Nel quartiere in cui vivo stanno ristrutturando un negozio dove negli anni si sono succeduti vari ristoranti e pizzerie. Così ho visto che hanno svuotato magazzino e cantine perché c’erano mucchi di oggetti da cui era possibile risalire ai probabili proprietari. Tazze da caffè, piattini, piatti, vassoi, ciotole e scodelle, bicchieri da birra di varie fogge, pentole di terracotta. E poi libri e intere collezioni di fumetti, Linus, Zagor, Corto Maltese tra gli altri, e di fascicoli dedicati alle guerre nella storia. C’erano scaffali in metallo, pentole, portacandele, quadri, tutti i frammenti di varie vite ed esercizi commerciali che avevano occupato spazi in quel palazzo negli ultimi decenni. C’erano tre donne che curiosavano tra la montagna di oggetti e un uomo. Quando gli operai addetti allo sgombero si sono accorti dell’interesse di quei condomini, hanno cominciato a dire “gli scaffali, no, i bicchieri da birra no, le pentole di terracotta neanche, i nuovi proprietari del ristorante vogliono tenerli”, devono avere pensato che ci fosse qualcosa di un certo valore se quella gente che abitava in una bella casa d’epoca si stava impolverando per recuperare alcuni cose. Mi ha molto colpito quel confronto muro contro muro che si era scatenato tra i due gruppi. I condomini che di sicuro erano gente piena di oggetti e gli operai, tutti stranieri, dell’est dalla pronuncia, che di cose di certo non ne avevano molte. Così la mia passione sociologica ha preso il sopravvento e sono rimasta a guardare sino a che il confronto/scontro non è finito. L’uomo degli scaffali ha rinunciato ma si è preso un’alzatina di peltro per la frutta, le signore si sono spartite i libri e le riviste e ho sentito una che diceva alle altre di avere la cantina piena di oggetti lasciati dai gestori del ristorante che si sono volatilizzati un paio di anni fa senza più pagare i conti. Una storia come tante, una storia che contiene in sé tutte le storie della varia umanità che un tempo aveva scelto quegli oggetti e li aveva portati in casa o nel ristorante. In quel mucchio di cose provenienti da almeno gli ultimi cinque decenni, non ho potuto fare a meno di riconoscere il naufragio e la fine stessa del Novecento, il secolo che è finito nel Duemilaventi con la pandemia e non quando lo credevamo finito per convenzione con l’avvento dell’anno Duemila. Oggi siamo ancora nel pieno di un evento che ha mutato le modalità lavorative, scolastiche e sociali. Il dopo è presumibile, ma non certo, possiamo avere speranze ma non certezze. Così ho ripreso la mia camminata sino a che non è il sole non è tramontato, ho guardato le prime fioriture e sono ritornata sui miei passi, fantasticando sul passare del tempo, sul succedersi delle generazioni, su quello che di noi lasceremo ai posteri, a chi ci ama, ai nostri discendenti.
Gli oggetti parlano, è vero. Dicono di chi li ha
costruiti e di chi li ha comprati, usati e poi gettati. Ma è negli occhi e nei
capelli, nella corporatura, in uno sguardo, un gesto, una posa della mano, un
piegamento della testa che vedo genitori, nonni e zii replicarsi nelle giovani
generazioni, l’unica vera eredità di questa terra è il mistero della lotteria
genetica che ci ha dato corpo e lineamenti che siamo, e una minore o maggiore
resistenza al virus. Cosa sono gli anni, cos’è il tempo, cosa sono le
generazioni? Torno a casa e mi metto a guardare vecchie fotografie, a
commuovermi su quei volti che il tempo ha mutato o divorato, mentre tutti
insieme vaghiamo per lo spazio e conosciamo poco e niente tutto l’universo che
ci contiene.
Oggi è mercoledì 10 marzo del secondo anno senza
Carnevale, un giorno scoppiettante di primavera e nostalgie.
Nessun commento:
Posta un commento