dura prova dalla vita. Ma ancora peggio era per quelli a cui le cose della vita andavano bene. Ci fu il caso del pastore Alfiero cui iniziarono a morire tutti gli agnellini appena nati, oppure di Filomena delle vacche, le cui vacche, appunto, avevano smesso di fare il latte e i vitelli non svezzati furono portati al macello mentre le madri si disperavano. E poi c’era stata la disgrazia delle sorelle Selvaggi, ma di uno dei rami minori, le povere Rosaria e Serafina che allevavano bachi da seta e in una notte morirono tutti. Ma loro non era andate a raccogliere le erbe la notte del solstizio e non lo aveva fatto neanche il piccolo possidente Michele Sammarco, le cui coltivazioni di tabacco erano andate in fumo a causa della disattenzione del suo fattore. Sì, a ben pensarci, le disgrazie misteriose che colpivano i beni delle famiglie erano frequenti, così come erano frequenti dalle loro parti, i bambini che nascevano nelle famiglie sbagliate, quelli che, anziché assomigliare al padre, assomigliavano a uno zio, o al barone, o alla mamma del mezzadro. Insomma, gli spiritelli dei boschi erano sempre pronti a fare dispetti, soprattutto, se non si stava bene attenti quando si passeggiava sotto le querce, perché quelli delle querce erano i più dispettosi di tutti e avevano anche il potere di rubarti il nome e di tenerlo imprigionato sino a che non tornavi con cesti e cesti colmi di salsicce, peperoni, pane fresco, pomodori maturi, cipolle rosse e un fiasco di olio buono e almeno un paio di vino. Chi aveva provato a rifilare loro vino che era andato in aceto oppure olio di semi di girasole, che pure era buono, non certo un veleno, ebbene questi disgraziati riuscivano a ritornare a casa dopo giorni ma non riuscivano a parlare che dopo un mese dal loro ritorno in paese. Nonna Rosa conosceva tutte queste storie e gliele raccontava perché voleva che lei sapesse tutte le vicende del paese per poterle tramandare poi alle figlie e alle nipoti. Fece un unico errore nonna Rosa, di insegnare alla nipote anche la formula per non sembrare bella, formula che lei usò sin da ragazzina per tenere lontani i maschi, che non aveva nessuna voglia di diventare grossa come una giovenca e poi di dovere badare al nugolo dei suoi pargoli come se fosse state la guardiana dei niani. Quando spiegò a Maria cosa bisognasse dire e fare, la reazione della sua amica fu proprio il contrario della sua. A lei i maschi piacevano, e le piacevano forti e ben piantati. Per questo si era fidanzata ennemila volte prima di trovare quello giusto che era stato capace di domarla, cioè di tenerla in camera da letto, e in qualunque altro posto capitasse, per giorni e giorni. Fu proprio lui, Luigi Maria, a farle fare il primo dei suoi figli e anche il secondo e il terzo. Poi quando lui si distrasse con Caterina, la figlia del barone Randone, Maria si consolò molto in fretta con uno dei giovani mezzadri col quale fece una bambina che portava però il nome di suo marito. Non è che in paese queste cose non si sapessero, tutti sapevano e le mogli di paese accettavano quelle di campagna e viceversa, i bambini di paese giocavano con i fratelli di campagna e tutti andavano d’accordo. Il vescovo, l’arcivescovo e i parroci di San Nicola e di San Giovanni Battista, sembravano molto duri in pubblico, ma tra loro gioivano per il tasso di peccaminosità del paese e di tutte le sue contrade. Molti peccatori significavano molte confessioni e molte prebende, grandi donazioni ai santi e alla curia, ex-voto d’argento e oro per ringraziare della grazia ricevuta e tutte le messe, le orazioni e i vespri seguiti non solo dalle donne, ma anche da molti uomini. Seppure tanti si fossero fatti ammaliare dalla bandiera rossa del socialismo e in chiesa ci andavano per far contente le madri.

A tutte queste storie pensava Maria “la pisana” mentre andava a passo lento nei suoi campi. Ci mise meno di un’ora ad arrivare e poi lasciò il somarello a brucare l’erba e a lume di candela, ne aveva una sacca piena, andò a scegliere le erbe che le servivano. Lì nei campi cercava soprattutto l’artemisia, la verbena, il ribes e l’iperico, perché salvia, rosmarino, ruta, aglio e lavanda li aveva già raccolti nell’orto e preparati sul tavolo. Non ci mise molto e se ne tornò verso casa respirando i profumi che arrivavano dal cesto. Dopo aver governato il somarello nella stalla, andò a raccogliere l’acqua fresca nel pozzo. Sulle colline tutt’intorno si vedevano i bagliori dei fuochi e lei immaginava i giovani inseguirsi tra prati e boschi, come aveva fatto la sua amica Maria quando era ragazza. Tornata in casa, diede una sciacquata alle piantine e ai fiori e poi mise tutto nel bacile di terracotta che mise sul davanzale esterno della sua camera a prendere l’aria della notte e le lacrime invisibili della luna che era attratta da tutti quegli aromi. A lume di candela gli oggetti prendevano vita nella cucina, e lei si mise a un angolo del tavolo per ascoltare le storie che avrebbero raccontato.

Maria “la pisana” è già tornata a mostrarmi la sua storia, me l’ha sussurrata in un orecchio insieme alla voce del camino e quella del tavolo. Per questo, anche la Cronaca 471 di martedì 22 giugno del secondo anno senza Carnevale è una storia calabrese, forse vera, forse inventata, forse un po’ tutte e due le cose.

lunedì 21 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/470. Dove le nuvole sono invidiose delle nuvole ricamate

 


Ogni giorno lo stesso cielo, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Maria “la pisana” aveva visto in paese quegli aggeggi che intrappolavano le immagini in un rettangolo di carta e le sarebbe piaciuto averne uno. Ma poi pensò che su quella carta non rimanevano i colori e lei voleva vederli anche quando non c’erano. Come poteva fare allora? Nell’armadio e nelle cassapanche che erano in camera da letto, c’era tutto il suo corredo tessuto a mano al telaio da sua nonna e da sua madre, lenzuola e asciugamani che non avrebbe mai usato, dato che non si era sposata. Però, ritagliati nelle giuste dimensioni e montati in sequenza, quei rettangoli di lino che avrebbe ricamato, sarebbero stati anche meglio delle fotografie, perché sarebbero stati a colori. Da ogni lenzuolo avrebbe ricavato almeno 120 rettangoli, cioè un quadrimestre di teli ricamati. Non aveva però abbastanza fili colorati e quindi decise di salire in paese con la prima corriera del mattino che passava alle sette. Vestita era già vestita, doveva solo rifare la treccia e arrotolarla poco sopra la nuca e mettersi u’ maccaturi a fiori, che era il più elegante. Alla fermata della corriera c’erano solo altre due donne che andavano in paese e fece con loro quelle chiacchiere semplici da buone vicine che si incontravano di rado. Le piaceva sempre moltissimo guardare dal finestrino, come se fosse stata una bambina e riconoscere via, via, le contrade, ripetere tra sé il loro nome, guardare oltre il Varc’u bufalu verso la Vaddra Sala con sullo sfondo le montagne di Fagnano. Quando la corriera raggiunse il capolinea vicino alla piazza della cattedrale, Maria scese con la sua borsetta di pelle nera ben salda in mano e il cestino in equilibrio sulla testa come facevano tutte le donne. Andò subito nella merceria della famiglia Piccolillo dove si concesse un tempo congruo per scegliere le sete e i cotoni da ricamo. Comprò molto di più di quanto non avesse previsto, ma ne fu contenta. Non erano certo i soldi che le mancavano, lavorava duro, risparmiava quasi tutto, mangiava le verdure del suo orto e le uova delle sue quattro galline. 

In quella mattina di prima estate, tutto scintillava nel sole, il grano maturo cadeva sotto le falci della mietitura e i gelsi erano carichi di frutti ancora trasparenti, che sarebbero diventati color avorio o rosso cupo e che avrebbero fatto la felicità dei bambini, mentre le foglie sarebbero state il pasto dei poveri bachi, innocenti condannati a non vedere mai la luce come farfalle, se non i pochi destinati alla riproduzione. Ma che bella seta che facevano! Ripensava Maria, ai filati che aveva comprato da poco e non vedeva l’ora di mettersi al lavoro. Prima, però, voleva passare da Don Noschero a farsi preparare un panino con la mortadella, un lusso che si concedeva due o tre volte all’anno quando andava in paese. Il panino era buonissimo, proprio come lo ricordava, e poi ci bevve sopra una limonata fresca, appena fatta, piena di cubetti di ghiaccio e che era una vera delizia. Il viaggio di ritorno le fece ripercorrere a ritroso gli stessi paesaggi, un po’ meno brillanti perché la mietitura era avanzata moltissimo e nel giro di un paio di giorni i campi sarebbero stati bruciati e l’odore delle stoppie avrebbe riempito l’aria tutto intorno. Quando arrivò a casa entrò a depositare i suoi acquisti e poi andò nel pollaio per far uscire le galline che andarono subito a razzolarle intorno quando gettò le granaglie per sfamarle. Nei nidi c’erano quattro uova ancora tiepide che raccolse e portò in casa. Dall’orto ritornò con mezza dozzina di peperoni verdi a cornetto, basilico, cipolla e un bel pomodoro grande e maturo. Si sentiva bene Maria, tra gli oggetti e il cibo che avrebbe preparato per il pranzo. Visto che non aveva ancora fame, con molta calma e precisione ritagliò il primo lenzuolo e fermò un rettangolo nell’intelaiatura da ricamo. Decise che avrebbe ricamato il cielo e le montagne di Fagnano e lavorò veloce, con le dita abili che non avevano bisogno di seguire uno schema disegnato, perché le immagini lei ce le aveva stampate negli occhi. Dopo due ore di lavoro alacre era già oltre la metà dell’opera. Era molto soddisfatta di quel che aveva realizzato e non vedeva l’ora di ricominciare. Scacciò dalla cucina la gallina Bianchina che entrava sempre a cercare supplementi di cibo e mise a friggere i peperoni verdi. Che profumino da acquolina in bocca arrivava dalla padella! Tagliò una larga fetta di pane, mise nel piatto di terracotta con le decorazioni verdi il suo pranzo e apparecchiò la tavola sotto il pergolato. Com’era alto il canto delle cicale, chissà cosa stavano cantando. Sapeva che il sonno sarebbe venuto a cercarla proprio a quell’ora, così andò a sdraiarsi sul letto, nella stanza fresca perché aveva tenuto gli scuri chiusi. Si addormentò senza accorgersene e nel sonno sognava di ricamare una donna addormentata all’ombra di una grande quercia. Assomigliava alla sua amica Maria che abitava più avanti, sulla strada che portava al paese.

Ecco che per questa Cronaca 470 di lunedì 21 giugno del secondo anno senza Carnevale, giorno del solstizio d’estate, torno a scrivere una piccola storia calabrese, una di quelle che è venuta a cercarmi senza che io l’avessi chiamata.

domenica 20 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/469. Tra i campi di orzo e le querce, si ergeva la casa segreta

 


 

L’ultima volta che aveva attraversato la campagna in auto, per arrivare fino alla casa che era diventata il suo rifugio, il grano era verde appena punteggiato dai primi papaveri. Oggi, invece il grano era giallo oro e risplendeva anche del rosso dei papaveri e dell’azzurro dei fiordalisi. Si era ormai al solstizio d’estate e a breve sarebbe iniziata la mietitura e i campi sarebbero ridiventati spogli nel giro di pochi giorni. Era così bello quel paesaggio che la donna decise di fermare l’auto e di andare a guardare. Ma non fece solo questo, si addentrò tra le spighe alte sfiorandole con i palmi delle mani ben aperte. Era un solletico piacevole, così come era piacevole sentire le cicale che cantavano senza sosta. Sul crinale tra la due province, l’alta valle della Versa dava il meglio di sé. Tutto frusciava nel gioco del vento, raccolse alcune spighe con dei fiordalisi e un solo papavero rosso che si affrettò a rinchiudere tra le pagine del romanzo che stava leggendo perché sarebbe sfiorito nel giro di pochi minuti. Uno dei motivi per cui aveva scelto proprio quella casa era la sua invisibilità. Dalla strada principale era impossibile notarla e anche la brusca svolta a sinistra nel bosco era nascosta da diversi arbusti.

Dopo essersi inoltrati per qualche centinaio di metri, si attraversava la proprietà di Armando, un bizzarro uomo di mezza età la cui famiglia era stata padrona del paese fino a metà Novecento. Lui viveva nella villa padronale e aveva riattato le case dei contadini per farne stanze da affittare ai suoi amici cacciatori e, quando ne aveva voglia, cucinava ottimi piatti della tradizione, tra cui uno stufato di funghi, broccoli e castagne di cui era impossibile stancarsi. La donna rallentò per guardare verso le sue finestre e vide che erano aperte. Armando non si allontanava mai neanche d’inverno, si faceva portare dal paese le cose che gli servivano e la moglie e i figli salivano a trovarlo quando lui dava loro udienza. Dopo la proprietà di Armando, la strada continuava in un bosco di querce e poi, anziché continuare a salire sul crinale della collina, piegava dolcemente a destra e scendeva fino alla sua casa che era un vecchio casale in parte recuperato di mattoni a vista, con un camino in ogni stanza, pavimenti di pietra e cotto, i soffitti a cassettoni di legno. Le era sembrato un miracolo già poterlo affittare, ma quando il vecchio proprietario, per fare un dispetto ad Armando con cui correvano ruggini pluridecennali, le aveva offerto di comprarla, non aveva esitato un momento. Armando lo avrebbe comprato volentieri per poter chiudere la strada, ma si rassegnò perché si erano conosciuti, lei ogni tanto andava a cena nella sua locanda segreta e, soprattutto, non aveva mai portato ospiti con sé. Subito dopo le querce il paesaggio si riapriva e i campi di orzo verdeggianti le offrirono il meglio che avevano. Fermò l’auto e scese ad aprire il cancello, ma poi tornò un po’ indietro e andò a sdraiarsi in mezzo all’orzo e ad ascoltare il vento, di nuovo il vento, che era una delle sue ossessioni. Non si fermò a lungo, portò l’auto nella rimessa e, insieme alle valigie, scarico anche i borsoni con vecchi oggetti e libri che non si decideva a dare via. Fu in quel momento che pensò che la casa segreta sarebbe diventata una specie di museo dei suoi io passati, aveva bisogno di farlo per smettere di pensare a quel che era stato e iniziare ad immaginare ciò che avrebbe potuto essere. Aprì tutte le finestre per far cambiare l’aria anche se in casa c’erano profumo di fieno e di legna bruciata nel camino.

Da che parte iniziare a sistemare le cose? Da che stanza soprattutto? Decise che ci avrebbe pensato e che quello era solo l’inizio di questa vita segreta.

La Cronaca 469 di domenica 20 giugno del secondo anno senza Carnevale, l’ultimo giorno di primavera, svolazza su questi campi di orzo e su questo nuovo filone di storie che amano la campagna.

sabato 19 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/468. Ritorneremo ai frammenti delle nostre stelle

 


 

Non sapeva dove fosse, sentiva solo lo sciabordio delle onde molto vicino e si sentiva cullata, come se fosse su una barca non tanto grande. Ma poi si rese conto che lo sciabordio faceva parte di un sogno, mentre il rumore delle onde era reale. Dalla finestra socchiusa e ombreggiata dagli scuri che facevano filtrare solo lame di luce, entrava anche un piccolo vento profumato di salsedine, quindi doveva essere in riva al mare. Ma poi non sentì i gabbiani come si aspettava, ma le rondini e il ricordo delle città mediterranee che aveva visto, fu un tutt’uno con quella luce mattutina. Decise di non aprire gli occhi, non ancora, e di ascoltare solo quei suoni dove non c’era nessuna voce umana a sovrastare tutti gli altri.

 

 

Il viaggio che non sappiamo se mai finirà

 

 

Poiché è abbastanza azzurra

l’alba e chiaro il nostro cielo,

andiamo per i sentieri senza

guardare indietro, andiamo e

lievi sulla terra non lasciamo

che poche impronte e nessun

sospiro, in questa luogo dove

vivono l’immaginazione e anche

il vento, che sempre cerca nuove

voci per il suo coro oscillante,

mentre le onde di ogni mare

proteggono il viaggio di chi è

partito senza avere una meta.

Come noi che non sappiamo

se mai questo viaggio finirà,

se scopriremo terre sconosciute

o se saremo costretti alle eterne

ripetizioni di noi che siamo

arrivati in scena a spettacolo

già iniziato e le voci degli astanti

sono frammenti di quelle stelle

dove dovremo ritornare.

 

 

Come alla maggior parte delle persone l’interno delle palpebre si affolla di immagini sconosciute, quando si è fermi tra la veglia e il sonno, così lei sentiva le voci che arrivavano in coro, tutte insieme, dal profondo del suo orecchio e dopo le voci, ecco il ritmo della poesia che chiamava a sé le immagini e tutto allora aveva un senso e anche una direzione.

Così è stato il risveglio di questo sabato 19 giugno del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 468 ha iniziato a gorgheggiare molto presto, poco dopo l’alba e ora si commiata dal mondo con gli ultimi bagliori di questo felice tramonto estivo.

venerdì 18 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/467. Tra la rugiada e il sonno delle rose

 


La solitudine è la condizione umana che meglio si sposa con la poesia che di solitudine si nutre e fiorisce. Nella solitudine e nell’amore per la solitudine affondano le radici della poesia e del poeta, ne sono certa, ma da questa solitudine si promanano rami, foglie, fiori e frutti che sono espressione della tensione del poeta verso il mondo. La poesia è anche la solitudine che cerca una voce e parla al mondo. La poesia è fatta per essere letta nella solitudine, dopo esserlo stata scritta, ma il desiderio è quello di cercare, con lievi e invisibili tentacoli, le solitudini degli altri e di farle parlare. La solitudine del poeta non è auto-referenziale, è una solitudine in cerca di compagnia, di condivisione, non tanto per eliminarla, ma per affiancare un senso collettivo al senso personale e singolare di chi. nella solitudine sta per scelta e fiorisce per necessità. Dall’incontro del mondo con la solitudine nasce poesia, come se solitudine e mondo fossero antichi dèi e ninfe che hanno bisogno l’uno dell’altra per poter creare. E così è infatti, è dall’incontro e dal “matrimonio” degli opposti che scaturiscono l’essere e la poesia. Non sappiamo mai prima cosa potrà scaturire dal nostro incontro con il mondo e con l’Altro da noi. Ci sono incontri fortunati che favoriscono queste fioriture e noi ne beneficiamo come se fosse la cosa più semplice e naturale. Allora la solitudine, avvolta nel suo bozzolo di silenzio, può avventurarsi nei territori sconosciuti dell’Altro, porgere i propri doni e accettare i doni che ci vengono porti. Dal bozzolo di silenzio emerge così quella dimensione sonora della solitudine, così come la canta San Giovanni della Croce, e il nostro stare al mondo in veste di poeta, sboccia e raggiunge la piena maturità, quella condizione che ci fa intravedere la direzione giusta per noi, che ci fa riconoscere la poesia negli scritti degli altri e ci fa navigare in quel mare dove parole e silenzio si alternano in un gioco di vuoto e pieno che rammenta il suono delle onde in un giorno di calma di vento.

 

 

 

Il giardino dove fiorisce il silenzio

 

Cosa possiamo cantare che già

non lo sia stato? Cosa resta

a noi che arriviamo aggrappati

alla coda del tempo? Le stelle

si sbriciolano come le antiche

porcellane e nessuna voce

resiste nel coro del vento, ma

noi continuiamo ignorando

le regole del canto e delle

opportunità, perché la nostra

voce possa oscillare tra questa

solitudine e il silenzio che inseguiamo

dentro ancora prima che oltre noi.

Così oscilla questo equilibrio tra

noi e il tempo, tra l’essere vicini

e troppo lontani, così oscilla questo

silenzio e noi lo vediamo germinare

ogni mattina, tra la rugiada e

il sonno delle rose in fondo al

giardino, in fondo all’alba che

ancora non ha, le sue dita rosate.

 

 

Questa giornata calda d’estate, venerdì 18 giugno del secondo anno senza Carnevale, ha chiesto poesia e la poesia è arrivata per accompagnare questa Cronaca 467 che si adagia all’ombra delle rose e mi culla con la sua voce lieve, mentre la notte è ancora un mistero di cui oggi non scriverò.